Durante i secoli XVI e XVII, l'emergere della stampa a caratteri mobili non solo ha rivoluzionato la distribuzione delle informazioni, ma ha anche alimentato una tendenza che oggi conosciamo come "fake news". Nonostante la stampa avesse lo scopo di informare e divulgare fatti, spesso veniva utilizzata per scopi più sensazionali e commerciali, giocando sull'incredulità e sulla curiosità del pubblico. La stampa, infatti, diventa terreno fertile per esagerazioni e false verità, fenomeni che sono stati ancor più diffusi durante la Riforma e il Rinascimento.

La frase "notabitur Romae, legetur ergo", che significa "se è proibito a Roma, sarà letto", esprime la curiosità e il fascino che circondavano le opere che venivano censurate dalle autorità. Sebbene la stampa avesse potenzialmente il potere di trasmettere fatti reali, in realtà essa si piegò spesso alle esigenze commerciali, privilegiando contenuti esagerati, sensazionali e poco accurati per attrarre i lettori. La censura, in particolar modo durante le lotte della Riforma, spinse i tipografi a produrre notizie travisate, permettendo loro di pubblicare contenuti meno vincolati alla verità pur continuando a presentarsi come "notizie".

Nei secoli successivi, purtroppo, l'industria della stampa non solo non si distaccò da questa tradizione, ma la alimentò con il fenomeno dei "newsbooks" e delle "broadsheets", che apparivano come pubblicazioni occasionali anziché periodiche. Questi fogli, sebbene a volte contenevano fatti veri, spesso mescolavano realtà e fantasia in modo tale da confondere il lettore. Le illustrazioni crude, i titoli sensazionali e i racconti esagerati contribuirono a rendere questi articoli molto popolari tra il pubblico. La notizia di un drago che volava sopra Parigi nel 1579 o il racconto di una pioggia di grano in Inghilterra nel 1583 sono esempi perfetti di come i giornali dell’epoca enfatizzassero eventi naturali o storici per attirare l'attenzione dei lettori.

Un altro esempio significativo di questa manipolazione riguarda la "pazzia delle streghe" che imperversò in Europa. Le persecuzioni, che portarono alla morte di decine di migliaia di persone, venivano riportate in modo sensazionalistico, accentuando dettagli orribili e violenti. La realtà delle streghe che venivano bruciate vive veniva, dunque, presentata come un horror, ed esibita come una "notizia" che non mancava mai di attirare l'attenzione del pubblico, proprio come farebbero oggi le storie di crimine nelle pubblicazioni tabloid.

Questo tipo di disinformazione veniva venduto come "vero", nonostante la mancanza di fonti affidabili e la presenza di affermazioni non verificabili. La fascinazione per il soprannaturale e per eventi straordinari alimentava il mercato editoriale. In effetti, questi contenuti, apparentemente assurdi o fantastici, erano molto apprezzati da un pubblico pronto ad accettare ogni tipo di "meraviglia" come realtà. Un esempio eclatante di questa pratica è la pubblicazione del "Drago di Sussex", che venne presentata come una storia vera, supportata da testimoni e dettagli concreti, sebbene la stessa vicenda fosse priva di qualsiasi fondamento storico.

Questo fenomeno, che può sembrare ridicolo a noi oggi, mostra quanto le dinamiche di vendita di notizie e il bisogno di intrattenere il pubblico siano sempre stati legati all’esagerazione e all’invenzione. Le storie di mostri, miracoli e disastri naturali non solo erano popolari, ma erano considerate "notizie" per un pubblico credulo e affascinato. Sebbene alcune di queste storie abbiano radici in eventi reali, la loro narrazione veniva volutamente deformata per adattarsi ai gusti del pubblico e per massimizzare i profitti.

È fondamentale riconoscere che, sebbene il fenomeno del "fake news" sia spesso associato ai tempi moderni, esso ha radici antiche, che affondano nei primi giorni della stampa. Le forze che spingevano alla creazione di contenuti falsi non erano solamente di tipo politico o religioso, ma erano, come oggi, anche dettate dalle esigenze economiche. Le prime "notizie false" non erano solo una curiosità, ma un prodotto commerciale di successo.

In questo contesto, è importante capire che la manipolazione delle informazioni non è mai stata un problema esclusivo dei giorni nostri, ma una pratica che ha attraversato la storia della comunicazione umana. La differenza sta nel fatto che, oggi, la tecnologia e la velocità della comunicazione hanno amplificato enormemente l'impatto di queste pratiche. Le nostre capacità di distinguere tra verità e menzogna sono messe costantemente alla prova, proprio come accadeva secoli fa, quando l’illusione e la curiosità prevalevano sul desiderio di verità.

La nascita del cyberspazio: come la tecnologia ha cambiato il giornalismo e le comunicazioni

Nel 1973, Vint Cerf, un giovane ingegnere informatico americano, si trovava a dover affrontare un imprevisto: la nascita di un figlio lo aveva ritardato a una conferenza accademica in Inghilterra. Ma il suo ritardo non sarebbe stato il solo evento significativo di quell'anno. La sua scusa fu inviata attraverso un sistema che egli stesso stava sviluppando insieme ad altri scienziati, un progetto per il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, destinato a diventare l'ARPAnet, il seme da cui sarebbe germogliato l'Internet che oggi conosciamo. L'ARPAnet non era un'invenzione solitaria, ma piuttosto il risultato della necessità di creare una rete di comunicazione resistente agli attacchi nucleari, un progetto che rispondeva alle pressanti esigenze della Guerra Fredda. A quei tempi, i computer erano enormi, pesanti e alimentati da valvole elettroniche, lontani dai dispositivi che oggi usiamo quotidianamente.

La rete che Cerf e i suoi colleghi svilupparono collegava tra loro mainframe militari sparsi in tutto il paese, una sfida tecnica enorme, ma necessaria per garantire la sopravvivenza delle comunicazioni in caso di attacco nucleare. L'innovazione principale che emerse da questo progetto fu la creazione di protocolli in grado di far dialogare computer eterogenei. Questi protocolli, seppur pensati inizialmente per scopi militari, avrebbero cambiato per sempre la comunicazione tra esseri umani.

La rete di computer che nacque allora non era destinata a cambiare solo il mondo della difesa, ma anche quello delle comunicazioni civili e, successivamente, del giornalismo. Negli anni successivi, infatti, l'evoluzione della tecnologia portò alla creazione di computer personali, che avrebbero dato il via a una rivoluzione culturale senza precedenti. La transizione da enormi mainframe a piccoli dispositivi in grado di essere usati da chiunque portò alla nascita di Internet come lo conosciamo oggi. La possibilità di collegarsi facilmente con altre persone, indipendentemente dalla distanza geografica, ha trasformato ogni aspetto della società, incluso il giornalismo.

Inizialmente, l'idea di un network globale sembrava una possibilità lontana e difficile da immaginare. Ma una volta che l'Internet si diffuse, e divenne accessibile tramite computer a livello individuale, si aprirono nuove opportunità per le comunicazioni di massa. Negli anni '80, con l'avvento della "seconda generazione" di Internet, nota anche come Web 2.0, si iniziò a vedere l'emergere di nuove piattaforme, che avrebbero cambiato il modo in cui le notizie venivano diffuse e consumate. Non più solo giornali e televisione, ma anche blog, forum e social media, dove chiunque poteva diventare produttore di contenuti.

Tuttavia, il fatto che la tecnologia sia stata messa a disposizione di tutti ha comportato anche nuove sfide, in particolare nel campo della veridicità delle informazioni. La nascita della rete, lontana dall'essere un processo lineare, ha favorito l'emergere di fenomeni come le notizie false, o "fake news". Questa realtà non è semplicemente una conseguenza della diffusione di Internet, ma anche una riflessione sul nostro comportamento umano. Spesso, infatti, la rete è vista come una forza incontrollabile, un entità che sfugge alla nostra capacità di gestione. Tuttavia, la verità è che noi stessi, come utenti e creatori di contenuti, siamo coloro che contribuiamo alla formazione di questo ambiente digitale, spesso senza rendersi conto della responsabilità che questo comporta.

Sebbene le tecnologie siano state sviluppate con l'intento di favorire la comunicazione e la diffusione delle informazioni, la realtà è che oggi siamo più vulnerabili che mai all'inganno. Le piattaforme digitali, inizialmente create per favorire la condivisione di conoscenza, sono diventate anche un terreno fertile per la manipolazione e la distorsione dei fatti. La velocità con cui le informazioni si diffondono online ha ridotto la capacità di verificare i fatti in tempo reale, lasciando spazio a interpretazioni parziali e spesso fuorvianti.

Un altro aspetto importante da considerare è come l'emergere delle piattaforme sociali abbia profondamente modificato il nostro modo di consumare le notizie. Con l'avvento dei social network, ogni individuo ha la possibilità di essere una fonte di informazione, ma questo ha anche diluito il ruolo dei giornalisti tradizionali. In passato, il giornalista era visto come un intermediario tra la realtà e il pubblico, un filtro attraverso cui passavano le informazioni verificate. Oggi, invece, chiunque può diventare un produttore di contenuti, ma ciò comporta anche la difficoltà di distinguere tra notizie autentiche e manipolate.

Oltre alla diffusione delle fake news, bisogna comprendere come la digitalizzazione delle notizie abbia cambiato il modo in cui percepiamo la verità. Il concetto di "post-verità", cioè l'idea che le emozioni e le convinzioni personali siano più influenti della verità oggettiva, è ormai una realtà che caratterizza il nostro rapporto con l'informazione. Questo fenomeno è alimentato dalla polarizzazione delle opinioni online e dalla creazione di bolle informative, dove ciascuno è esposto solo a contenuti che confermano le proprie convinzioni preesistenti.

La nostra interazione con la tecnologia non è neutra. Ogni click, ogni condivisione, contribuisce a creare l'ecosistema informativo in cui ci troviamo immersi. Se da un lato Internet ha democratizzato la possibilità di accesso all'informazione, dall'altro ha creato nuove forme di controllo e di manipolazione delle opinioni. Il fatto che oggi le persone possano ottenere notizie istantaneamente da una varietà di fonti non significa necessariamente che queste siano accurate.

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La Soggettività nel Giornalismo: Un'alternativa all'Ideologia dell'Obiettività

Il giornalismo obiettivo, che ha dominato il panorama informativo per oltre un secolo, è stato sostituito da una visione che, a nostro avviso, ha portato più danni che benefici. Oggi, l’idea che il giornalismo debba essere neutrale, privo di giudizio e distaccato dalla realtà che racconta, è considerata una verità incontestabile. Ma la difesa dell’obiettività nel giornalismo, purtroppo, è diventata quasi una causa sacra, alla stregua di valori come la libertà o la giustizia. Tuttavia, a ben vedere, questa presunta obiettività è una maschera che nasconde il potere sociale e le dinamiche politiche che influenzano la narrazione della realtà. Gli argomenti contro l'obiettività si scontrano con l'idea consolidata che solo un giornalismo "imparziale" possa essere considerato valido. Eppure, questa ideologia ha sempre avuto, e continua ad avere, profonde implicazioni politiche.

Nel contesto del giornalismo obiettivo, le voci marginalizzate o prive di risorse istituzionali vengono sistematicamente ignorate, mentre le istituzioni dominanti ottengono il controllo sulla narrazione pubblica. La vera questione, quindi, non è tanto l’esistenza del bias, ma la sua visibilità e consapevolezza. Il giornalismo non è mai neutrale. Ogni scelta editoriale, ogni parola scritta, ogni prospettiva adottata è influenzata da un insieme di valori e convinzioni che rispondono a logiche politiche, sociali ed economiche. In un contesto simile, negare il bias equivale a una menzogna sistematica che offusca la comprensione della realtà.

Eppure, se analizziamo la storia, ci rendiamo conto che il giornalismo, prima che fosse imprigionato nell’idea di "obiettività", funzionava in modo diverso, ma forse più efficace. Il giornalismo del XIX secolo, infatti, era molto più aperto riguardo alle proprie inclinazioni politiche e ideologiche. Ogni testata giornalistica si definiva chiaramente secondo una visione del mondo, una posizione politica ben determinata. Non c’era la pretesa di essere imparziali. E questo, paradossalmente, aiutava a creare una relazione più trasparente con il pubblico, che sapeva esattamente quale fosse il punto di vista della testata e poteva così formarsi un’opinione informata.

Proporre oggi un ritorno a questo modello di giornalismo, che non si nasconde dietro l'illusione dell'oggettività, potrebbe sembrare radicale. Ma è in realtà una proposta che merita attenzione, soprattutto alla luce delle attuali dinamiche mediali. Un giornalismo che accetta e riconosce la propria soggettività è molto più onesto e, al contempo, molto più utile alla democrazia. Un giornalismo che non si vergogna di essere schierato non solo facilita un dibattito più genuino, ma permette anche di dare voce a tutte le parti in causa, senza il timore di offendere il dogma dell’obiettività.

Prendiamo ad esempio i sei compiti fondamentali del giornalismo delineati da Schudson: informare su ciò che non è generalmente conosciuto, fare da guardiano nei confronti di chi detiene il potere, fungere da forum pubblico per idee e opinioni, analizzare il contesto in cui avvengono gli eventi, favorire l'empatia sociale e mobilitare la cittadinanza. Tutte queste funzioni, se affrontate da un giornalismo esplicitamente soggettivo, potrebbero essere svolte con maggiore efficacia. Anzi, il riconoscimento di un punto di vista ben definito potrebbe, paradossalmente, rendere più chiara e comprensibile la realtà che ci circonda.

L'obiettività, come si è cercato di dipingere, è una trappola intellettuale che nasconde la natura intrinsecamente parziale del giornalismo. Ogni forma di comunicazione è influenzata da chi la produce e da chi la riceve. Pretendere che il giornalismo possa essere completamente obiettivo equivale a negare questa realtà. Ed è proprio questa negazione che crea uno spazio fertile per le distorsioni e le manipolazioni.

Il giornalismo che non ha paura di riconoscere le proprie inclinazioni, che non si preoccupa di aderire a un'idea astratta di imparzialità, è un giornalismo che è in grado di fare un servizio più autentico alla società. Una società democratica non ha bisogno di media che si rifugiano nell’illusione di essere neutrali, ma di media che sono capaci di confrontarsi apertamente con la complessità del mondo, riconoscendo le proprie parti prese e le proprie responsabilità.

La fine dell'oggettività nel giornalismo, pertanto, non è una fine, ma un nuovo inizio. È la possibilità di pensare il giornalismo in modo più sano, più trasparente, e più vicino alla realtà del pubblico che serve. Questo ritorno a un giornalismo che riconosce la propria soggettività è anche una via per superare l’attuale crisi delle fake news e delle notizie distorte. In un mondo dove ogni forma di informazione può essere contestata, l'unico modo per recuperare fiducia nel giornalismo è permettere che sia chiaro da quale prospettiva ogni notizia viene raccontata.