La lenta decomposizione si diffonde attraverso i loro corpi e penetra negli strati più profondi delle loro interiora di marmo. Si sgretolano silenziosamente in un decadimento interminabile, mentre le valenze cambiano e le molecole rinascano. Collassano con grazia, ridotte e realizzate dalla chimica del tempo in forme più elementari. Questo è il mondo in cui ci si immerge quando si esplora la storia alternativa, una dimensione in cui la realtà che conosciamo potrebbe non essere mai esistita.

Nel racconto di William Sanders, l'ambientazione è una New Arkhangelsk immersa nella nebbia della costa russa in un'estate che si avvia verso il tramonto. Due uomini, uno dei quali è Jack, un giovane dal fisico possente e dai tratti scuri, discutono in modo apparentemente casuale, ma con una sottile tensione. La loro conversazione si sposta rapidamente dal "perfetto" stato della nebbia che nasconde ma non cela, alla possibilità di un errore fatale. Tra questi due uomini, uno si chiama Vladimir, ma risponde anche al nome di Lenin. Una figura enigmatica e preoccupata, che è consapevole dei pericoli che li circondano. La situazione si trasforma rapidamente da una discussione politica a un'atmosfera di pericolo imminente, mescolata con una dose di realismo crudo e ironico.

Questo incontro tra Jack e Lenin non è solo il preludio di una missione, ma un'incursione nella storia che si fa piegare e riformare sotto i piedi degli uomini. L'incontro non è solo un discorso sulle scelte geopolitiche e le strategie militari, ma diventa anche una riflessione sulla natura umana, sulla paura e sulla disillusione. La figura di Lenin, immersa nella sua condizione di esilio e lotta, non può fare a meno di notare la decadenza e l'arretratezza del mondo che lo circonda, pur essendo a pochi passi dal futuro. Il contrasto tra il pensiero "avanzato" e il mondo medievale in cui si trova ad operare è palpabile. Questo non è solo un incontro fisico, ma una dissonanza storica, tra chi è chiamato a modellare il futuro e chi si trova intrappolato nel presente.

L'episodio in cui i due uomini vengono raggiunti da tre donne di origine indigena, si sviluppa in una dinamica di alleanze e convenienza. L'incontro con queste figure di "margine" non è casuale. Le donne, apparentemente fuori posto, sono infatti inserite in una trama più complessa: in un mondo dove le apparenze ingannano e l'uso strategico delle risorse umane si fa necessario. La conversazione tra i due uomini diventa sempre più un gioco di ruoli, in cui ciascuno cerca di comprendere le mosse dell'altro, sia sul piano politico che umano. Il senso di disillusione permea ogni loro dialogo, come se il passaggio da una visione ideale di un mondo giusto alla realtà concreta fosse inevitabile.

Vladimir (Lenin) non nasconde il suo disprezzo per una società che ancora si regge su superstizioni medievali. La Russia, pur avendo avviato un processo di modernizzazione, è ancora lontana da una vera evoluzione politica e sociale. Qui, il contrasto tra le idee progressiste e la rigidità di un sistema antichissimo non è solo una riflessione storica, ma una premonizione di come, in determinate circostanze, l’ideale e il reale possano distorcersi e prendere strade imprevedibili.

La lettura di un tale scenario è intrisa di un senso di inevitabilità storica, di come i destini si intrecciano per via di decisioni e accadimenti che potrebbero sembrare casuali ma che in realtà si costruiscono su un tessuto di conflitti più ampio e invisibile. Le strategie di potere, l’influenza delle convenzioni sociali, e le implicazioni delle azioni individuali si fondono in una trama complessa che trascende il singolo individuo e si allarga a comprendere interi popoli, intere ideologie.

Un aspetto fondamentale di queste storie alternative risiede nella riflessione sul futuro che non si sviluppa come una semplice sequenza di eventi, ma come una possibilità. La narrativa di Sanders e la figura di Lenin ci invitano a considerare il potere delle scelte individuali e collettive, ma anche l’assurdità di un tempo che sembra rincorrere se stesso senza mai arrivare a una conclusione chiara. Il lettore si ritrova di fronte alla domanda: come reagirebbe se potesse alterare le pieghe del passato? E se il futuro non fosse altro che una continuazione del presente, distorto dalla nostra percezione?

Una questione altrettanto interessante riguarda il modo in cui l’individuo si colloca in un contesto storico così denso di tensioni e sfide. I personaggi, sebbene immersi in un’epoca che sembra lontana, sono mossi da desideri e contraddizioni che risultano sorprendentemente moderni. Le riflessioni sulle scelte morali, sulle azioni politiche e sulle interazioni sociali sono tanto attuali quanto lo erano per coloro che vissero in quegli anni. In effetti, spesso si dimentica che la storia non è solo una narrazione di avvenimenti, ma un continuo intreccio di azioni che riflettono le speranze e le delusioni di ogni singolo individuo, nonostante il grande panorama storico.

La Magia della Musica e il Gioco del Potere

Il suono di una melodia lontana echeggiava nell’aria, come una promessa di qualcosa che stava per accadere. Lord Ermenwyr si sedette nella sua poltrona, sollevando il flauto verso le labbra e iniziando a suonare delicatamente. La musica sembrava danzare nell’aria, seducente e intrigante, un richiamo che non lasciava scampo. La melodia si alzò in un crescendo, diventando imperiosa, quasi minacciosa, per poi trasformarsi in un richiamo timido e distante. Ma il suo potere era innegabile. Ogni nota sembrava avere una volontà propria, come se la musica stessa fosse viva, pronta a incantare, a catturare l’attenzione.

Mentre suonava, Lord Ermenwyr sentì un lieve fruscio provenire dal camino, un suono che sembrava farsi strada attraverso la nebbia della sua concentrazione. Con un occhio socchiuso, osservò la scena che si stava materializzando davanti a lui: la fiamma che saliva dai ceppi si era espansa, illuminando la scena circostante con una luce spettrale. Il terreno sotto i suoi piedi cominciava a sollevarsi, modellandosi come se un artigiano invisibile stesse scolpendo la terra stessa.

La musica divenne più viva, rispondendo alla sua volontà. L’acqua ribolliva, la fiamma cresceva e la terra assumeva forme più definite, come se ogni elemento fosse un’entità in grado di rispondere agli stimoli della melodia. Quando la scena divenne più chiara, apparvero tre bambini nudi accanto al focolare. Erano eterei, la loro pelle sembrava di nuvole, un colore mutevole che sfumava come la luce di un arcobaleno. La bambina aveva fiamme che si intrecciavano sopra la sua testa, il ragazzo con i capelli argentati sembrava di pura acqua, e l’altro ragazzo, meno traslucido, più simile a un pezzo di argilla bagnata, sembrava il frutto di una terra magica.

Lord Ermenwyr, sorpreso dalla loro apparizione, smise di suonare, ma i bambini non erano soddisfatti. “Devi continuare a suonare”, dissero. Quando lui si scusò dicendo che era stanco, i bambini si irritarono e, con un’incredibile rapidità, crebbero in altezza, divenendo adulti potenti e minacciosi. La fiamma intorno alla bambina si intensificò, i ragazzi divennero figure imponenti. "Suona, o ti uccideremo," dissero, le loro voci piene di una minaccia tangibile. "Ti bruceremo. Ti affogheremo. Ti seppelliremo."

Lord Ermenwyr, con il suo solito sorriso malizioso, propose un gioco. Un gioco che sarebbe stato determinante per il suo destino. "Se vinco," disse, "voi farete ciò che dico. Se perdo, continuerò a suonare per voi." I bambini, dopo un attimo di incertezza, accettarono la sfida. Lord Ermenwyr, con una risata, preparò il tavolo e prese tre carte, ognuna con il ritratto di una figura importante della sua vita: lui stesso, suo padre e sua madre. Era un gioco di riconoscimento, ma c’era un trucco. "Troverete la signora," disse, "se riuscite a riconoscere la carta giusta, vincerete."

I bambini giocarono, ma il gioco non era semplice. Era un esercizio di astuzia, di inganno. Ogni volta che uno di loro cercava di scoprire la carta giusta, Lord Ermenwyr lo confondeva, facendo sembrare che avessero perso quando in realtà non avevano mai avuto una reale possibilità. La sfida divenne sempre più intensa, ma alla fine fu la bambina fiammeggiante a dichiarare la sua vittoria.

Lord Ermenwyr, soddisfatto della sua abilità nel manipolare gli altri, si prese il suo tempo per illustrare il suo piano più grande, un piano che avrebbe avuto conseguenze ben più grandi di un semplice gioco. La sua promessa di liberare i bambini, se avessero eseguito i suoi ordini, non era solo una minaccia, ma una condizione legata al suo potere.

Quando la notte si fece più profonda e la luna cominciò a scendere, Lord Ermenwyr guidò i suoi ospiti verso la sua destinazione. Si fermarono in un desolato paesaggio montano, dove Lord Ermenwyr, con il suo flauto, sollevò l’energia della natura stessa. La terra cominciò a vibrare, l’acqua fluiva e il fuoco si sollevava, e i bambini, ora consapevoli della loro potenza, danzarono sotto il cielo stellato, felici di fare parte di un piano ben più grande di loro.

La magia che aveva scatenato era completa. Il giorno seguente, quando i bambini si svegliarono e corsero fuori per esplorare il nuovo mondo che Lord Ermenwyr aveva creato per loro, tutto sembrava essere stato pianificato nei minimi dettagli. Le piante erano cresciute in un istante, gli alberi si piegavano sotto il peso di frutti abbondanti, e la vita sembrava scorrere con una nuova energia.

Ma il vero gioco di potere, quello che Ermenwyr aveva in mente, non si sarebbe rivelato subito. La sua capacità di manipolare gli elementi, di modellare la realtà a suo piacimento, era solo una parte della sua astuzia. Il suo obiettivo finale era molto più profondo: sfidare il flusso stesso del tempo e alterare il destino degli esseri che gli erano sottomessi. Ogni mossa, ogni canzone, ogni carta che veniva girata era solo una fase di un gioco di potere che avrebbe avuto ripercussioni ben oltre quella notte, ben oltre il gioco stesso.

Cosa succede quando il mondo finisce?

Tutto ha un inizio e una fine, ma cosa succede quando quella fine arriva in modo inaspettato, violento, come una forza della natura che non possiamo controllare? Quando il mondo che conosciamo crolla davanti ai nostri occhi, come una scena di un film in cui il destino ci raggiunge in modo implacabile e senza pietà. Nel racconto di Steven e Maryanne, il caos che sovverte le leggi della realtà ci obbliga a riflettere non solo sull’ineluttabilità della fine, ma sulla nostra stessa esistenza in quanto esseri umani, consapevoli della fragilità del nostro cammino.

Nella sala del National Redout, i protagonisti assistono a un evento che si manifesta come una catastrofe cosmica. La distruzione del Sole, seguita da un'esplosione che spazza via la Luna, è il presagio di un'era che si chiude, non con un urlo di dolore, ma con una rivelazione silenziosa e feroce. "Non importa più," dice Steven, eppure, mentre il mondo si dissolve in un tripudio di luce e distruzione, c’è qualcosa di intrinsecamente umano nell'abbracciare il momento finale con una sensazione di impotenza e accettazione. La morte, o meglio, il cambiamento radicale che il mondo sta per subire, non è più un nemico da combattere, ma una realtà da vivere.

Eppure, nella disperazione, anche nell'imminente distruzione, c’è una curiosa tranquillità. Non si tratta più di cosa succederà dopo, ma di come affrontiamo quel "dopo". C’è un paradosso in questa visione: mentre la fine è imminente, l'umanità continua a cercare un senso nel piccolo quotidiano. L’idea di fermarsi a vedere un vecchio film, come Gunga Din, diventa quasi un atto di resistenza. In un momento in cui tutto è destinato a svanire, il ricordo del passato e la voglia di vivere anche gli ultimi attimi ci rendono più umani che mai. È come se, di fronte all'annientamento, ogni istante che siamo riusciti a vivere acquisisca un valore più profondo, una bellezza tragica che non abbiamo mai visto prima.

Tuttavia, c'è un altro elemento che emerge in questo scenario di fine del mondo: la questione dell'individualità. Mentre il mondo crolla, la lotta per la sopravvivenza non si riduce alla mera possibilità di continuare a respirare. La sopravvivenza diventa un atto di connessione. L'unica cosa che resta, alla fine, è ciò che ci lega agli altri, quei pochi legami che sono davvero significativi. L'eroismo in questo contesto non è più una questione di grandi gesti, ma della capacità di accogliere il caos e l’incertezza insieme a chi ci sta accanto, nell’ultimo istante. Questo legame, per quanto temporaneo, diventa la vera essenza della nostra esistenza.

Guardando il Sole diventare un punto brillante e la Terra ridursi a un'immagine in dissolvenza, ci rendiamo conto che ogni azione umana, ogni scelta, ogni emozione, non è altro che una reazione a un universo che ci sfugge di mano. La fine è solo un altro passo nell'infinito ciclo cosmico. Ma forse, nell'inevitabilità di questa fine, si trova la chiave per una nuova comprensione della vita. È solo nel vuoto lasciato dalla distruzione che possiamo vedere chiaramente quanto ogni attimo passato sulla Terra sia stato un miracolo fragile e prezioso.

Quando l'umanità si confronta con la sua fine, che sia attraverso la distruzione di un pianeta o il cambiamento irreversibile della nostra stessa natura, il desiderio di "tornare a casa" rimane una costante. Forse, alla fine, non c’è nulla di veramente perso, se non le illusioni di controllo che ci avevano convinto che avessimo il potere di determinare ogni passo. In definitiva, è nell'abbandono di queste illusioni che l'individuo trova una nuova forma di libertà, una libertà che non ha bisogno di risposte, ma solo di una consapevolezza più profonda del proprio posto nell’universo.

Il lettore, confrontandosi con una narrazione che gioca sul filo sottile tra la distruzione e la salvezza, dovrà fare i conti con l'idea che la fine, qualsiasi forma essa assuma, è anche un’opportunità. Un'opportunità di riscoprire il valore del legame umano, di rivedere le proprie priorità e di comprendere, senza illusioni, la vera essenza della propria esistenza.

Perché ci si allontana dalle radici? La scelta di Yolanda e la fine dei bambini di Kiter

Sentendo il calore di lei come luce del sole sulla pelle, Tracker osservava Yolanda, il suo volto colpito da una luce che sembrava fatta per sfiorare il corpo e l'anima, ma anche per bruciare, come una verità dolorosa. "Queste sono persone gentili, Tracker," disse Yolanda, accarezzandogli la faccia con la punta delle dita. "Qualcuno le ha create per essere finite, ed è così che stanno finendo." La sua voce tradiva una tristezza che si mescolava con una rabbia nascosta, una tristezza che Tracker aveva imparato a riconoscere nei suoi occhi, nei suoi gesti.

"City Man—Donai—le ha create," rispose Tracker, e il suo tono non ammetteva smentite. Yolanda ritirò la mano bruscamente, come se il suo tocco fosse stato un graffio affilato. "Come fai a saperlo?" chiese, con una sfumatura di rabbia che nascondeva la sua incredulità. Tracker si strinse nelle spalle. La verità era scritta nell'odore stesso di queste persone, nelle loro origini, ma non c'era bisogno di spiegarlo. "Lo so e basta."

Ma Yolanda non credeva, e la sua menzogna era impastata di dolore. Era una menzogna di qualcuno che non voleva affrontare la realtà della sua fine imminente. Tracker si alzò, uscendo fuori. Jesse lo stava aspettando nervosamente. Si accovacciò accanto a lei, le strinse una delle orecchie morbide, e sentì un piccolo sollievo nel vedere la sua coda scodinzolare. Ma non era tutto bene. Nulla era veramente bene. Mentre tornava al van per prendere dell’acqua, il suo pensiero tornava alla morte che stava inesorabilmente prendendo piede tra i giovani come Karda.

Karda era una delle ultime fiamme di vita rimaste, una bambina che parlava con l'entusiasmo di chi non ha ancora visto il mondo per ciò che è. "Sei davvero di City?" chiese, con la curiosità di chi non sa nemmeno cosa sia davvero la città. Le sue parole esplodevano in una sequenza di domande, e Tracker rispondeva distrattamente, lasciando che il suo sguardo corresse altrove, come se volesse non affrontare davvero il peso di quelle domande. La sua mente andava alla vita che lasciava, alla tragedia che stava avvolgendo il popolo dei kiter, condannato a morire prematuramente, i suoi bambini destinati a non superare mai l'adolescenza.

"Sei pronto a vedere City?" chiese alla ragazza, una domanda che portava con sé la promessa di una risposta difficile da concepire. "Sì," rispose Karda, guardando la città con occhi che avevano già visto il suo orrore, ma che avevano bisogno di una conferma tangibile. "Non credo che voglio viverci. Mi piace questa vita. Ma che cosa ha City, se non altro che persone chiuse in un unico posto? Lì si vola?" Era una domanda innocente, ma nello stesso tempo carica di significato: la ricerca di qualcosa di più, la ricerca di un futuro che forse non sarebbe mai arrivato.

Poi il dolore fece capolino, come sempre fa quando c'è qualcosa che non si vuole accettare. "Vai a prendere Yolanda?" chiese Karda, senza nascondere la sua amarezza. La piccola stava combattendo con una tristezza che la toglieva dall'infanzia, dalla spensieratezza. Yolanda, che non voleva partire, ma che alla fine avrebbe dovuto, come tutti, come la sua stessa fine l'aveva già decretato. Il dolore di Karda, la consapevolezza che sua madre se ne sarebbe andata, le fece tremare le labbra.

Tracker guardò Yolanda avvicinarsi, sentendo l'amaro in bocca. Ma ciò che gli pesava di più non era la partenza imminente, ma la consapevolezza che questa separazione non era una semplice fuga, ma una necessità, una scelta dettata dal destino che le loro vite non potevano sfuggire. In qualche modo, non c'era nessuna speranza di sopravvivenza per questi ultimi esseri umani creati da City Man. Le risposte che cercavano non erano più nel presente, ma nel ricordo di un passato che non si poteva più cambiare.

La scena di Yolanda che baciava la figlia Karda sulla fronte, con le lacrime pronte a scorrere, ricordava a Tracker la crudeltà del loro destino. La città da cui provenivano non era altro che una trappola, una gabbia dorata che li aveva creati per vivere e poi morire senza nessuna speranza di crescita. Questi giovani, questi bambini, avevano il diritto di esistere, di crescere, ma il loro tempo era troppo breve. Come potessero crescere in una società che non poteva garantirgli un futuro era una domanda che rimaneva senza risposta.

Il viaggio verso la città era ormai inevitabile, ma Tracker sentiva dentro di sé un'irresistibile riluttanza. C'era qualcosa di più grande che non voleva affrontare, un destino che si stava compiendo senza pietà. Yolanda aveva fatto la sua scelta, come tutti avevano fatto, ma era una scelta che non avrebbe mai dato loro la libertà. Karda, con la sua giovinezza bruciante, era la luce che si stava spegnendo troppo presto.

In un mondo dove l’esistenza stessa è stata forgiata artificialmente e limitata nel tempo, la verità, dolorosa e innegabile, è che la fine era già stata scritta per loro, e nulla avrebbe potuto fermarla. La vita che avrebbero voluto, quella di chi può scegliere e vivere liberamente, non esisteva più. Era un sogno che svaniva come la luce del sole, un sogno che non avrebbe mai preso forma.

Il caofa: Un Prodotto Esotico e le sue Possibilità Commerciali

L'ingresso nella laguna, con il suo ponteggiare traballante di palme in vaso, arbusti e alberi di agrumi, sembrava una vera e propria allegoria dell'eccentricità dei collezionisti. Forse Alpini avrebbe potuto rientrare sulla galera consolare, pensava Matteo, ma aveva dei dubbi. "La tua lettera parlava di un progetto interessante", disse Alpini. "Sembri essere un uomo d'affari, non uno studioso. Dimmi, cosa ti hanno portato i tuoi viaggi in Egitto che tu credi possa interessarmi?"

Matteo estrasse dalla sua borsa di pelle. "Riconosci questi?" chiese, versando una manciata di fagioli verdi nella mano di Alpini. Il direttore li studiò da vicino. "Immagino che siano egiziani? Sembrano... cieli, sembrano le bacche dell'albero di caova." Scosse la testa, sorridendo. "Ne vidi uno al Cairo, ma fioriva raramente. Il caova cresce davvero solo nell'Arabia meridionale, nelle zone montuose. È da lì che devono provenire questi semi, per arrivare a questa bella dimensione. Gli indigeni li arrostiscono e ne ricavano una bevanda calda."

"Sì," rispose Matteo. I due uomini si erano seduti su una panchina lungo il sentiero, mentre Alpini girava i fagioli nella sua mano. "Pensi che riusciresti a farli crescere?" chiese Alpini.

"Questi semi? Non ci sono mai riuscito in Egitto", rispose Matteo, spingendo con un dito un seme particolarmente grande. "Ma non mi dispiacerebbe riprovare."

"Ho dodici sacchi di questi semi", disse Matteo. "Forse uno è stato troppo in fretta sottoposto al processo di scaldatura." Tirò fuori il suo portafoglio e ne estrasse una dozzina di piccoli fazzoletti di carta, che rattliavano leggermente. "Tutto ciò di cui abbiamo bisogno sono pochi fagioli – anche uno solo – che non siano stati scaldati a sufficienza."

"In un clima o terreno sbagliato, l'albero non fiorirà", avvertì Alpini. "Ma se c'è ancora vita in questi semi, io la farò fiorire." Scosse i pacchetti con una certa ansia. "Hai viaggiato molto in Egitto? Io non ho potuto: il console è rimasto al Cairo, e io per forza con lui." Stavano camminando verso i cancelli del giardino e il palazzo botanico, dove Alpini voleva mostrare i semi agli studenti. "Ci vai spesso?" chiese.

Il Palazzo Comunale si trovava nella piazza principale di Padova, costruito a spese della Repubblica affinché "gli uomini veneziani e paduani di buona volontà potessero incontrarsi e conversare insieme per aumentare il loro reciproco amore e fiducia". Molti degli occupanti del pomeriggio sembravano studenti, né veneziani né padovani (la famosa università attirava studiosi da tutta Europa), né, agli occhi disillusi di Matteo, uomini di buona volontà. Questo non importava, perché gli studenti erano pronti a godere dei piaceri quanto gli uomini più sensati – e probabilmente più velocemente nel parlarne poi. La serva assunta sorrideva a tutti mentre macinava i fagioli in un mortaio, suscitando commenti un po' grossolani ma anche sguardi di interesse. La caraffa era una bella, e l'assenza delle tazze, disposte invitanti lungo il lungo tavolo, portava con sé un indiscutibile senso di attesa.

Matteo camminava tra gli spettatori, annuendo e facendo un cenno con la testa, come un borghese al matrimonio di sua figlia. "Viene dall'Arabia, sì", diceva a chi gli chiedeva. "Lo chiamano caofa, la parola significa effettivamente 'vino'. Perché intossica senza stordire, la proibizione mohammedana contro l'alcol non può toccarlo. Sì, egiziani e turchi lo bevono nero e caldo, ma fra un momento Paolina preparerà panna, miele, vaniglia e altri additivi, così che i palati cristiani possano assaporarlo in un modo più consono."

Gli uomini si piegavano in avanti mentre Paolina versava la ricca polvere scura nel setaccio. Uno a uno gli studenti annusavano, si ritraevano con un'espressione sorpresa, poi prendevano un respiro più profondo. Quando il bollitore cominciò a fischiare, Paolina aveva già attirato una considerevole attenzione, e gli osservatori guardavano la sottile colonna di vapore come se fossero discepoli di un alchimista. Abbastanza uomini erano in attesa che Paolina riempisse le tazze solo per un quarto, come se si trattasse di un vino particolarmente selezionato.

Matteo osservava mentre si afferravano le tazze, le sorseggiavano, poi si guardavano tra di loro incerti, schioccando le labbra o strofinando i grani contro le lingue. Uno lo guardò e Matteo disse: "Ricordi il tuo primo sorso di vino?" Quando la seconda caraffa venne servita, i primi bevitori si guardavano con una crescente consapevolezza, e il brusio della conversazione cresceva, i gesti si facevano più animati. Incitamenti venivano lanciati a Paolina per macinare più velocemente e scoppiò qualche risata in piccoli gruppi.

Un giovane aggiunse la panna alla sua tazza e fu subito preso in giro dai compagni. Matteo stava organizzando che un vassoio di caofa fosse portato a un gruppo di uomini più anziani seduti all'altro lato della stanza, quando Gaspare gli afferrò il gomito.

"Ce l'ho!" sussurrò Gaspare. "Cosa hai?" rispose Matteo, "Hai bevuto una tazza? Vanno via in fretta."

"Ho trovato la risposta! Guarda qui." Gaspare cercava di mostrargli qualcosa, sfogliando le pagine di un grande libro. "Si chiama De Re Metallica, uno dei professori me ne ha parlato. Sono stato in biblioteca tutto il giorno."

"Gaspare, può aspettare? Ho delle responsabilità adesso." Gaspare guardò attorno sbalordito. "Stai ospitando questo? Che spreco di buon caofa!" Aprì il folio. "In breve, è un libro sulle miniere e la fusione, che poco ci interessa all'Arsenale. Ma guarda qui." Gaspare indicò un'illustrazione con una grande xilografia. "È una macchina per drenare l'acqua da una miniera—‘siphones aquam spiritu tractam’; cioè, una pompa a suzione. Vedi cosa produce la suzione? È un pestone!"

"Una barra collegata a un cilindro?" Matteo era sicuro che il testo lo spiegasse, e provò una punta di fastidio per dover indovinare mentre Gaspare non aveva dovuto. "C'è un sigillo all'interno del cilindro, che la barra spinge su e giù. La discesa espelle l'aria sotto il cilindro, così che la salita produrrà suzione. E questa aspira l'acqua!"

"Perfetto." Matteo si alzò e salutò un uomo più anziano appena arrivato, un mercante padovano che conosceva. Si sedettero in poltrona a discutere di traffico fluviale, quando Paolina comparve con due tazze, servendo come se stesse riempiendo un ordine. "Conosci questo, Benito?" chiese Matteo casualmente, poi guardò il collega sniffare incerto e sorseggiare.

Un altro mercante si avvicinò, e presto Matteo fu invitato in una taverna al molo, dove i mercanti si radunavano a un tavolo sul retro al termine della giornata. Alle sette era seduto alla tavola di Grimaldi, osservato curiosamente dalla famiglia del mercante.

"La pozione consumata solo dai turchi e altri infedeli può davvero essere benvenuta nelle terre cristiane?" chiese la figlia Maria. Matteo annuì educatamente. "Spezie e tessuti pregiati non possono essere prodotti in Europa, quindi li importiamo. Non c'è nulla di anti-cristiano nel mangiare pepe o indossare seta."

"Quanta ne serve per fare una tazza?" chiese Giorgio di Grimaldi. "Forse mezza tazza di fagioli per preparare una caraffa", ammise Matteo.

"Quindi non ottieni centinaia di porzioni per libbra", osservò Grimaldi. "Il caofa non è una sostanza preziosa, ma piuttosto una merce, come il vino o il grano."

"Vedo perché i medici ne abbiano fatto una medicina da dispensare a