La cirrosi epatica è caratterizzata da una serie di complicanze che incidono profondamente sulla prognosi e sulla gestione clinica dei pazienti. Tra queste, la sarcopenia indotta dalla cirrosi, associata all’indebolimento fasciale secondario e all’ampliamento di difetti fasciali preesistenti, come quelli ombelicali, contribuisce a un’incidenza superiore di ernie rispetto alla popolazione generale, dove la prevalenza si attesta tra il 2% e il 4%. L’aumento della pressione intra-addominale dovuto all’ascite voluminoso favorisce la comparsa di queste ernie e le complicanze correlate, quali la fuoriuscita spontanea di liquido ascitico, la peritonite e persino l’eversione intestinale dovuta a necrosi cutanea sovrastante. Un controllo subottimale dell’ascite nel periodo perioperatorio è associato a tassi elevati di recidiva postoperatoria (fino al 75%), infezioni della ferita, peritonite e fuoriuscita di liquido ascitico.

La gravità della malattia epatica viene stratificata tramite score come MELD e la classificazione di Child-Pugh (CP), che si sono dimostrati fattori indipendenti di rischio per morbilità e mortalità. Pazienti con CP classe A o MELD inferiore a 10 possono essere considerati candidati a interventi elettivi, mentre per quelli con CP B/C o MELD superiore a 10 è essenziale ottimizzare la terapia medica, attraverso la regolazione della terapia diuretica, paracentesi ripetute o posizionamento di TIPS per ascite refrattaria. La riduzione immediata della pressione portale dopo queste procedure può ridurre la pressione sul difetto della parete addominale, anche se esiste un piccolo rischio di incarceramento erniario.

Nei pazienti con MELD superiore a 15 o CP C, la morbilità e mortalità perioperatoria sono così elevate da suggerire di limitare la riparazione erniaria al momento del trapianto epatico, se questi pazienti ne risultano idonei. Studi concordano nel consigliare la chirurgia elettiva, quando possibile, per prevenire complicanze e ottenere risultati postoperatori migliori. Nel caso di ernie complicate che richiedono intervento d’urgenza, è fondamentale un approccio aggressivo alla gestione dell’ascite, incluso il ricorso al TIPS, al fine di stabilizzare la pressione portalica e migliorare il controllo clinico.

L’iponatriemia, definita come concentrazione sierica di sodio inferiore a 130 mmol/L, rappresenta una delle complicanze più frequenti nei pazienti con cirrosi avanzata, con una prevalenza variabile tra il 20% e il 60%. È strettamente associata a esiti sfavorevoli, tra cui encefalopatia epatica, ascite refrattaria e sindrome epatorenale, con un impatto significativo sulla qualità della vita e sulla mortalità, anche post-trapianto. L’inclusione dell’iponatriemia nel punteggio MELD dal 2016 riflette la sua importanza come predittore di mortalità in lista d’attesa per il trapianto.

L’iponatriemia diluzionale si sviluppa in seguito all’ipertensione portale e alla vasodilatazione splancnica, che riducono la pressione arteriosa media e quindi il volume ematico efficace, attivando meccanismi neuroormonali come il sistema renina-angiotensina-aldosterone e il rilascio di vasopressina, con conseguente ritenzione di sodio e acqua e incapacità di diluire adeguatamente l’urina (osmolarità urinaria ≥100 mOsm/kg).

La gestione dell’iponatriemia nei pazienti cirrotici è indicata soprattutto in presenza di sintomi (nausea, letargia, confusione, crisi convulsive) o se la concentrazione di sodio scende sotto 125 mEq/L. La correzione rapida nelle forme severe (4-6 mEq/L in un’ora) con soluzione salina ipertonica è riservata ai casi acuti, mentre nei casi cronici il ritmo di correzione deve essere più lento (circa 4 mmol/L al giorno). La sospensione dei diuretici, la correzione dell’ipokaliemia e la restrizione idrica (1-1,5 L/die) sono misure fondamentali, anche se la compliance è spesso problematica. La somministrazione di albumina è indicata in casi severi (<120 mEq/L). L’uso di antagonisti della vasopressina è limitato da effetti epatotossici e benefici transitori, riservati a situazioni selezionate come i candidati al trapianto.

L’uso di beta-bloccanti in pazienti con cirrosi compensata ha dimostrato di ridurre l’incidenza dell’ascite e il rischio di sanguinamento varicoso, migliorando la sopravvivenza libera da scompenso. Tuttavia, nella fase avanzata della malattia questi benefici si perdono e l’impiego può aumentare la mortalità, portando a raccomandazioni di sospensione in presenza di ascite refrattaria, ipotensione (pressione sistolica <90 mmHg), iponatriemia o insufficienza renale (creatinina >1,5 mg/dL). La pressione arteriosa media è un importante predittore di sopravvivenza e il mantenimento di una pressione adeguata dipende dall’attivazione dei sistemi vasocostrittori endogeni. Pertanto, l’uso di ACE-inibitori, antagonisti dei recettori dell’angiotensina II e alfa-bloccanti deve essere evitato, in quanto compromettono la compensazione vascolare e possono precipitare insufficienza renale.

La sindrome epatorenale (HRS) è stata storicamente considerata una forma funzionale di insufficienza renale dovuta a ipoperfusione renale secondaria a riduzione del volume ematico efficace causata da vasodilatazione sistemica e splancnica e da disfunzione cardiaca. La sua classificazione è stata aggiornata con le definizioni di HRS-AKI (precedentemente HRS-1) e HRS-NAKI (ex HRS-2), riflettendo una migliore comprensione della patogenesi, che include l’infiammazione sistemica, lo stress ossidativo e il danno tubulare diretto, suggerendo la presenza di una componente strutturale oltre che funzionale. L’aumento dei biomarcatori di danno tubulare in HRS-AKI giustifica la scarsa risposta terapeutica in alcuni pazienti e spinge a strategie diagnostiche e terapeutiche più raffinate. L’International Club of Ascites ha recentemente rivisto la definizione e i criteri diagnostici di AKI nei cirrotici, abbassando la soglia diagnostica per un aumento significativo della creatinina, e riconoscendo che le principali cause di AKI sono l’ipovolemia prerenale, l’HRS e la necrosi tubulare acuta, spesso difficili da distinguere clinicamente.

Oltre ai fattori descritti, è fondamentale comprendere che la gestione delle complicanze della cirrosi epatica richiede una valutazione multidimensionale che consideri non solo la gravità clinica della malattia ma anche l’interazione tra i diversi sistemi organici coinvolti. La sinergia negativa tra insufficienza epatica, alterazioni emodinamiche, danno renale e squilibri elettrolitici rappresenta un circolo vizioso che necessita di interventi mirati e tempestivi. La personalizzazione della terapia, l’ottimizzazione dello stato nutrizionale e il monitoraggio continuo delle funzioni vitali costituiscono pilastri imprescindibili per migliorare la prognosi e la qualità di vita di questi pazienti.

Come trattare l'infezione da Clostridioides difficile (CDI) e le sue complicazioni?

L'infezione da Clostridioides difficile (CDI) è una delle principali cause di diarrea acquisita in ospedale e rappresenta una preoccupazione significativa in ambito sanitario. Le manifestazioni cliniche di CDI possono variare, dalla forma non grave a quella fulminante, e la gestione della malattia dipende dalla sua severità.

Un aspetto distintivo dell'infezione è la presenza di una pseudomembrana che si forma generalmente a partire da un punto di ulcera superficiale. Questa pseudomembrana è composta da fibrina, mucina, detriti di cellule epiteliali slavate e cellule polimorfonucleari, ed è accompagnata da infiammazione acuta e cronica della lamina propria. È possibile osservare questa condizione anche in caso di colite ischemica, come indicato da studi istologici.

Quando si parla di CDI severa, la definizione si basa su due parametri principali: la leucocitosi (numero di globuli bianchi >15.000 cellule/mm³) e i livelli elevati di creatinina sierica (>1,5 mg/dL). Un altro indicatore significativo è la presenza di albumina sierica bassa, che è spesso associata a esiti clinici sfavorevoli. Sebbene esistano diversi sistemi di punteggio per valutare la severità della CDI, questi si sono rivelati poco utili nella pratica quotidiana, ad eccezione dei fattori già descritti, che frequentemente corrispondono alla gravità del quadro clinico.

Nel caso della CDI fulminante, i pazienti si trovano in uno stato critico, con un rischio aumentato di mortalità. I segni clinici possono includere febbre e shock con ipotensione. Inoltre, i marcatori infiammatori, come la proteina C-reattiva e la calprotectina fecale (>2000 µg/g), possono risultare elevati. Un altro segno clinico di complicazione è la presenza di ileo, e una colite grave può evolvere in megacolon tossico, con possibilità di perforazione del colon o di morte a causa di insufficienza multiorgano.

Il trattamento della CDI si concentra principalmente sull'interruzione degli antibiotici implicati, se possibile. È fondamentale evitare l'uso di farmaci antidiarroici, poiché è necessario monitorare la frequenza delle scariche per valutare la risposta alla terapia. In caso di sospetto clinico, il trattamento empirico va avviato nei pazienti con malattia grave, mentre si attendono i risultati dei test diagnostici. Le opzioni terapeutiche comprendono principalmente due antibiotici orali: vancomicina e fidaxomicina, un antibiotico scarsamente assorbibile. In caso di CDI non grave, vancomicina o fidaxomicina sono i trattamenti raccomandati. La metronidazolo orale può essere utilizzata come prima linea in pazienti a basso rischio con malattia lieve, ma solo in contesti con risorse limitate dove non sia disponibile vancomicina.

Nei casi di CDI grave, sono indicati vancomicina orale o fidaxomicina. Il trattamento tipico dura dieci giorni. Nei casi di CDI fulminante, si raccomandano dosi più elevate di vancomicina orale, con la possibilità di aggiungere metronidazolo endovenoso e clisteri di vancomicina se è presente ileo. I pazienti con malattia fulminante che non rispondono alla terapia medica massimale potrebbero necessitare di una consulenza chirurgica, con opzioni che includono la colectomia totale con ileostomia finale o ileostomia a loop con lavaggio colonico e somministrazione di vancomicina intraluminale post-operatoria. Nei casi refrattari agli antibiotici, il trapianto di microbiota fecale (FMT) può essere preso in considerazione, in particolare per i pazienti non idonei per interventi chirurgici.

Nel trattamento della CDI recidivante (rCDI), circa il 20% dei pazienti sviluppa una recidiva nonostante il trattamento. Questo può essere dovuto all'alterazione del microbioma intestinale o alla persistenza delle spore nell'ambiente, che porta a una nuova esposizione al batterio. La rCDI è definita come una recidiva della diarrea, accompagnata da un test diagnostico confermatorio (NAAT o EIA) effettuato entro otto settimane dalla fine del trattamento dell'infezione iniziale. I pazienti che sperimentano una recidiva sono a maggior rischio di ulteriori ricadute. Il trattamento raccomandato per la prima recidiva è un regime di vancomicina a dosaggio pulsato, o fidaxomicina se il trattamento iniziale è stato con vancomicina.

Se le recidive continuano, l'obiettivo non è solo eliminare il patogeno con gli antibiotici, ma ripristinare il microbioma intestinale normale, attraverso trattamenti come il FMT. Il FMT consiste nel trasferimento di batteri sani da un donatore sano a un ricevente con microbioma alterato, come nel caso della CDI. Il trattamento ha l'obiettivo di ristabilire un microbioma intestinale diversificato e normale. I risultati sono molto promettenti, con tassi di successo fino al 98%. Se il paziente non è idoneo per il FMT, può essere presa in considerazione una terapia a lungo termine con vancomicina a basso dosaggio.

Infine, i pazienti con malattie infiammatorie intestinali (IBD), come la colite ulcerosa o la colite di Crohn, sono a rischio aumentato di CDI. Questo rischio è indipendente dall'età o dalla terapia immunosoppressiva in corso. In questi pazienti, la CDI deve essere sospettata ogni volta che vi è un cambiamento nei sintomi o una preoccupazione per un possibile aggravamento della malattia. Il trattamento in questi casi deve essere effettuato con vancomicina orale, mentre fidaxomicina e metronidazolo non sono raccomandati.

Il controllo delle epidemie di CDI in ospedale si basa su una strategia fondamentale: l'isolamento dei pazienti con CDI confermata o sospetta. I pazienti dovrebbero avere bagni personali finché la diarrea non si risolve, e le stanze dei pazienti devono essere dotate di attrezzature dedicate. È essenziale utilizzare indumenti protettivi e guanti, e praticare una corretta igiene delle mani con acqua e sapone. Poiché la resistenza agli antibiotici è un problema crescente, si raccomanda una gestione adeguata degli antibiotici.

Come si determina la gravità e l’attività dell’infezione da epatite B e qual è il ruolo della biopsia epatica e dei test non invasivi?

La biopsia epatica rappresenta attualmente l’unico metodo capace di rilevare simultaneamente la fibrosi e l’infiammazione nel fegato, elementi essenziali per valutare la gravità e l’attività della malattia da epatite B. Le decisioni terapeutiche differiscono significativamente tra pazienti con fibrosi avanzata o cirrosi e quelli con un quadro istologico più lieve. Nei casi di cirrosi, il rischio di carcinoma epatocellulare (HCC) aumenta e si rende necessario un monitoraggio più intensivo, che include anche lo screening per varici esofagee. La biopsia assume quindi un ruolo cruciale nella selezione dei pazienti che necessitano di osservazione più attenta e screening appropriati. È importante sottolineare il valore diagnostico della biopsia anche in pazienti con elevati carichi virali (>2000 IU/mL) ma con valori normali degli enzimi epatici: la presenza di infiammazione o fibrosi costituisce un’indicazione forte per l’inizio della terapia.

Nonostante la biopsia rimanga il gold standard, la sua natura invasiva comporta rischi non trascurabili. Per questo motivo sono stati sviluppati diversi test non invasivi per la valutazione della fibrosi epatica, principalmente basati su biomarcatori sierici e sull’elastosonografia. Tra i biomarcatori si ricordano l’APRI (indice di rapporto aspartato aminotransferasi-piastrine) e il FIB-4, che integrano parametri come AST, ALT, piastrine e età per prevedere la fibrosi. L’elastografia, tramite ultrasuoni o risonanza magnetica, misura la rigidità epatica ed è generalmente più accurata dei test sierici. Tuttavia, un limite importante di queste metodiche è la tendenza a sovrastimare la fibrosi in presenza di necroinfiammazione acuta, tipicamente indicata da un aumento degli enzimi ALT. Pertanto, la valutazione della rigidità epatica deve sempre tenere conto del livello di ALT al momento dell’esame.

Il ruolo dell’antigene e (HBeAg) nel determinare la necessità di trattamento è storicamente riconosciuto come indicatore di elevata replicazione virale. Tuttavia, un numero significativo di pazienti è infettato da varianti mutate del virus che non producono HBeAg pur mantenendo elevati livelli di replicazione virale. In questi casi, la negatività per HBeAg non implica necessariamente una bassa carica virale. I virus mutanti HBeAg-negativi tendono a replicarsi meno efficientemente rispetto al ceppo “wild type” HBeAg-positivo, con livelli virali generalmente più bassi e fluttuanti. Per questo motivo, la carica virale (HBV DNA) è il parametro principale per decidere l’indicazione alla terapia, con soglie differenti: >20.000 IU/mL per infezioni HBeAg-positive e >2.000 IU/mL per infezioni HBeAg-negative mutate.

Gli obiettivi della terapia antivirale per l’epatite B si concentrano sul raggiungimento della “cura funzionale”, definita come la scomparsa dell’antigene di superficie (HBsAg) nel siero, eventualmente accompagnata dalla comparsa di anticorpi anti-HBs. Questa condizione riflette una soppressione prolungata della replicazione virale, benché il DNA virale possa persistere nel fegato, integrato nel genoma cellulare. La completa eradicazione del virus, che include la rimozione totale del DNA virale covalente circolare chiuso (ccDNA), non è ancora raggiungibile con le terapie attuali, sebbene siano in sviluppo nuove strategie farmacologiche con questo scopo.

La durata della terapia antivirale dipende principalmente dalla positività o negatività per HBeAg e dalla presenza o meno di cirrosi. Nei pazienti con cirrosi e positività per HBsAg, il trattamento deve proseguire a vita o fino alla clearance di HBsAg per evitare scompenso clinico dovuto a ricadute virali. Nei pazienti senza cirrosi e HBeAg-positivi, il trattamento continua fino a raggiungere la negativizzazione di HBeAg e la seroconversione verso anti-HBe, confermata da due test a distanza di almeno due mesi. Questo processo può richiedere oltre cinque anni e, anche dopo la negativizzazione, è raccomandata la prosecuzione della terapia per almeno un anno per ridurre il rischio di recidiva. Nei pazienti HBeAg-negativi senza cirrosi, la terapia viene generalmente mantenuta a vita o fino alla clearance di HBsAg.

Tra le opzioni terapeutiche attualmente più efficaci vi sono gli analoghi nucleosidici e nucleotidici orali come entecavir, tenofovir disoproxil fumarato (TDF) e tenofovir alafenamide (TAF). Questi farmaci, somministrati quotidianamente, inibiscono la replicazione virale senza potenziare direttamente la risposta immunitaria. Hanno un alto potere antivirale e una barriera elevata allo sviluppo di resistenze, che rimangono rare nel corso di anni di trattamento. Il profilo di sicurezza è generalmente eccellente, anche se l’uso prolungato di TDF può essere associato a effetti renali e ossei. La scelta tra entecavir e tenofovir dipende da vari fattori clinici e deve essere personalizzata.

È fondamentale comprendere che la gestione dell’epatite B cronica richiede un approccio complesso e multidimensionale che integra l’analisi istologica, la valutazione non invasiva della fibrosi, il monitoraggio della replicazione virale e la considerazione di variabili individuali come la presenza di mutazioni virali e la condizione epatica sottostante. La terapia, benché efficace nel sopprimere il virus e prevenire le complicanze, non elimina completamente l’infezione, e pertanto la sorveglianza a lungo termine rimane un pilastro imprescindibile per la prevenzione delle evoluzioni neoplastiche e per la gestione delle recidive.