Ermenwyr camminava con passo svelto verso la sua stanza, canticchiando un motivetto allegro mentre si preparava a partire. I suoi bauli erano già pieni di abiti freschi e ben stirati, pronti per il viaggio. Ma mentre si occupava delle sue cose, più in alto, il Maestro della Montagna e la Santa sedevano insieme, profondamente concentrati su un gioco che andava avanti da trent’anni. Non si trattava di un gioco qualsiasi, ma di un gioco che richiedeva una mente acuta, pieno di strategie complesse e mosse sottili, la cui conclusione sembrava irraggiungibile. In quel momento, la loro conversazione prese una piega interessante.

Il Maestro della Montagna si chinò sul tavolo da gioco e, senza distogliere lo sguardo dal piano, sollevò un problema che lo tormentava. “Cosa faremo del ragazzo?” chiese, e la Santa rispose con un sospiro. La sua mente non era però distratta dal gioco.

“Cui dei tuoi figli intendi parlare?” chiese la Santa, continuando a muovere le sue pedine con calma.

“Quello con gli stivali dalle tacche da cinque pollici,” rispose il Maestro della Montagna, indicando con disgusto le scarpe del figlio. “Hai visto come sono? Mi è costato una fortuna, e sono di colore viola.”

La Santa lo guardò per un momento, accennando un sorriso. “Quando avevi la sua età, tu non possedevi nemmeno un paio di stivali.”

Il Maestro della Montagna si fermò un attimo a riflettere. “Quando avevo la sua età, portavo catene, non dovevo preoccuparmi di come vestirmi, ma solo di sopravvivere abbastanza a lungo per vendicarmi,” disse con un tono che mescolava amarezza e determinazione. “Non voglio che mio figlio cresca così, ma l’abbiamo vizziato troppo.” E ancora, con un gesto deciso, mosse delle pedine nere sulla scacchiera.

In quella discussione, si svelò una preoccupazione profonda: il giovane Ermenwyr, purtroppo, non sembrava aver trovato ancora una vera strada. Era ricco di potenziale, ma non impegnato in un vero lavoro che potesse sviluppare le sue capacità.

La Santa suggerì con calma: “Ha bisogno di una direzione. Ha bisogno di una sfida.”

Il Maestro annuì, e mentre osservava la scacchiera, rispose con un sorriso amaro: “Ha bisogno di mettere le mani al lavoro, di rimboccarsi le maniche e imparare cosa significa fare fatica, costruire qualcosa di significativo. Qualcosa che sfrutti il suo talento.”

Il gioco proseguì, ma il Maestro della Montagna e la Santa sapevano che la strada che avrebbero scelto per il giovane Ermenwyr sarebbe stata decisiva per il suo futuro. Non bastava dargli una lezione di vita, ma dargli l’opportunità di affrontare le difficoltà in modo da far crescere la sua indipendenza e il suo valore.

Quando Ermenwyr si presentò per partire, il suo volto rivelava un mix di soddisfazione e autoindulgenza. Ma il Maestro della Montagna, dopo averlo accolto con un sorriso sardonicamente benevolo, lo mise di fronte a una nuova sfida.

“Ho un compito per te,” disse. “Cammina con me.”

Ermenwyr, seppur un po' riluttante, lo seguì. La conversazione tra i due iniziò con una discussione sulla necessità di un giardino per i bambini, e il Maestro della Montagna spiegò come fosse fondamentale creare uno spazio per giocare all’aria aperta. Tuttavia, la proposta implicava un lavoro arduo e una pianificazione seria da parte di Ermenwyr. La sicurezza della casa, le misure contro i nemici, e la necessità di trovare un modo pratico per realizzare il progetto, tutto doveva essere preso in considerazione.

La vera sfida non stava nel realizzare un semplice giardino, ma nel modo in cui Ermenwyr avrebbe affrontato la difficoltà e la responsabilità. Il Maestro della Montagna sapeva che questa esperienza sarebbe stata cruciale per il suo sviluppo, se avesse affrontato la sfida con determinazione e impegno.

Sebbene Ermenwyr inizialmente cercasse di sfuggire a tale incarico, scoprendo che suo padre aveva già preso delle decisioni concrete, la vera lezione era che la crescita non avviene senza difficoltà. L'indolenza e il lusso non erano la via per raggiungere una vera maturità. Solo attraverso il lavoro manuale e l’impegno pratico, il giovane avrebbe potuto sviluppare quella forza interiore che gli avrebbe permesso di affrontare con successo le sfide future.

A volte, la vita offre opportunità di crescita che sono accompagnate da una dura lezione. Non sono sempre facili da riconoscere e spesso vengono camuffate sotto la forma di compiti poco attraenti. Tuttavia, queste sfide hanno un potenziale immenso per costruire il carattere e sviluppare la resilienza necessaria a far fronte alle difficoltà future.

Cosa rimane quando due vite si intrecciano?

La solitudine che si prova quando qualcuno che amiamo sembra essere completamente assente, pur essendo fisicamente vicino, è una delle esperienze più dolorose che possiamo attraversare. Talisha, nella sua frustrazione crescente, si trova a lottare con l'indifferenza di Ricky, un uomo che una volta le prometteva amore e presenza, ma ora sembra vivere una vita separata, distante, schiavo delle proprie ossessioni e dei propri sogni artificiali. La connessione che li univa appare ormai fragile, incrinata dalla sua apatia e dalle sue distrazioni, ma anche dalla difficoltà di lei nell'affrontare la realtà che si è creata.

Quando Talisha entra nel suo mondo, cercando risposte, Ricky appare più un automa che un uomo vivo. "Sono al lavoro", dice ripetutamente, come se tutto potesse essere scusato dalla sua dedizione al suo mestiere, ma la verità è che ciò che sta facendo è solo un riflesso di una dipendenza che ha preso il posto della sua umanità. Le pillole, la passività che ricopre ogni sua reazione, sono sintomi di una disconnessione profonda. Il suo mondo non è più quello di Talisha, ma uno parallelo, alimentato da una realtà artificiale che lo tiene prigioniero, come in un sogno che non riesce a svegliarsi.

Nel loro piccolo appartamento, dove ogni angolo sembra riempirsi di rifiuti e disillusione, Talisha riflette su cosa è successo alla loro relazione. La sua rabbia esplode in un vortice di offese e frustrazione, ma anche in una disperata ricerca di un segno di vita, di un’emozione che possa dimostrare che Ricky è ancora lì, dietro la facciata di indifferenza. In mezzo al caos, la sua mente si distacca dalla realtà tangibile, cercando di attaccarsi a un passato che ormai sembra sfumare.

Il concetto di “mechdreams”, come le aveva spiegato Ed, entra nella sua mente. Persone che vivono due vite parallele, incapaci di distinguere la realtà dalla simulazione. Ricky, come tanti altri, è intrappolato in questa condizione, e Talisha lo percepisce. È un zombie, un essere che agisce come se nulla fosse, che vive in un mondo che non esiste per lei. Ma la sua consapevolezza non sembra scalfire la dura realtà della sua vita.

Quando Talisha tenta di parlarne con Bea, sua sorella, la sua vulnerabilità emerge. La possibilità di una gravidanza, un sogno che Talisha aveva coltivato, ora sembra essere solo una speranza lontana. La confusione e la sofferenza che prova sono amplificate dalla sua impossibilità di comunicare davvero con Ricky. Non si tratta solo di lui, ma della frustrazione di una relazione che non rispecchia più la realtà che immaginava. La paura di rimanere sola, di dover affrontare un futuro incerto senza il supporto di Ricky, è palpabile. Ma anche la consapevolezza che la sua vita potrebbe davvero andare avanti senza di lui è una possibilità che lentamente prende piede.

Questo scenario ci porta a riflettere su come le persone possano essere fisicamente vicine ma emotivamente lontane. Viviamo in un mondo dove le distrazioni e le dipendenze, anche quelle emotive, possono crearsi intorno a noi, facendoci dimenticare che l’amore non è solo una promessa, ma una continua ricerca di connessione. La frustrazione di Talisha non è solo dovuta all’assenza fisica di Ricky, ma alla sua indifferenza emotiva, alla sua incapacità di riconoscere il dolore di lei, che è diventato più grande di qualsiasi altra cosa nella loro vita.

A volte ci si trova a dover fare i conti con la realtà che ciò che una volta sembrava perfetto e pieno di promesse, si è trasformato in una mera esistenza senza emozioni, in cui le parole e i gesti hanno perso il loro significato. Ricky, intrappolato nel suo mondo parallelo, non è più in grado di riconoscere l’importanza di quello che sta accadendo intorno a lui. Talisha, nel suo dolore, è alla ricerca di un legame che ormai sembra non esistere più.

Un aspetto che emerge chiaramente in questa situazione è che la vera connessione non è data solo dalla presenza fisica, ma dalla consapevolezza e dalla volontà di riconoscere e rispondere ai bisogni emotivi dell’altro. Quando questo manca, anche l’amore più forte può sembrare svanire, lasciando solo un vuoto.

Come Vivere in un’auto: Una Nuova Definizione di Casa

Talisha guardò Ricky con un’espressione incredula e horrorificata. “Cosa pensi che stia facendo qui, ‘Sha? Sto preparando questo posto per te.” In quel momento, Talisha si voltò e corse indietro lungo il percorso che aveva appena fatto. Ricky la chiamò, ma lei non si fermò. “Questa è l’unica via per gente come noi,” le gridò dietro. Talisha, con una voce bassa e preoccupata, rispose: “Ma io non voglio vivere in un’auto.” Poi si girò di lato nel letto, mentre Ricky la osservava, gli occhi brillanti nel buio della piccola stanza.

"Neanche in una flotta di auto?" chiese Ricky, ridendo, cercando di stemperare il tono grave della discussione. Talisha, toccandogli il braccio, lo guardò con più serietà. Ricky rispose semplicemente: "Allora non farlo."

Un’auto più grande che Talisha avesse mai visto, una Ford Excursion del 2005, emerse lentamente dalla fila di veicoli, bloccando il suo cammino. Il suono di un motore elettrico interruppe il silenzio, e poi Ricky spuntò dalla parte superiore del tetto dell’auto. "Ford Excursion XLT Premium con tetto panoramico opzionale. Ha un motore V-10, 310 cavalli."

Talisha si girò, con un’espressione perplessa: “Cosa intendi con ‘non farlo’?” Ricky parcheggiò l’enorme SUV vicino a lei, e la invitò a salire. Talisha, che indossava una giacca di pile color fawn, pantaloni di cotone twill e un dolcevita lilla, vestiti che non aveva mai avuto prima nella sua vita, aprì la portiera del passeggero e guardò dentro. "Schermo DVD da 12 pollici sui sedili posteriori," disse Ricky con orgoglio. "Dieci portabicchieri."

L'Excursion, tanto grande dentro quanto fuori, sembrava comunque insufficiente per viverci. C'erano tre file di sedili in pelle bicolore, e il bambino era legato al seggiolino. La coppia sembrava aver trovato una sorta di equilibrio, ma la realtà di vivere in un'auto era un'altra faccenda. La prospettiva di una vita mobile, continuamente spostandosi, poteva sembrare allettante, ma non poteva sostituire il comfort e la sicurezza che una casa offriva.

Ricky, prendendo la parola, disse con un sorriso: “Vuoi fare un giro?” Le luci dei fari illuminavano l’oscurità del lato più povero della città, tra facciate vuote e lotti abbandonati. “Non sono pronto per il sole,” disse Ricky, con tono pensieroso. "In pieno giorno, tutte le crepe sarebbero evidenti. Ma ora che sei qui, si faranno molti progressi."

Il SUV, parcheggiato in un garage che Ricky aveva preparato, era una sorta di rifugio, ma Talisha notò subito che non era ancora un luogo che potesse davvero chiamare casa. Le pareti erano bianche, con una porta di acciaio che conduceva all’interno della casa. Sebbene fosse accogliente, il garage era troppo semplice e, per Talisha, mancava di un tocco personale, qualcosa che lo rendesse veramente suo.

"Ci vogliono delle tende," pensò ad alta voce, come se stesse dipingendo nella sua mente il quadro di una casa ideale. "Delle tende chintz, con grandi rose gialle." Ricky, perplesso, le rispose con una risata: "Questo è un garage, ‘Sha. Chi mette le tende in un garage?" Ma Talisha, con un sorriso complice, cambiò idea: "Metterò delle margherite bianche su fondo azzurro." Le sue dita si muovevano velocemente, come se fosse impegnata in una forma d’arte istantanea.

La visione della casa ideale di Talisha non era fatta di grandi stanze o di mobili lussuosi. Per lei, il comfort risiedeva nei piccoli dettagli, nelle piccole modifiche che le permettevano di proiettare un senso di casa ovunque, anche in un garage.

La scena, purtroppo, non si fermò alla solita fantasia di "un bel posto dove vivere". La realtà era più complicata. Talisha non cercava solo un luogo dove dormire. Cercava uno spazio che potesse rispecchiare la sua interiorità, una casa non solo fisica, ma emotiva. Il garage, con il suo aspetto spoglio, era solo l’inizio di una lunga trasformazione. Per Ricky, però, ciò che contava non era l’apparenza, ma la funzionalità del vivere in un’auto, in un mondo che sembrava aver perso qualsiasi legame con il concetto di stabilità.

In questa storia, l’auto diventa un simbolo di adattamento alla condizione umana, un riflesso del desiderio di rimanere mobili, liberi, ma anche prigionieri della propria scelta. In un mondo che ci costringe a prendere decisioni difficili, Talisha e Ricky cercano di costruire un rifugio in movimento. Tuttavia, la domanda fondamentale resta: è davvero possibile chiamare casa un veicolo che non è mai destinato a diventarlo?

Questa riflessione ci invita a riconsiderare il significato stesso di casa. Non è forse più di un semplice luogo fisico? La casa è un concetto che si modifica, si adatta alle necessità e alle scelte individuali. In un mondo in cui il movimento e l’incertezza sono diventati la norma, è possibile trovare conforto in spazi temporanei, in ambienti che non sono progettati per essere permanenti?

Perché la colpa è un pallone che vola verso di noi?

La sensazione di colpa è spesso paragonata a una presenza persistente, quasi tangibile, che ci segue, ci tormenta e ci avvolge, come una figura che ci osserva senza tregua. È la causa di una spirale emotiva che può sembrare infinita, un peso che diventa sempre più insopportabile con il passare del tempo. Quando la colpa si fa carne, quando si materializza sotto forma di una figura estranea, come un pallone che ruota verso di noi con occhi vacui e accusatori, l'intensità del rimorso si fa quasi fisica. "È tutta colpa tua", ripete il pallone, come un mantra incessante che ci invade, ci consuma, ma ci spinge anche a cercare una via d'uscita, anche se solo nel sogno della nostra mente.

La colpa, proprio come una palla gonfiata, può sembrare che si ingrandisca con ogni respiro, con ogni pensiero che le si dedica. La mente si confonde, cercando di trovare una spiegazione che giustifichi l'inspiegabile. Ma quale scopo ha questa voce che ci accusa? È la nostra stessa mente che si ribella contro di noi, o è una manifestazione esterna di una responsabilità che non possiamo più ignorare?

Quando ci troviamo di fronte a questa visione, la reazione naturale potrebbe essere quella di allontanarla, di voltarle le spalle, come se rifiutassimo di affrontare quella verità che ci sembra troppo dolorosa. Ma anche in quel momento, in quel gesto di rifiuto, siamo consapevoli che la figura non scompare. Continua a orbitare intorno a noi, una presenza che non possiamo né ignorare né scacciare. La colpa non è mai silenziosa. È un'ombra che cresce e si aggrava finché non siamo pronti ad affrontarla.

L'illusione di fuggire, di liberarsi da essa, si mescola con un altro pensiero: quello di un mondo che continua a girare, che non si ferma, nonostante il nostro tormento. La vita, sebbene sembri essersi fermata in un momento di disperazione, continua comunque a scorrere. Le azioni passate, come il tradimento, l'inganno, o la semplice indifferenza, ci seguono come un'eco che non svanisce mai. C'è una certa irrazionalità in questo movimento perpetuo, una danza di illusioni in cui cerchiamo una fuga che non esiste. La colpa, purtroppo, non può essere rimossa così facilmente. Né con il rifugio nell'autoinganno, né con il tentativo di sottrarsi alla realtà. La nostra realtà, qualunque essa sia, è già segnata, e la consapevolezza di essa ci colpisce come una luce accecante.

Quando il pallone si fa più vicino, il nostro istinto è di chiedere: "Perché io?", come se il rispondere a questa domanda potesse, in qualche modo, liberarsi da essa. Ma forse, la vera domanda da porsi non è "perché", ma "come posso andare oltre?". Il percorso verso la redenzione non è semplice, e non è sempre chiaro. Ma c'è sempre quella scintilla di speranza, di cambiamento, che possiamo abbracciare solo quando accettiamo finalmente la nostra colpa e ne riconosciamo il peso. È la lotta con se stessi, l'affrontare le proprie ombre, che rende possibile qualsiasi trasformazione.

E così, mentre il pallone continua a orbitare, noi restiamo, cercando di trovare un significato in questa danza macabra, nel tentativo di superare il passato che ci ha segnati. La colpa può sembrare infinita, ma è solo il primo passo verso una nuova comprensione di noi stessi.

Come si vive nell'Arsenale: Una realtà unica tra le mura di una grande officina

Il rumore di un carro che strideva sull'asfalto interruppe il silenzio mentre i due uomini si spostavano con attenzione. "Stai vicino," disse Gaspare, conducendo Matteo attraverso una piramide di botti basse. "Un estraneo che vaga senza meta attirerà attenzione velocemente." Matteo si sentiva come se fosse in un altro paese, uno che somigliava al suo per molte cose, ma con dettagli che sembravano insignificanti. Bancarelle di cibo fiancheggiavano la strada, e gli arsenalotti, con abiti che ricordavano un esercito straniero sotto il comando di un principe, mangiavano e chiacchieravano in piccoli gruppi, mentre altri si affrettavano con carri o carretti. L'aria era impregnata di odori di officina e, con un cambiamento di vento — che sembrava generare una sua micro-clima dentro l'enorme recinto — arrivava anche un soffio salmastro della laguna.

"Bisogna trovare Ser Cavallo," stava dicendo Gaspare mentre si avvicinavano a un angolo, dove alcuni lavoratori stavano riuniti attorno a una botte eretta. Matteo si fermò a una distanza rispettosa, in attesa di essere presentato, ma Gaspare parlò rapidamente con gli operai in linguaggio arsenalesco, e loro lo ascoltavano con serietà, senza prestare alcuna attenzione a Matteo. Ciascuno di loro teneva una tazza, e Matteo notò che la botte emanava un distintivo odore di vino.

"Non sanno dove si trova," riportò Gaspare quando tornò verso Matteo. "Andiamo direttamente al negozio." La sua voce tradiva una certa irritazione. "Era una botte enorme," osservò Matteo. "La bevanda ordinaria? È fornita a tutti gli operai qui, una tradizione che dura da secoli," rispose Gaspare con un accenno di orgoglio nella voce. "Vino gratis per gli arsenalotti?" chiese Matteo. "Penso che lo stato fosse preoccupato per la qualità dei pozzi in questa zona dell'isola," rispose Gaspare. "Ne bevono molta," aggiunse con tono cupo.

Gaspare condusse Matteo in uno spazio ampio nella parte posteriore di un magazzino. "Le finestre lasciano entrare molta luce," disse, aprendo le porte e facendo cenno a Matteo di entrare. "E sono poste abbastanza in alto." Matteo camminò sull'argilla battuta, attraversando fasci di luce inclinata, osservando le pareti intonacate e il soffitto alto. "C'è un pozzo a venti passi," continuò Gaspare. "Quindi l'approvvigionamento d'acqua non è un problema. E le cantine..." batté il piede sul terreno. "Non si estendono fino a qui." Intendeva dire che avrebbero potuto costruire una grande caldaia senza preoccupazioni per il pavimento. "Una canna fumaria?" chiese Matteo, guardando in alto. "Passeremo un tubo attraverso il soffitto," rispose Gaspare.

Nel frattempo, Matteo aveva notato una scala incorporata in una delle pareti, che saliva fino alle alte finestre. Decise di arrampicarsi, apparentemente per ispezionare le travi del tetto, ma in realtà per dare un'occhiata fuori. La fila di vetri si trovava appena sotto il cornicione, e Matteo guardò fuori, osservando un paesaggio di capannoni e edifici più grandi, alcuni con cortili propri, che si affacciavano su giardini di attrezzature e vasche di risciacquo separate da siepi di legno impilato. Il fumo si alzava da una fonderia lontana, e una fila di operai si sollevò improvvisamente portando una trave sulle spalle. Sembrava una delle grandi tenute fuori Alessandria, o la caverna contenente stanza dopo stanza di tesori in una fiaba araba. Oltre un lungo capannone, vide il profilo di una galera, e accanto a essa un'altra ancora circondata da un'impalcatura.

Il Rio, invisibile dietro di loro, si snodava attraverso l'Arsenale come un enorme intestino, allargandosi a intervalli in bacini dove galleggiavano le navi non terminate. I moli circostanti erano coperti, con tetti alti come chiese, e Matteo non riusciva a distinguere quale dei piccoli edifici ospitasse i laboratori per i costruttori di remi, i fabbri o i calafati. Da un angolo lontano si alzava una colonna di fumo denso, quella delle fonderie. Le voci aumentavano man mano che Matteo scendeva dalla scala per trovare Gaspare in conversazione con un uomo dalla faccia rossa e dal grembiule di pelle.

"Questo è Ser Antonio Cavallo," disse Gaspare, piuttosto informalmente, considerando l'occasione. "È uno dei principali proti dell'Arsenale." Matteo lo salutò con formale cortesia. "La ringraziamo per aver messo a disposizione questo spazio per i nostri lavori," disse, ricordando che i capi cantiere erano tra le figure più importanti nella gerarchia degli ufficiali dell'Arsenale, nonostante l'aspetto rude dell'uomo.

"Il Patroni all'Arsenale hanno ordinato che venga predisposto un laboratorio sicuro per i lavori di Ser Traviso," disse solennemente il caposquadra. Sembrava consapevole dell'irregolarità della situazione. "Ho già visto la vigilanza dell'Arsenale," disse Matteo, cercando di fare un complimento, ma l'uomo aggrottò le sopracciglia. "Noi siamo l'Arsenale, l'Arx Senatus," avvertì. "La nostra guardia è una sacra fiducia, che la Fortezza del Senato terrà sempre vera."

"Credi che l'origine della parola sia latina?" chiese Matteo, sorpreso. "Avevo pensato derivasse da Dar as-Sina’a, araba per 'Casa della Costruzione'." Il caposquadra sembrò colpito, come se fosse stato preso in contropiede. Gaspare, che aveva sorriso nervosamente, intervenne. "Ser Cavallo ordinerà che il laboratorio venga preparato, se troveremo soddisfacente lo spazio," disse. Matteo guardò ancora una volta la stanza. "È ammirabile," dichiarò. "Avete la nostra gratitudine; faremo grandi cose qui."

I tre uomini si salutarono goffamente, con Matteo e il caposquadra che si inchinavano rigidamente, mentre Gaspare si muoveva lentamente verso la porta, come se stesse cercando di suggerire che i giovani se ne andassero. Uscirono, tra ulteriori rassicurazioni di alta stima, osservando Ser Cavallo che chiudeva e serrava la porta, per poi incamminarsi lungo la stretta via, abbassandosi mentre due ragazzi sollevavano una trave per farla passare attraverso un'apertura.

"Devi stare attento a ciò che dici qui," disse Gaspare, mentre camminavano attraverso un'area allagata. "Questo è un altro mondo."

"Funzionari e commercianti si capiscono," assicurò Matteo. "Lavoriamo insieme tutto il tempo." Ma il caposquadra non si era comportato come gli ispettori doganali o fiscali con cui Matteo era abituato a trattare. Sembrava avere le maniere di un artigiano, e Matteo si rese conto all'improvviso che forse quel uomo era partito proprio da un mestiere manuale.

L'incontro con i lavoratori dell'Arsenale, il loro ambiente chiuso e le tradizioni secolari, rendevano chiaro che anche nei luoghi più lontani dai riflettori del potere, ogni movimento era governato da una sorta di sacra gerarchia, un ordine che andava oltre le semplici esigenze pratiche. L'Arsenale non era solo un luogo di lavoro, ma una cittadella di segreti, leggende e tradizioni che definivano un mondo completamente a sé, protetto dall'occhio curioso degli estranei.