Le disparità economiche tra famiglie a basso e alto reddito hanno un impatto significativo sul futuro delle nuove generazioni. Le famiglie benestanti, infatti, possono permettersi di garantire ai propri figli opportunità che, in termini economici, li pongono in una posizione favorevole nel lungo periodo. Tra queste opportunità ci sono residenze in quartieri sicuri, accesso a scuole di qualità, un'adeguata alimentazione, un buon sistema sanitario, l'educazione della prima infanzia, interventi per disabilità di apprendimento e esperienze arricchenti come i viaggi. Al contrario, le famiglie meno abbienti, che spesso non dispongono di risorse sufficienti, non sono in grado di offrire ai propri figli gli stessi vantaggi.

Secondo i dati del Survey of Consumer Finances (SCF), la differenza di ricchezza tra famiglie con figli nel gruppo inferiore della distribuzione e quelle nel gruppo superiore è cresciuta costantemente negli ultimi ventiquattro anni. Recentemente, questo divario si è ulteriormente ampliato. Ad esempio, la ricchezza mediana delle famiglie con figli appartenenti alla metà inferiore della distribuzione è scesa da 13.000 dollari nel 2007 a 8.000 dollari nel 2013, una perdita del 40%. Sebbene questi livelli di ricchezza possano sembrare modesti rispetto alle cifre molto più alte delle famiglie appartenenti alla fascia successiva, anche queste hanno visto una diminuzione della loro ricchezza mediana, che è scesa di un terzo, passando da 344.000 dollari nel 2007 a 229.000 nel 2013. Le famiglie appartenenti al top 5%, invece, hanno visto una diminuzione marginale, pari al 9%, con la ricchezza mediana che è scesa da 3,5 milioni di dollari nel 2007 a 3,2 milioni nel 2013.

Questo scenario evidenzia chiaramente come le disuguaglianze economiche influenzino in modo significativo le opportunità delle future generazioni. La qualità dell'istruzione e l'accesso alle risorse educative sono determinanti fondamentali per la mobilità sociale. Le famiglie a basso reddito si trovano ad affrontare difficoltà nell'investire nella formazione e nella salute dei propri figli, sia in termini di quantità che di qualità. Al contrario, le famiglie ad alto reddito spesso vivono in quartieri dove sono presenti scuole di qualità, possono permettersi di pagare rette scolastiche elevate e godono del supporto delle loro reti professionali, creando un circolo vizioso che rafforza le disparità economiche.

Questa disparità nella qualità dell'istruzione si riflette in una mobilità economica limitata. Le opportunità di salita sociale sono infatti più rare per coloro che appartengono ai gruppi a basso e medio reddito. L'OECD (2018) ha rilevato che in paesi con disuguaglianze più basse, la mobilità intergenerazionale dei redditi è più alta. La mobilità dei redditi tra generazioni è strettamente legata all'istruzione: i bambini provenienti da famiglie più povere hanno minori opportunità di accedere a un'educazione di qualità e, di conseguenza, anche i loro guadagni futuri saranno limitati. L'analisi della "Great Gatsby Curve", sviluppata dall'economista Richard Corak, suggerisce che i paesi con alta disuguaglianza economica tendono ad avere anche una bassa mobilità sociale. In altre parole, l'ineguaglianza economica, oltre a essere moralmente inaccettabile, è anche un ostacolo per la mobilità sociale.

Questa correlazione negativa tra disuguaglianza e mobilità intergenerazionale è spiegata, in gran parte, da come le disuguaglianze influiscano sull'accumulo di capitale umano. Le famiglie a basso reddito spesso non riescono a investire adeguatamente nell'educazione e nella salute dei propri figli, compromettendo così le possibilità di una futura crescita economica. Al contrario, le famiglie benestanti possono permettersi non solo di pagare scuole migliori, ma anche di fare investimenti aggiuntivi, come corsi extracurriculari, tutoraggi privati, attività culturali e professionali che ampliano le opportunità di successo per i loro figli.

La mobilità sociale è cruciale per la coesione e la stabilità di una società. Quando il divario tra le classi sociali è troppo ampio e la mobilità è bassa, la società tende a diventare meno equa, con un minor numero di persone in grado di avanzare nella scala sociale. Questo scenario non è solo un problema economico, ma anche sociale, poiché le disuguaglianze economiche rafforzano e perpetuano le disuguaglianze sociali.

L'incremento della disuguaglianza economica ha inoltre un impatto diretto sulle politiche educative. Un maggiore investimento pubblico in aree con scuole svantaggiate potrebbe contribuire a ridurre la disuguaglianza e migliorare le opportunità per tutti, indipendentemente dal reddito della famiglia. A livello globale, l'OECD ha dimostrato che una distribuzione del reddito più equa è strettamente legata a una maggiore mobilità intergenerazionale. I paesi nordici, che combinano bassa disuguaglianza e alta mobilità economica, offrono un modello positivo da seguire.

Un ulteriore aspetto fondamentale da considerare riguarda le differenze nel valore economico del tempo libero. Le società europee, infatti, offrono ai propri lavoratori un numero di giorni di ferie significativamente più elevato rispetto agli Stati Uniti. Questo non solo migliora la qualità della vita, ma ha anche un impatto sull'efficienza lavorativa e sul benessere generale della forza lavoro. Le ferie e il tempo libero sono risorse importanti che influenzano la salute, la produttività e, indirettamente, anche le opportunità di mobilità sociale.

Quali sono le differenze strutturali e gli effetti delle politiche di welfare tra Stati Uniti ed Europa?

Le differenze nei sistemi di welfare tra Stati Uniti ed Europa sono profonde e influenzano in maniera sostanziale la distribuzione del reddito e la protezione sociale dei cittadini. Nei paesi nordici, come la Svezia, i pagamenti sostitutivi in caso di disoccupazione possono durare fino al pensionamento, mentre in Germania si fermano dopo 78 settimane e negli Stati Uniti generalmente dopo sei mesi. Il rapporto di sostituzione (ossia la percentuale del reddito perso sostituita dai sussidi) è circa il 50% negli USA, il 59% nell’Unione Europea e solo il 38% nel Regno Unito, che però offre un supporto più lungo, fino a quattro anni.

Questi dati evidenziano un quadro complesso: il reddito dopo le tasse è meno diseguale nei paesi nordici, più moderato in Europa centrale e meridionale, mentre risulta più elevato nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Le riforme recenti in Germania, seppur riducendo leggermente i benefici per la disoccupazione, mantengono un sistema più generoso rispetto agli USA, che fanno invece affidamento in misura maggiore sulla solidarietà privata, come dimostrato dal più alto tasso di partecipazione a organizzazioni di beneficenza (11% contro il 2% in Danimarca).

La domanda di sicurezza sociale sembra correlata all’apertura dell’economia: indicatori più raffinati, come le esportazioni a valore aggiunto corrette per la dimensione del paese, suggeriscono una leggera correlazione positiva tra l’apertura agli investimenti diretti esteri (FDI) e il livello delle trasferenze sociali, mentre l’apertura commerciale tradizionale mostra una correlazione negativa. Questo implica che paesi maggiormente integrati in reti globali di investimento tendono a offrire una maggiore protezione sociale.

L’analisi della volatilità economica e del rapporto trasferimenti/PIL non offre però risposte semplici. Un alto livello di trasferimenti sociali potrebbe sia aumentare la volatilità dell’output, riducendo gli investimenti e la crescita di lungo periodo, sia permettere maggiori investimenti in capitale umano, con potenziali effetti positivi sulla crescita e un aumento della volatilità. Pertanto, la causalità tra protezione sociale e stabilità economica resta ancora da approfondire.

Le differenze nelle preferenze per la redistribuzione tra USA ed Europa possono anche essere spiegate dai sistemi politici: la rappresentanza proporzionale europea permette alle minoranze più povere di influenzare maggiormente le politiche redistributive rispetto al sistema maggioritario a “first past the post” tipico di USA e Regno Unito. Inoltre, la maggiore mobilità sociale attesa negli Stati Uniti, seppur messa in dubbio dai dati empirici sulla persistenza delle posizioni di reddito tra generazioni, potrebbe influenzare una minore domanda di redistribuzione.

È importante considerare come queste dinamiche si inseriscano in un quadro di trasformazioni sociali ed economiche più ampio: la crescente disuguaglianza negli USA è destinata probabilmente ad aumentare, soprattutto in assenza di politiche redistributive più efficaci. Tuttavia, tassi di disoccupazione relativamente bassi possono attenuare temporaneamente le problematiche legate alla povertà, anche se la sostenibilità sociale di questi sistemi resta una questione aperta.

Il lettore dovrebbe considerare che il welfare non è solo un costo o una spesa sociale, ma una componente essenziale della stabilità economica e della coesione sociale. La capacità di un sistema di welfare di proteggere i più vulnerabili può influenzare non solo la disuguaglianza, ma anche il potenziale di crescita economica a lungo termine, attraverso la promozione dell’investimento in capitale umano e la stabilizzazione del reddito familiare in condizioni di shock. Le differenze istituzionali e culturali tra continenti contribuiscono a spiegare perché politiche apparentemente simili producano risultati così divergenti. Comprendere queste interrelazioni è fondamentale per sviluppare strategie di politica economica che siano sia efficaci che sostenibili.

Come l'Autonomia Nazionale può Distruggere il Sistema Internazionale di Multilateralismo

La crescente tendenza verso il nazionalismo e la protezione economica rappresenta una sfida per l'equilibrio economico globale. Le politiche di "riprendere il controllo", che alcune nazioni avanzano come risposta alla globalizzazione, non sono solo irrealistiche ma anche intrinsecamente contraddittorie. In un mondo dominato da superpotenze economiche come gli Stati Uniti e la Cina, l'idea che un singolo stato possa affermare la propria sovranità economica al di fuori di un sistema multilaterale non solo è infondata, ma rischia di alimentare conflitti costosi e instabilità.

L'idea che rinunciare alla cooperazione internazionale possa portare ad un maggiore potere nazionale è illusoria. Il rinforzo della sovranità attraverso politiche isolazionistiche non comporterà un guadagno netto di potere per i singoli paesi, ma piuttosto porterà ad un aumento dei conflitti economici e militari. In un mondo dove le relazioni economiche e politiche tra nazioni sono intrecciate, ogni paese che si distacca dal sistema multilaterale si troverà di fronte a un panorama caratterizzato da crescenti incertezze e rischi. Gli effetti welfare per la maggior parte delle nazioni saranno negativi.

Molti sostenitori del populismo promuovono l'idea di "riprendere il controllo", senza tener conto delle evidenti contraddizioni in tale narrazione. Le politiche che abbandonano gli accordi internazionali e cercano di ripristinare l'autonomia nazionale sono alimentate da paure collettive e ignoranza. Storia e scienza insegnano che combinare queste forze non ha mai portato a prosperità duratura. I tragici esempi di impero, come nel caso del tardo Ottocento, o le politiche totalitarie degli anni Trenta, mostrano chiaramente quanto siano dannose le scelte politiche basate sull'ignoranza e sulla paura.

Le politiche nazionaliste, che sostengono che le piccole economie possano prosperare al di fuori di un sistema internazionale cooperativo, sono altrettanto fallimentari. Un piccolo stato, privo di alleanze internazionali, è costretto ad accettare le regole imposte dalle potenze più grandi. Se tutti i paesi intraprendessero politiche di isolamento, l'ordine mondiale diverrebbe un sistema di grandi potenze, dove i paesi più deboli si troverebbero a scegliere se essere vassalli degli Stati Uniti, della Russia o della Cina. Tale situazione non solo minaccerebbe la stabilità politica globale, ma indebolirebbe anche la posizione economica dei paesi coinvolti, che si vedrebbero costretti a cedere autonomia in settori cruciali come il commercio e la politica estera.

Prendere ad esempio il caso della Gran Bretagna, che ha scelto di uscire dall'Unione Europea: l'idea che il Regno Unito avrebbe potuto riconquistare il controllo sulla propria politica senza dover accettare compromessi con altre potenze globali è una visione ingenua. In realtà, l'uscita dall'UE non ha rafforzato la sua autonomia, ma ha esposto il paese ad una dipendenza maggiore dagli Stati Uniti, con la possibilità che il Regno Unito finisca per diventare uno stato vassallo, privo di voce in capitolo nelle negoziazioni internazionali, pur essendo legato da accordi economici e strategici con la superpotenza americana.

In sintesi, l'idea di "riprendere il controllo" senza compromettere la cooperazione internazionale è una visione che non si basa su una valutazione realistica dei cambiamenti geopolitici e dei legami economici globali. Le politiche nazionaliste non solo falliscono nel rafforzare la posizione di un paese, ma rischiano di portare a un ritorno a un mondo diviso in fazioni di potenze che si contendono il controllo, con effetti devastanti sulle economie più piccole e vulnerabili.

Il mondo moderno è intrinsecamente interdipendente. Ogni nazione, piccola o grande che sia, ha bisogno di cooperare con altre per prosperare. Le politiche protezionistiche non offrono soluzioni durevoli; al contrario, accelerano il processo di frammentazione e instabilità. I paesi devono capire che il rinnegare la cooperazione internazionale e il multilateralismo non è solo un passo verso la regressione, ma una minaccia per la stabilità e la pace globale.

Quali sono le conseguenze a lungo termine del populismo e del protezionismo economico negli Stati Uniti?

Il populismo e il protezionismo economico, caratteristici della politica di Trump, rappresentano una sfida strutturale non solo per gli Stati Uniti, ma anche per l'economia globale. La politica bilaterale proposta dall'ex presidente degli Stati Uniti è un'illusione che mina l'efficacia del sistema multilaterale e indebolisce le organizzazioni internazionali che da decenni governano la cooperazione economica globale. La decisione di adottare un approccio unilaterale nelle negoziazioni internazionali, senza il supporto delle alleanze tradizionali, può, infatti, ridurre la prevedibilità e la stabilità delle politiche economiche, alimentando potenziali conflitti a livello globale.

In primo luogo, la visione di Trump di ottenere vantaggi economici attraverso il bilaterismo non solo distrugge il capitale organizzativo delle istituzioni internazionali, ma danneggia anche la reputazione delle stesse. Questo indebolimento delle organizzazioni multilateraliste, a lungo dominato o influenzato dagli Stati Uniti, potrebbe avere effetti devastanti. In assenza di un ancoraggio istituzionale che coordini e regoli i comportamenti dei paesi, i governi potrebbero adottare politiche più radicali e imprevedibili, aumentando il rischio di conflitti internazionali. Il sistema multilaterale, che comprende organizzazioni come l'OMC, l'OCSE, e la NATO, è stato cruciale nel risolvere conflitti e garantire una certa stabilità. Le alleanze regionali, come l'UE, l'ASEAN e il Mercosur, hanno svolto un ruolo significativo nella gestione delle relazioni tra paesi, e l'abbandono di questo sistema potrebbe isolare gli Stati Uniti in un contesto internazionale frammentato.

Inoltre, l'orientamento verso il bilaterismo ha un impatto negativo sulle relazioni transatlantiche. Se la politica bilaterale diventa prevalente, le alleanze tradizionali tra Stati Uniti ed Europa si indeboliranno. La cooperazione economica e politica tra gli Stati Uniti e l'Unione Europea potrebbe essere messa a dura prova, e il futuro della NATO risulterebbe in grave pericolo. In uno scenario del genere, l'Europa potrebbe trovarsi ad affrontare una crescente incertezza sulla sua sicurezza, poiché la forza militare statunitense sarebbe meno presente, lasciando l'UE vulnerabile a pressioni esterne.

Un altro punto cruciale riguarda la crescente disuguaglianza interna negli Stati Uniti. Da decenni, le disuguaglianze economiche si sono ampliate, con un numero sempre maggiore di cittadini che vivono in condizioni di povertà. Trump, con la sua retorica populista, ha fatto leva su questa frustrazione, ma la sua politica economica ha avuto effetti limitati nel risolvere il problema delle disuguaglianze. La promozione del nazionalismo economico e l'incentivazione delle industrie protette, come quelle minerarie e manifatturiere, non sono soluzioni sostenibili nel lungo termine. Sebbene queste politiche possano ottenere supporto a breve termine, non affrontano le cause strutturali della disuguaglianza economica. L'economia statunitense è sempre più polarizzata, con una grande parte della popolazione che fatica a migliorare le proprie condizioni, mentre le élite economiche e politiche continuano a godere dei benefici della globalizzazione.

L'effetto di tali politiche non si limita agli Stati Uniti, ma si ripercuote anche su paesi vicini, come quelli dell'America Latina. Le disuguaglianze internazionali si stanno amplificando, con una crescente disparità tra gli Stati Uniti e i paesi dell'America Latina, creando una maggiore pressione migratoria verso il nord. Questo fenomeno, a sua volta, alimenta il populismo di Trump, che promuove politiche restrittive sull'immigrazione, come la limitazione della "catena migratoria", che permette ai migranti di portare con sé i familiari. Queste politiche populiste non solo alimentano il nazionalismo e l'isolazionismo, ma rafforzano anche un ciclo vizioso di insoddisfazione economica e conflitto sociale.

Il protezionismo economico adottato dagli Stati Uniti ha anche un effetto collaterale sulle politiche commerciali globali. L'imposizione di tariffe e restrizioni commerciali ha creato un ambiente internazionale più conflittuale, danneggiando i legami economici tra i paesi. L'approccio protezionista non è solo una contraddizione rispetto ai valori tradizionali del partito Repubblicano, ma è anche una risposta insufficiente ai cambiamenti economici globali. In un mondo sempre più interconnesso, le politiche commerciali restrittive finiscono per isolare le economie nazionali, limitando le opportunità di crescita a lungo termine.

Infine, il populismo economico che caratterizza l'amministrazione Trump potrebbe rivelarsi un fenomeno strutturale, piuttosto che una transizione temporanea. Se il populismo negli Stati Uniti dovesse radicarsi come una condizione duratura, le altre grandi potenze economiche, come la Cina e l'Unione Europea, potrebbero cercare di riorientare la loro cooperazione politica ed economica, creando un mondo multipolare in cui gli Stati Uniti non sono più il principale attore globale. Le ripercussioni di un tale cambiamento sarebbero enormi per l'equilibrio geopolitico e per la stabilità economica globale.