Nel contesto della politica americana, l'anno 2016 ha rappresentato un punto di rottura, un periodo in cui la polarizzazione crescente tra i partiti ha complicato notevolmente il processo istituzionale. La paralisi politica che ha afflitto il Congresso degli Stati Uniti, unita alla separazione dei poteri, ha reso difficile trovare soluzioni efficaci per le sfide interne ed esterne. Durante gli anni di Obama, la polarizzazione ha raggiunto un livello di intensità mai visto prima, accentuato dal fenomeno globale della "iper-cambiamento", in cui gli eventi in un paese influenzano direttamente le condizioni di altri paesi. La sua amministrazione, pur avendo intrapreso politiche significative, è stata vista con crescenti aspettative da un lato e critiche severe dall'altro. La crisi economica del 2008, che aveva generato una recessione profonda, era il background di un periodo di insoddisfazione e disillusione che ha segnato la politica del tempo.
Le istituzioni americane, già vulnerabili a causa di una crescente difficoltà nel soddisfare le aspettative dei cittadini, non sono riuscite a offrire soluzioni concrete in un periodo di tempi politici instabili. Nonostante i tentativi di Obama di riformare il sistema sanitario e di stimolare la ripresa economica, il suo operato è stato segnato da un forte risentimento e da divisioni interne. Il contesto socio-politico, caratterizzato da disuguaglianze economiche crescenti e dalle aspettative mal soddisfatte di una grande parte della popolazione, ha contribuito a rinforzare l’immagine di un’amministrazione incapace di risolvere i problemi più gravi. Queste tensioni sociali, che si sono fatte sentire particolarmente durante le elezioni presidenziali del 2016, sono state esacerbate dalla crescente influenza di movimenti politici populisti, come il Tea Party, che hanno sfidato la leadership tradizionale del partito repubblicano.
Le divisioni politiche e le fratture ideologiche, alimentate dalle caratteristiche sociali di razza, genere, classe e religione, hanno modellato in modo evidente il discorso pubblico. Le campagne elettorali sono state caratterizzate dall’accento sull’identità di gruppo, dove il dibattito sulla crisi economica si è spostato su chi fosse responsabile delle difficoltà economiche e chi meritasse un aiuto. Questo tipo di retorica ha distratto l’attenzione da discussioni sostanziali sulle soluzioni politiche per la crisi economica, in favore di un clima di accusare il prossimo. Una delle osservazioni più inquietanti di questo periodo è stata quella di Tom Brokaw, che ha descritto la società americana come più frammentata che mai, segnata da una guerra tribale politica dove le fazioni non si preoccupavano più dei fatti, ma della battaglia emotiva tra gruppi contrapposti.
L’emergere di una politica dell’identità, che ha diviso l’elettorato lungo linee razziali, di genere e di classe, ha rappresentato un punto focale nelle elezioni. Questo fenomeno ha reso il dibattito politico più personale che ideologico, con l’identità di gruppo che ha preso il sopravvento sulle questioni politiche tradizionali. La politica dell’identità, che si è diffusa in modo pervasivo, non è una categoria facilmente definibile, ma è un concetto che si basa sulla divisione delle persone in gruppi che hanno caratteristiche comuni. La politica si è così trasformata in un gioco di potere, dove i gruppi più marginalizzati sono stati non solo esclusi, ma anche demonizzati, con l’idea che rappresentassero una minaccia per l’ordine sociale e politico stabilito.
Nel cuore di questa divisione si trova il concetto di marginalizzazione, un processo che non solo esclude i gruppi più vulnerabili dalla partecipazione attiva nella politica, ma li costruisce anche come nemici o minacce per il benessere della nazione. L’identità, quindi, diventa una costruzione sociale, una categoria imposta che decide chi ha diritto al potere e chi ne è escluso. Questo meccanismo di esclusione si traduce in una pratica sociale e istituzionale che attribuisce valore differente a ciascun gruppo, conferendo un potere maggiore a quelli considerati più “degni” della società, mentre i gruppi marginalizzati sono relegati alla periferia politica e sociale.
L’incrocio tra il malcontento economico e le tensioni razziali, come osservato nelle zone rurali d’America, ha dato vita a un movimento neoconservatore che si è opposto non solo alle politiche di Obama, ma a un sistema che percepivano come distante dalle loro esigenze reali. La politica della vendetta, radicata nelle difficoltà economiche, si è mescolata con un crescente risentimento nei confronti del governo, alimentando le divisioni e creando un terreno fertile per il populismo conservatore. Il movimento ha preso piede anche grazie alla frustrazione di chi vedeva nella presidenza Obama una promessa non mantenuta, un simbolo di speranza che non ha portato ai risultati sperati.
Queste tensioni e polarizzazioni hanno reso la politica statunitense sempre più spettacolare, dominata dalla lotta per il potere tra gruppi contrapposti, dove le emozioni prevalevano sui fatti. La politica è diventata uno strumento di identità, dove il supporto a una fazione non era più una questione di adesione a un programma, ma di appartenenza a un gruppo. Le elezioni presidenziali del 2016 hanno mostrato in modo lampante quanto la politica dell’identità e la polarizzazione siano ormai centrali nella vita pubblica degli Stati Uniti, segnando un cambiamento profondo nel modo in cui il dibattito politico si svolge e come le persone si identificano e si schierano politicamente.
Questi sviluppi vanno letti alla luce delle dinamiche globali che interconnettono i cambiamenti politici di una nazione con quelli di altre. La crescente interdipendenza globale rende ogni mutamento, ogni disaccordo, ogni divisione un evento che può avere ripercussioni su scala internazionale, alimentando le tensioni anche fuori dai confini degli Stati Uniti. La politica dell’identità, in questo contesto, non è solo una manifestazione di divisioni interne, ma un elemento che contribuisce a modellare la geopolitica mondiale in modo sempre più complesso.
Come le emozioni modellano il giudizio politico sulla riforma sanitaria negli Stati Uniti?
Il giudizio sull'operato dell'amministrazione Obama in materia di sanità è stato profondamente segnato da un intreccio di emozioni politiche, più che da valutazioni razionali sulla politica stessa. Sentimenti come rabbia, paura e disgusto rivolti contro l’amministrazione hanno corrisposto a una mancanza di sostegno alla riforma sanitaria voluta da Obama, mentre emozioni positive nei confronti di Donald Trump, come l’orgoglio e la speranza, si sono dimostrate predittive di un’opposizione al partito al potere, anche quando si trattava di valutazioni retrospettive sull’amministrazione precedente.
Chi ha provato orgoglio e speranza verso Trump tendeva a giudicare negativamente la gestione sanitaria di Obama, pur trattandosi di un giudizio che, in teoria, avrebbe dovuto essere svincolato dal candidato successivo. L’approccio “retrospective” – cioè una valutazione dell’operato passato sulla base di emozioni proiettate nel presente – si è quindi dimostrato coerente: chi si sentiva ispirato dalle promesse di Trump, in particolare quella di “abolire e sostituire” l’Affordable Care Act, aveva già formulato un giudizio negativo sul passato.
Quando si passa all’analisi dell’ACA come entità autonoma, svincolata dal nome di Obama, si osserva un quadro altrettanto segnato dalle emozioni. Il 54% degli intervistati riteneva che la legge funzionasse male, benché la maggior parte delle sue singole componenti fosse percepita favorevolmente. L’unico elemento ampiamente impopolare era il mandato federale che obbligava cittadini e datori di lavoro a sottoscrivere un’assicurazione sanitaria. Su questo punto si è innestata una narrazione repubblicana potente, alimentata da dichiarazioni come quella del leader della maggioranza John Boehner, secondo cui l’ACA avrebbe distrutto il “miglior sistema sanitario del mondo”.
Nelle valutazioni sul piano sanitario, i sentimenti positivi verso Hillary Clinton – orgoglio e speranza – erano correlati a un maggiore sostegno per l’ACA, mentre emozioni negative, come paura e disgusto, alimentavano l’opposizione. La paura in particolare agiva come valutazione prospettica: rifletteva un timore per gli effetti futuri della legge, secondo una narrazione in cui l’ACA era presentata come una minaccia al sistema sanitario. Il disgusto, emozione discreta e radicale, fungeva da catalizzatore del rifiuto dell’ordine esistente, in questo caso identificato con Clinton e la continuità dell’ACA.
Nel caso di Trump, il modello si invertiva. Orgoglio e speranza erano associati all’opposizione all’ACA. Questa dinamica è significativa: emozioni che in altri contesti avrebbero promosso apertura e sostegno qui si legavano al rifiuto, poiché veicolate attraverso la promessa di distruzione di ciò che esisteva. Trump non offriva dettagli concreti su una nuova riforma, ma il suo linguaggio era strategicamente calibrato per distruggere la fiducia nell’ACA e in Clinton, dipingendoli come una minaccia sistemica.
Anche il disgusto verso Trump produceva un effetto interessante: generava sostegno per l’ACA, come se l’avversione al candidato spingesse a difendere ciò che egli attaccava con più forza. In altre parole, l’emozione negativa non sempre conduce al rifiuto della politica, ma può anche suscitare una reazione contraria, un consolidamento difensivo delle posizioni preesistenti.
Il dibattito sulla sanità, negli Stati Uniti, non si articola più semplicemente in termini di contenuto legislativo o efficienza economica. La dicotomia tra “sanità” e “Affordable Care Act” non è solo terminologica: le due espressioni attivano differenti cornici emotive e ideologiche. Il cittadino medio può sentirsi soddisfatto del proprio accesso alle cure, ma opporsi all’ACA per la sua associazione simbolica con un determinato partito o figura politica.
Ciò che emerge chiaramente è che le emozioni politiche non sono semplici reazioni individuali, ma strumenti strutturanti del giudizio politico. Esse modellano il modo in cui il pubblico interpreta eventi complessi, orientano la memoria selettiva del passato e influenzano in profondità la percezione del futuro. In un sistema altamente polarizzato, la stessa legge può essere valutata positivamente o negativamente in base a chi la rappresenta, più che in base ai suoi effetti reali.
È fondamentale comprendere che la politica emozionale non si limita alla manipolazione mediatica o alla retorica elettorale, ma penetra nel modo in cui gli individui organizzano la propria esperienza politica. Emozioni come speranza, paura e disgusto non sono meri accessori del discorso politico: sono forze che orientano il comportamento elettorale, che stabiliscono alleanze simboliche e che possono determinare la longevità o la fragilità delle politiche pubbliche. In un’epoca in cui la razionalità pubblica sembra spesso soccombere al dominio delle percezioni, analizzare queste dinamiche emotive diventa non solo utile, ma necessario per comprendere davvero la direzione della democrazia contemporanea.
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