Le classi sociali, nella loro complessità e articolazione, non sono mai entità naturali o non filtrate da ideologie; piuttosto, esse sono sempre più simili a una costruzione ideologica che a una semplice descrizione erronea della realtà. Il concetto di razza, ad esempio, pur apparendo come un dato tangibile, è in realtà un prodotto sociale che si è evoluto nel tempo in un sistema altamente trasparente, in cui le identità razziali sono esplicitamente riconosciute e codificate. Gli individui di razza mista, purtroppo, rappresentano delle eccezioni a questa trasparenza, poiché le loro identità auto-percepite e le attribuzioni razziali a loro imposte non coincidono, creando un contesto di estraneità all'interno di un sistema razziale dominante. Tuttavia, anche per loro la comprensione del proprio “non appartenere” alla razza dominante avviene all’interno di un quadro razziale che resta visibile e strutturato.

La questione delle classi, al contrario, è più complessa, soprattutto in società democratiche dove la loro esistenza è spesso negata, e non per la percezione più evidente della differenza di colore della pelle, ma piuttosto per la difficoltà sociale ed emotiva di ammettere l’esistenza di disuguaglianze di classe. A differenza della razza, dove le linee di demarcazione sono chiare, i segni di classe — come il modo di vestire, parlare, possedere beni e fare consumi — sono ugualmente visibili, ma tendono a stimolare emozioni più ambigue, come l’attrazione o l'avversione, più che l’identificazione diretta e l'accettazione del loro ruolo nella società. Negli Stati Uniti, ad esempio, l'idea di una democrazia "equa" tende a rendere scomodo il discorso sulle differenze di classe, anche se, in modo paradossale, rende più accettabile quello sulle differenze razziali, soprattutto tra i bianchi.

In questo contesto, parlare apertamente di classe sociale è visto come una violazione di una norma sociale, con il rischio di offendere o fare sentire umiliato chiunque venga identificato come appartenente a una classe inferiore. Allo stesso tempo, chi si trova in una posizione privilegiata può provare imbarazzo nel vantarsi della propria ricchezza, o insicurezza nel confrontarla con quella di altri che condividono lo stesso status economico. Così, molte persone, anche quelle appartenenti a classi privilegiate, preferiscono definirsi genericamente "di classe media", piuttosto che ammettere lotte e difficoltà legate a una classe sociale inferiore. Le espressioni di orgoglio di classe sono quindi rare, a meno che non riguardino casi estremi di disparità economiche o culturali.

La difficoltà di affrontare e ammettere l’esistenza delle classi sociali si riflette anche nella mancanza di consenso unanime sul loro riconoscimento. Se è vero che grandi gruppi di persone condividono vantaggi o svantaggi economici e sociali, e che la loro vita quotidiana è spesso legata a interazioni con individui della stessa classe, è altrettanto vero che, nell'immaginario collettivo, la classe non viene facilmente identificata come una realtà tangibile e riconoscibile. In effetti, parlare di classe implica una comprensione profonda di un sistema complesso, e spesso, questa comprensione è assente, a meno che non si tratti di un'ideologia costruita intenzionalmente per un fine politico o sociale.

In questo quadro, è interessante osservare come le classi politiche vengano create o rafforzate attraverso il discorso politico. A volte, soprattutto in periodi di forte mobilitazione politica, le classi politiche sono meno un riflesso di realtà economiche preesistenti e più una costruzione artificiale, forgiata da discorsi e pratiche politiche volte a suscitare emozioni specifiche, a mobilitare e a galvanizzare gli elettori attorno a simboli e messaggi che richiamano visioni di una futura "rivincita" contro il disprezzo sociale percepito. È il caso, ad esempio, delle campagne politiche di Donald Trump, che si sono incentrate sulla creazione di una "base" elettorale identificata come vittima di una presunta elite, comprendente giornalisti, intellettuali, politici e altre categorie percepite come distanti dalle preoccupazioni e dai valori della gente comune. In questo processo, la definizione della "classe politica" diventa un esercizio di potere, in cui il discorso pubblico gioca un ruolo fondamentale nel creare e legittimare le divisioni tra gruppi sociali.

Il concetto di "maggioranza silenziosa", coniato da Richard Nixon nel 1969, esemplifica perfettamente questo processo. In un contesto di forte polarizzazione sociale e politica, Nixon cercò di legittimare la sua politica estera e di guerra in Vietnam facendo appello a un gruppo che si sentiva emarginato dal discorso dominante. Questa "maggioranza silenziosa", inizialmente identificata con l'opposizione alla guerra, ha finito per evolversi in un gruppo politicamente ed ideologicamente più ampio, segnato dalla contrarietà al welfare per le minoranze, dal patriottismo, dalla difesa della Seconda Emendamento e da una visione conservatrice e tradizionalista dei valori familiari. Questi tratti sono diventati caratteristiche distintive della classe politica che ha alimentato l’ascesa di movimenti politici come quelli guidati da Ronald Reagan, e, più recentemente, da Donald Trump.

Il concetto stesso di "maggioranza silenziosa" è stato utilizzato in contesti diversi, ma la sua forza politica risiede proprio nella sua capacità di evocare una classe sociale che si sente tradita o ignorata dalla politica ufficiale. Eppure, nonostante questa visione idealizzata e politica della classe, è importante riconoscere che, nella realtà, la classe sociale è un costrutto complesso, che non può essere ridotto a semplici categorie ideologiche o retoriche. I sistemi di classe, infatti, non si limitano a essere frutto di ideologie politiche, ma sono anche il riflesso di realtà economiche, culturali e storiche che definiscono le disuguaglianze e le lotte sociali che si svolgono quotidianamente.

La visione del femminismo e la sua relazione con le identità di genere e le lotte sociali

Nel contesto delle attuali dinamiche sociali e politiche, il femminismo ha raggiunto un successo indiscutibile, con notevoli progressi in molteplici settori. L'istruzione, il lavoro e la partecipazione pubblica delle donne negli Stati Uniti sono aumentati considerevolmente nel corso degli ultimi decenni. Ad esempio, tra il 1948 e il 2016, la percentuale di donne nel mercato del lavoro è passata dal 32,7% al 56,8%. La parità di genere nei contesti professionali si è manifestata non solo in termini di accesso al lavoro, ma anche in un numero crescente di donne laureate e impegnate in carriere professionali. Tuttavia, nonostante questi risultati, il percorso verso una vera inclusione e parità è ancora irto di ostacoli.

Non è una novità che, a fronte dei progressi delle donne nella società, permangano disuguaglianze sostanziali. La visione femminista non si è ancora concretizzata nella sua interezza. La lotta per una remunerazione equa e il riconoscimento della dignità del lavoro femminile, che ha avuto il suo apice nel celebre sciopero “Bread and Roses” del 1912, non ha trovato una realizzazione completa. La disuguaglianza si manifesta non solo nel contrasto tra donne bianche e non bianche, ma anche nelle difficoltà per le donne della classe operaia e le donne trans, che si trovano spesso ai margini delle battaglie femministe mainstream.

Se è vero che le donne hanno acquisito maggiore fiducia in sé stesse e una capacità più accentuata di esprimere i propri desideri e di affermare i propri diritti, rimane il fatto che il femminismo non è riuscito a superare completamente le barriere erette dalla misoginia radicata nella società. La misoginia, come spiega Kate Manne nel suo libro "Down Girl: The Logic of Misogyny", è un insieme di pratiche che mirano a mantenere le donne in una posizione subordinata, attraverso meccanismi di controllo, critica e punizione, ogniqualvolta esse si allontanino dalle aspettative tradizionali di genere. L’esempio della Hillary Clinton, oggetto di umiliazioni pubbliche durante la sua candidatura presidenziale nel 2016, mostra come il successo di una donna, anche ai vertici del potere politico, venga ancora ostacolato dal pregiudizio e dalla violenza simbolica.

Il femminismo, quindi, si configura non come una lotta per la completa scomparsa della discriminazione di genere, ma come un tentativo di contrastare le forme di oppressione patriarcale esistenti, spingendo per una visibilità maggiore e un riconoscimento delle donne nelle varie sfere della società. Ma come possiamo analizzare questa lotta in relazione alle identità di genere? Le identità femminili, come categoria sociale e politica, sono state oggetto di un ampio dibattito filosofico e politico. Al contrario delle identità razziali, che sono ancorate a una presunta essenza biologica (come nel caso delle teorie razziste che costruiscono identità in base all’appartenenza ad un gruppo di sangue), l’identità femminile è nominalista. Ciò significa che una donna è definita non da una "essenza" biologica, ma da una relazione psicologica e sociale che la connette ad altri individui attraverso esperienze comuni e aspettative sociali. In altre parole, una donna non è definita esclusivamente dalla sua capacità di procreare o di essere oggetto di desiderio maschile, ma dalla sua identificazione con una categoria più ampia che include una molteplicità di esperienze e identità, dalle donne trans alle lesbiche, dalle madri alle donne senza figli.

Questa visione nominalista delle identità femminili contribuisce a complicare ulteriormente il concetto di femminismo, che deve tenere conto delle diverse esperienze, esperienze che non si sovrappongono facilmente. Le donne non sono un gruppo omogeneo e, sebbene la lotta per i diritti femminili abbia contribuito a una maggiore visibilità e a significativi progressi, non si può ignorare che le donne appartenenti a minoranze etniche, le lavoratrici del sesso o le donne trans vivono spesso in una condizione di marginalità all'interno del femminismo stesso. La pluralità delle identità femminili non è solo una caratteristica del movimento, ma anche una sfida continua per l'inclusività e la giustizia sociale.

Inoltre, la lotta femminista si svolge non solo nei termini di un movimento di “rivendicazione”, ma anche come una continua resistenza contro l’ostracismo e la violenza di genere. Le manifestazioni del movimento #MeToo, ad esempio, hanno mostrato quanto la società sia pronta a difendere gli autori di abusi, relegando spesso le vittime a un ruolo marginale. Allo stesso modo, la testimonianza di Anita Hill contro il giudice Clarence Thomas nel 1991 e le recenti dichiarazioni di Stormy Daniels sull’ex presidente Donald Trump rivelano la resistenza delle donne a non essere più silenziate. Ma questo tipo di resistenza non è privo di conseguenze. Le donne che raggiungono posizioni di potere o visibilità pubblica si trovano spesso ad affrontare una violenza simbolica e una resistenza che vanno oltre le semplici differenze di opinione, ma riflettono un conflitto profondo sulle strutture di potere e di genere.

L’esperienza storica e sociale del femminismo deve, quindi, essere letta non solo attraverso i suoi successi tangibili, ma anche considerando le resistenze che esso incontra. La lotta per i diritti delle donne non può essere ridotta a una semplice conquista sociale o a un movimento di solidarietà che non riconosca le complessità interne e le disuguaglianze che persistono tra le donne stesse. Non si tratta solo di conquistare il diritto di parola o il diritto al lavoro, ma di affrontare un sistema di oppressione che agisce in modo trasversale, colpendo anche chi, all'interno del movimento femminista, appare come l’altro o il marginale.

Immigrazione e Espulsione: La Storia di una Tensione Tra Inclusione e Esclusione

Gli imperi, pur non essendo democratici, sono stati costruiti per includere chiunque venisse sottoposto al loro dominio. Contrariamente, le nazioni sono fondamentalmente costruite su una distinzione radicale tra chi è dentro e chi è fuori, alimentando una tendenza verso la purificazione etnica. Questa dinamica le rende più instabili degli imperi, poiché la tensione tra inclusione ed esclusione può essere facilmente alimentata da demagoghi nativisti. In questo contesto, la storia dell'immigrazione negli Stati Uniti si intreccia con le tensioni sociali e politiche riguardanti l'identità nazionale e le politiche di accoglienza.

La lotta contro l'inclusione degli immigrati ha radici lontane nella storia degli Stati Uniti, con esempi noti di discriminazione e rifiuto. Anche quando la retorica ufficiale si professava inclusiva, come nel caso delle leggi sull'immigrazione e nel famoso simbolo della Statua della Libertà, la realtà era ben diversa. Gli immigrati, tranne per alcuni gruppi anglosassoni, hanno sempre dovuto affrontare ostilità, pregiudizi e discriminazioni fin dal loro arrivo. La loro integrazione è stata segnata da un impegno arduo contro le barriere sociali, politiche e culturali. Non è un caso che la storia delle onde migratorie verso gli Stati Uniti, a partire dai tedeschi nel XVIII secolo fino agli italiani e agli irlandesi nel XIX secolo, sia stata segnata da una diffidenza che si è spesso tradotta in segregazione e violenza.

Un esempio emblematico di questa ostilità si trova nelle parole di Benjamin Franklin, che esprimeva preoccupazioni per l'arrivo di immigrati tedeschi a Pennsylvania nel 1751, descrivendoli come una minaccia per l'integrità culturale anglosassone della colonia. Questo atteggiamento di esclusione, radicato in un'idea di omogeneità culturale e razziale, continua a ripresentarsi nei decenni successivi, come dimostra la dichiarazione di Donald Trump sugli immigrati provenienti da "paesi di merda", che non fa altro che ripercorrere una tradizione di disprezzo per chi non appartiene al gruppo dominante.

Questa visione di "us" contro "them", intrisa di razzismo e xenofobia, ha avuto un impatto significativo sulla costruzione dell'identità nazionale americana, in particolare sulla definizione di chi possa essere considerato "americano". In questo senso, l'immigrazione non è mai stata solo una questione di flussi di persone, ma anche di proiezioni razziali ed etniche. Gli immigrati sono stati "etichettati" in base a categorie etniche che in molti casi non esistevano nel loro paese di origine. Un esempio di questa "invenzione" delle etnie è rappresentato dalla creazione della categoria "Hispanic/Latino" nel censimento statunitense, che include una vasta gamma di gruppi provenienti da paesi dell'America Latina ma non dalla Spagna, nonostante il fatto che la lingua comune tra molti di loro sia il risultato della colonizzazione spagnola.

L'immigrazione ha quindi avuto un doppio impatto sugli Stati Uniti: da un lato, ha contribuito alla crescita e diversificazione della società americana, ma dall'altro ha alimentato un costante conflitto tra chi è considerato degno di far parte della nazione e chi non lo è. Questa dialettica tra inclusione ed esclusione è particolarmente evidente nei confronti dei gruppi etnici non anglosassoni, che sono stati sistematicamente discriminati e marginalizzati.

Nell'era contemporanea, la questione dell'immigrazione negli Stati Uniti continua a essere centrale, alimentata dalla globalizzazione economica e dalla crescente disuguaglianza sociale. L'immigrazione economica, purtroppo, non è priva di dilemmi morali per coloro che arrivano nei paesi ricchi in cerca di opportunità, ma che si trovano comunque a dover affrontare una realtà di discriminazione e divisione. I rifugiati e coloro che cercano asilo si trovano spesso a fronteggiare una diffidenza crescente e un'immediata risposta di esclusione. È il caso, ad esempio, dei "Dreamers" (i giovani che hanno ricevuto protezione attraverso il programma DACA), che sono oggetto di dibattiti politici e legali che riguardano la loro possibilità di rimanere negli Stati Uniti.

L'atteggiamento di espulsione e di controllo delle frontiere ha radici profonde nella storia della nazione. Tuttavia, è importante riconoscere che l'immigrazione non è un fenomeno statico. Le politiche di esclusione e di deportazione si inseriscono in un contesto storico in cui le nazioni moderne, fondate sulla sovranità territoriale, continuano a cercare di controllare l'ingresso e la permanenza degli stranieri, ma sono anche sempre più influenzate dalla dinamica globale. Gli Stati Uniti, come molte altre nazioni, si trovano a dover bilanciare il desiderio di protezione dell'identità nazionale con le esigenze economiche e le pressioni internazionali che provengono dalle migrazioni forzate e dai flussi economici globali.

In questa cornice, l'accoglienza e l'ospitalità sono virtù civiche che devono essere riemerse e difese, ma non senza un esame critico delle proprie politiche interne ed esterne. Accogliere gli immigrati non è solo un atto di generosità, ma una necessità per il rafforzamento del tessuto sociale e della coesione nazionale. Tuttavia, non bisogna dimenticare che la percezione dell'immigrazione non può essere separata dalle dinamiche politiche ed economiche che determinano l'accesso a risorse e opportunità. La storia degli Stati Uniti, come quella di molte altre nazioni, ci insegna che l'immigrazione è una questione complessa, dove l'inclusione e l'esclusione sono due facce della stessa medaglia.

Qual è l'impatto della politica turboalimentata sulle istituzioni e la società?

La crescente politicizzazione di questioni non originariamente politiche è una caratteristica distintiva della politica turboalimentata. Sebbene questi temi possano sembrare lontani dalla politica nel senso tradizionale, in un contesto di espansione delle dinamiche politiche, essi possono facilmente diventare terreno di scontro. La politicizzazione di un tema può portare a disfunzioni governative, soprattutto se si considera che il governo ha il compito di affrontare questioni complesse che non sono necessariamente politiche. L’esempio della riforma fiscale del 2017 negli Stati Uniti è un chiaro esempio di come una decisione politica possa travolgere le normali dinamiche legislative, così come il blocco da parte dei Repubblicani della nomina di un giudice alla Corte Suprema durante la presidenza di Obama.

Tuttavia, la politica turboalimentata non si limita solo a questioni politiche di ampio respiro, ma può concentrarsi anche all’interno del contesto politico stesso. Le decisioni giudiziarie hanno un ruolo fondamentale nell’accelerare questo processo. Due sentenze della Corte Suprema degli Stati Uniti, Citizens United (2010) e McCutcheon (2014), sono esempi chiave di come le decisioni giudiziarie abbiano contribuito a ridefinire il panorama politico. La decisione in Citizens United ha aperto la strada alla possibilità di spese illimitate in attività politiche da parte di comitati d'azione politica (PAC) e super PAC, senza vincoli dai partiti o dai candidati, abbattendo di fatto le limitazioni imposte dalla legge. Inoltre, tale sentenza ha attribuito alle imprese lo status di “persone” con diritti di privacy, permettendo loro di fare contributi politici senza alcuna trasparenza. Questo ha portato a un aumento esponenziale delle donazioni elettorali, con cifre che hanno raggiunto miliardi di dollari entro il 2015.

Nel 2014, la decisione McCutcheon ha ulteriormente abbattuto i limiti ai contributi per le elezioni federali, consentendo agli individui di donare somme ingenti a più candidati e cause, sebbene mantenendo il limite individuale di 2.700 dollari per candidato. Queste decisioni non solo hanno rimodellato il finanziamento delle campagne, ma hanno anche accelerato l’emergere di una politica più aggressiva e con una forte influenza economica. Questo fenomeno ha visto, negli anni successivi, una politica sempre più dominata dalle forze economiche e finanziarie, dove il risultato finale delle elezioni non è determinato solo dalla volontà popolare, ma anche dalla capacità dei gruppi di pressione e dei donatori di influenzare il processo.

La politica turboalimentata ha infatti ridefinito il ruolo delle elezioni stesse. Non è più una semplice selezione dei leader o un esercizio di rappresentanza, ma un gioco di potere in cui il principale obiettivo sembra essere la vittoria, piuttosto che il raggiungimento di soluzioni utili per la società. Ad esempio, la corsa alle elezioni presidenziali ha preso una piega completamente nuova, con alcuni leader politici, come Donald Trump, che hanno iniziato a fare campagna per la rielezione poco dopo la loro prima elezione, modificando così la natura stessa della politica. Questo cambiamento ha reso la politica un'occupazione continua, una lotta incessante per mantenere e amplificare il potere acquisito.

Questo panorama ha anche influenzato il modo in cui le istituzioni stesse operano. La politicizzazione non si ferma alla semplice dialettica tra i partiti; essa permea ogni angolo del processo decisionale. Un esempio lampante di ciò è quanto accaduto in Pennsylvania, dove la Corte Suprema dello Stato ha annullato una mappa elettorale che favoriva i Repubblicani, solo per essere successivamente sfidato da un movimento di impeachment contro i giudici stessi. Questo episodio evidenzia come la ricerca della vittoria politica, e non il rispetto della giustizia o della costituzione, stia diventando la principale forza motrice.

In un contesto di politica turboalimentata, ogni decisione diventa un pezzo di una partita a somma zero, dove un lato vince e l’altro perde. Tuttavia, la politica, nella sua accezione più ampia, non è sempre un gioco a somma zero. Le azioni post-elettorali possono talvolta portare a collaborazioni tra partiti opposti, un fenomeno che, sebbene raro, ha avuto luogo in passato. Quando la politica stessa diventa un terreno esclusivamente di scontro, privo di spazio per la collaborazione, essa rischia di compromettere la qualità della vita politica.

Il pericolo principale della politica turboalimentata è che il confronto diventa fine a se stesso. Ogni parte è spinta a vincere, non per il bene della società o anche per il proprio partito, ma per il gusto della vittoria. Questo spostamento di priorità porta alla stagnazione dei progressi, alla frantumazione del consenso e alla paralisi delle istituzioni. In definitiva, quando ogni sforzo politico diventa una gara per la supremazia, si perde di vista l’obiettivo originale della politica: il miglioramento delle condizioni sociali e il benessere collettivo.