L’incontro tra Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson rappresenta un momento di profonda tensione e confronto tra due visioni di leadership e responsabilità durante un periodo critico della storia mondiale. Roosevelt, ex Presidente degli Stati Uniti, si presenta davanti a Wilson con una richiesta che sfida l’autorità e le procedure stabilite: riassembrare i suoi celebri Rough Riders e partire per l’Europa per combattere nella Grande Guerra. La risposta di Wilson è netta e ferma, ma la determinazione di Roosevelt non vacilla. Questo scambio è un riflesso non solo delle differenze politiche, ma anche di una filosofia personale sul dovere, l’onore e la guerra.

Roosevelt esprime chiaramente il suo disprezzo per la violenza fine a se stessa, affermando che la guerra deve essere evitata quando possibile, ma una volta iniziata, deve essere vinta rapidamente e decisamente. Qui emerge una visione pragmatica e risoluta, che privilegia l’efficacia e l’azione concreta sulla retorica o sulla diplomazia inefficace. La sua insistenza nel voler partecipare attivamente, nonostante le sue condizioni fisiche e l’età, testimonia una dedizione incrollabile verso la causa e un senso di responsabilità personale che trascende la posizione politica o il benessere individuale.

Il rifiuto di Wilson è giustificato da motivazioni pratiche e politiche: l’ordine costituito, la necessità di rispettare la catena di comando e le implicazioni politiche di una simile mossa. Tuttavia, Roosevelt ribalta questa situazione mettendo sul tavolo un ultimatum di natura politica: la sua partecipazione in guerra, o la concessione della sua nomina repubblicana alle presidenziali del 1920. Qui si coglie un aspetto fondamentale della politica americana di quel periodo, in cui la guerra si intreccia con le dinamiche elettorali e personali dei leader.

L’episodio mostra inoltre come Roosevelt, nonostante l’età e la salute precaria, si veda ancora come un uomo d’azione, capace di ispirare e guidare. La sua figura non è solo quella di un ex presidente, ma di un simbolo vivente del patriottismo e del coraggio. La sua determinazione a formare un gruppo variegato di uomini, da atleti a guerrieri Maasai, riflette una visione inclusiva e avventurosa della guerra come prova suprema del valore umano.

La forza di Roosevelt risiede anche nella sua abilità di manipolare i media, sapendo bene che l’opinione pubblica e la stampa possono diventare alleati potenti o nemici insormontabili. La sua tattica di minacciare di accettare commissioni straniere mette Wilson in una posizione difficile, evidenziando come il controllo dell’immagine pubblica sia diventato un elemento imprescindibile della politica moderna.

Importante è anche considerare l’analisi del conflitto come uno spartiacque della storia umana, dove le teorie pacifiste sono superate dalla brutalità e dalla necessità di agire con decisione. La guerra diventa non solo uno scontro militare, ma una prova esistenziale per le nazioni e per i singoli individui che devono dimostrare coraggio e dedizione senza precedenti.

Al di là della narrazione storica e politica, questo episodio ci invita a riflettere sul significato del servizio pubblico, della leadership in tempi di crisi e sul difficile equilibrio tra principi personali, responsabilità istituzionali e strategie politiche. La figura di Roosevelt incarna la tensione tra il desiderio di azione diretta e la complessità delle regole che governano le decisioni collettive.

In aggiunta, il lettore deve comprendere che la guerra non è solo un evento di massa, ma anche una somma di scelte individuali che riflettono valori, ambizioni e conflitti interiori. La determinazione di un singolo uomo può cambiare il corso della storia, ma sempre entro i limiti imposti dalle circostanze politiche e sociali. La capacità di mediazione, il rispetto per le procedure e la consapevolezza delle conseguenze sono aspetti fondamentali per chiunque aspiri a guidare in momenti di crisi.

Cosa resta quando si sceglie la solitudine al posto della civiltà?

Non ci si può fidare dell’Ether, di quel luogo che si sposta sotto i piedi, che la mattina è mare e la sera deserto. L’uomo che racconta non cerca certezze — sa già che non esistono. Indossa i suoi stivali di gomma e la giacca a quadri, esce per scavare con la sua vanga in cerca di vongole, ma trova solo sabbia secca e salvia selvatica. Non è amarezza, è adattamento: ha scelto di restare dal 1949, e resterà, vendere la casa non vale neppure il mangime per polli. Non si aspetta nulla, nemmeno da sé stesso. Eppure c’è qualcosa che lo lega a questa terra incerta: l’assenza di controllo, l’illusione di libertà in una terra che il governo dimentica. O forse semplicemente non trova.

Quando parla delle donne, le parole si induriscono. Ammette di aver provato un interesse, una volta. Ma il giudizio è netto: una donna è un ostacolo peggiore del governo. "Crusty old bachelor", così si definisce, un vecchio scapolo incrostato fino al midollo. Non c’è spazio per il molle, per il tenero, nemmeno nei biscotti — li cuoce finché non diventano duri fino al centro. Come lui.

La madre, morta nel ‘44, è l’unica donna risparmiata dal suo disprezzo. Lei faceva i biscotti veri. Ora lui compra quelli nel tubo, li rompe senza leggere le istruzioni, usa gli occhiali della madre per farlo. Non è nostalgia, è pura funzione.

Edna è l’ombra del passato, il sogno ricorrente che torna con inquietudine: lei emerge dall’acqua, cerca di salire nella sua barca. Lui la respinge con un coltello, le dita cadono e si trasformano in creature ambigue, forse neonati, forse foche. Lei le insegue emettendo un suono che lo perseguita fino al supermercato. Edna è ancora lì, alla cassa, con quelle stesse dita che lavorano il registratore. Lui la osserva, inquieto, come se cercasse la verità nel movimento delle sue mani. Le donne non sono affidabili, dice. Non sono del tutto civilizzate.

La voce cambia. Un altro uomo parla. Vive in un ranch da duecentomila acri. Non cerca la città, ci capita. Gestisce la terra, gli animali, il tempo. L'inverno ferma tutto, congela anche il pensiero. Ma da lassù, in volo, ha visto le montagne emergere come sentinelle. Ora non vola più, ha scambiato il Cessna con una giumenta. Viene in città per un’omelette, un drink, una notte. Poi torna.

Edna è stata al ranch una sola volta. Tre settimane. La memoria è vaga, se non per la scena in cui lei, inesperta, rovina la morale del cavallo da taglio. Lei se ne va, dice di aver perso l’amore, tutto scosso fuori da sé. Torna a Ether, dove forse è sempre appartenuta.

Il figlio, Archie, forse è nato al ranch. L’uomo spera di sì, perché ci sia in lui qualcosa che un giorno lo riporti lì. Ma non sa a chi lasciare tutto questo. Gli uomini validi non sanno trattare con il potere, e i giovani non restano. I cowboy non vogliono la terra. La terra possiede te.

L’uomo si sente schiacciato dalle pietre del suo regno, da un’eredità che non vuole diventare merce. Le vacche e i vitelli resistono nel vento tagliente, e in quella pazienza muta cerca un significato, una lezione.

Ether è un luogo, ma anche un'idea: uno spazio dove le strutture civili si sfilacciano, dove gli individui restano soli con i loro fantasmi, i loro rimpianti, le loro scelte. Il rifiuto della civiltà si accompagna a una fede ruvida nell’autosufficienza, e al tempo stesso a un’inquietudine irrisolta, espressa nei sogni, nelle assenze, nei gesti ripetitivi della sopravvivenza quotidiana.

Il lettore deve comprendere che il rifiuto della "civiltà" non è sempre una scelta ideologica o consapevole: spesso è una forma di autodifesa, una risposta alla disillusione, al fallimento delle relazioni umane, alla perdita del senso condiviso. La solitudine qui non è romanticizzata, ma sedimentata, come la crosta sui biscotti del protagonista: una corazza che protegge, ma non nutre.

Che cosa rimane dopo una vita di responsabilità e lavoro?

Forse la vedo così perché ero la figlia maggiore, con quattro fratelli più piccoli e un padre assente. Ho sempre pensato che fossero le mie responsabilità, che fossero le domande a cui dovevo dare risposta: le persone possono vivere in questa casa? Come cresce un bambino nel modo giusto? Come si diventa degni di fiducia? Ho passato la vita a rispondere a queste domande senza mai farmene una mia, fino ad ora. Ho sessant’anni questo inverno, e penso che dovrei avere finalmente il tempo di una domanda. Ma è difficile porla.

Tutto il tempo che lavoravo, che tenevo la casa, crescevo i figli, facevo l’amore, guadagnavo il necessario per vivere, credevo che sarebbe arrivato un momento, o un luogo, in cui tutto ciò si sarebbe ricomposto. Come se le parole dette tutta la vita – il lavoro, i gesti, gli atti di cura – fossero soltanto parole sparse, ma che alla fine avrebbero formato una frase, e avrei potuto leggerla. Avrei costruito la mia anima e avrei saputo a cosa servisse. Ma ora che l’ho costruita, non so cosa farne. Chi la vuole?

Ho vissuto sessant’anni. Da ora in avanti farò soltanto ciò che ho sempre fatto, ma di meno, mentre divento sempre più debole, più piccola, mi restringo su me stessa e muoio. Non importa quello che ho fatto, creato o conosciuto. Le parole non significano più nulla. Eppure sento che devo parlarne con Emma: è l’unica che non mi risponde con frasi come “Sei giovane quanto pensi di esserlo” o “Oh Edna, non invecchierai mai”. Sciocchezze. I miei figli che ancora vivono qui non vogliono sentire nulla a riguardo. Nessun giovane può permettersi di credere nella vecchiaia.

Allora, tutta la responsabilità che ci assumiamo serve soltanto a un momento e poi non vale più nulla, come se fosse usa e getta? Tutto il lavoro fatto svanisce, non lascia traccia, non costruisce niente? Forse mi sbaglio. Lo spero. Mi piacerebbe avere più fiducia nella morte. Forse vale la pena, forse è una forma di risposta, un entrare in un altro luogo. Come quella volta d’inverno nei Siskiyous, camminando sulla strada innevata tra gli abeti neri sotto tutte le stelle, quando mi sentivo della stessa grandezza dell’universo, la stessa cosa dell’universo. E sapevo che continuando a camminare avanti ci sarebbe stata una gloria ad attendermi. Nel tempo sarei entrata nella gloria. Questo era lo scopo della mia anima. L’ho fatta per la gloria.

E di gloria ne ho conosciuta tanta. Non sono ingrata. Ma non dura. Non si ricompone in un luogo in cui vivere, in una casa. Svanisce e gli anni passano. Cosa rimane? Rimpicciolirsi e dimenticare, pensare ai dolori, all’indigestione, ai tumori, al battito del cuore, ai calli, finché il mondo intero non diventa una stanza che odora di urina. È questo il destino delle gambe scalcianti dei neonati, degli occhi dei bambini, delle mani che amano, delle corse selvagge, della luce sull’acqua, delle stelle sopra la neve?

Eppure, da qualche parte, dentro tutto questo, deve esserci ancora la gloria. È questa la speranza ostinata che non cede. Che ciò che abbiamo costruito, vissuto e amato, non sia soltanto polvere che il tempo disperde, ma che esista un senso, un punto d’arrivo, un luogo dove tutte le parole sparse finalmente si raccolgono in una frase leggibile. Perché la vita non è soltanto un accumulo di gesti e fatiche: è anche una trama nascosta che ci attraversa, e che continua oltre la nostra coscienza. Capire questo non consola, ma rende più vero il nostro cammino.