L'informazione, nel suo senso più profondo, è legata a una relazione complessa tra segni, significato e l'oggetto che essi rappresentano. La rappresentazione simbolica, contrariamente alla rappresentazione iconica o indicale, non ha una correlazione diretta con ciò che rappresenta. In altre parole, un simbolo è un segno che non ha bisogno di mantenere un legame diretto con l'oggetto per conservare il suo potere referenziale. Questo fenomeno è fondamentale per comprendere come l'informazione astratta, generalizzata o fittizia possa esistere e comunicarsi efficacemente. Il potere referenziale dei simboli, infatti, non dipende dalla loro connessione immediata con un oggetto fisico nel mondo, ma si basa sulle relazioni indiciali tra i simboli stessi.

La teoria semiotica suggerisce che un simbolo possa rappresentare un oggetto nel mondo solo quando viene radicato nuovamente, stabilendo connessioni indiciali che sono correlate direttamente all'oggetto nel mondo fisico. Questo processo di "ristrutturazione" consente di distinguere i diversi tipi di parole e significati, ognuno con una propria funzione e modalità di relazione con l'oggetto rappresentato. In questo senso, le parole non sono semplicemente segni convenzionali, ma strumenti dinamici che operano attraverso reti di significati collegati a un mondo esterno.

Quando si esplora il concetto di convenzione nel significato, la teoria del gioco evolutivo del segnale proposto da Lewis e Skyrms si rivela insufficiente. Sebbene utile per spiegare come i segnali possano emergere tra mittente e ricevente, questa teoria non riesce a cogliere appieno la natura convenzionale del significato. Qui entra in gioco l'argomento della malintesa comunicazione, che si presenta come una riflessione sulle difficoltà di stabilire significati condivisi in contesti dove la comprensione reciproca fallisce. Attraverso un esperimento mentale, chiamato "Magical Fight", viene esplorato come la malcomprensione reciproca possa fungere da argomento contro una visione troppo riduttiva della convenzione. La convenzionalità, quindi, ha due aspetti: da una parte il veicolo del segno, e dall'altra la relazione referenziale della lingua, entrambi determinati da norme sociali e culturali che ne strutturano il significato.

La relazione tra segno e oggetto nel mondo fisico è, pertanto, un aspetto fondamentale per comprendere come l'informazione si manifesta. Ma è altrettanto importante notare che il significato non è un dato assoluto; è il risultato di una negoziazione sociale, di una convenzione condivisa che evolve nel tempo. In questo contesto, la semiotica non solo aiuta a spiegare come i segni rappresentano gli oggetti, ma fornisce anche un quadro per analizzare le dinamiche di comunicazione e malinteso che caratterizzano la trasmissione dell'informazione.

Per comprendere appieno la natura dell'informazione, è necessario anche esplorare i diversi modi in cui essa può essere misurata e definita. Mentre il concetto di "informazione" è ampiamente utilizzato in vari campi scientifici, c'è una tendenza a confonderlo con altre nozioni, come "messaggio", "dati" o "codice". Ciò che è essenziale è capire che l'informazione non è solo una questione di riduzione dell'incertezza, ma include anche la riduzione del dubbio e delle imprecisioni attese, che rappresentano altre forme di incertezza epistemologica.

Infine, è importante notare che l'informazione non è una realtà monistica che permea l'intero universo. Al contrario, essa si manifesta in vari aspetti che sono gerarchicamente interdipendenti: l'informazione strutturale dipende da quella referenziale, che a sua volta dipende da quella normativa. Questo ci porta a una visione più articolata dell'informazione, in cui ogni aspetto contribuisce a un sistema complesso di significato che è tanto culturale quanto biologico, tanto fisico quanto sociale.

Come Comprendere la Natura dell'Informazione: Un'Analisi Fisica e Metafisica

L'informazione, un concetto centrale nelle scienze cognitive, nella filosofia della mente e nella teoria dell'informazione, riveste una natura complessa che non può essere ridotta facilmente a una singola definizione. Diverse scuole di pensiero, tra cui quelle dei filosofi naturali, dei teorici dell'informazione e dei fisici, hanno cercato di comprendere la sua vera essenza. Una delle questioni principali riguarda la relazione tra l'informazione e la fisicità: l'informazione è un'entità astratta, o è un aspetto fondamentale della realtà fisica?

Il problema si complica ulteriormente quando si esplora la teoria della "informazione forte" proposta da Luciano Floridi, la quale enfatizza la dimensione semantica dell'informazione come un elemento essenziale che definisce non solo il suo contenuto, ma anche la sua funzione. Secondo Floridi, l'informazione non è semplicemente un insieme di dati grezzi o di segnali: è semantica per natura, e la sua esistenza si intreccia con il significato che veicola. Tuttavia, la sua teoria è stata criticata, ad esempio da Duzi (2010), che accusa Floridi di confondere il concetto di informazione con quello di "informatività", proponendo un approccio più rigido e realistico nella definizione di informazione. Malgrado le critiche, la teoria di Floridi ha una sua importanza, in quanto cerca di integrare un livello profondo di significato all'interno delle dinamiche comunicative e informative.

Un concetto rilevante in questa discussione è quello della "correlazione informativa", introdotto da filosofi come Millikan (2004). Questo approccio suggerisce che l'informazione non è un'entità isolata, ma un segno che si stabilisce attraverso una correlazione non accidentale tra due eventi o stati del mondo. Per esempio, una nuvola scura può servire da segno di pioggia, non perché la nuvola stessa sia la pioggia, ma perché c'è una regolarità statistica tra l'apparizione della nuvola e la probabilità di pioggia. La nuvola e la pioggia appartengono a due "insiemi di affari mondiali" distinti, ma la struttura di uno dei due insiemi (la nuvola) serve come un segno per la struttura dell'altro (la pioggia). L'informazione è quindi una forma che può essere "proiettata" da un contesto a un altro, permettendo così una comunicazione tra gli stati del mondo.

Questa visione correlazionale dell'informazione si inserisce in un quadro più ampio che si interroga sullo status metafisico dell'informazione. Secondo Norbert Wiener, famoso per il suo aforisma "L'informazione è informazione, non materia né energia" (1961), l'informazione è distinta dai processi fisici che la realizzano, come i circuiti elettronici di un computer o le attività neurologiche del cervello umano. Questo porta a una domanda fondamentale: come può un'entità non fisica, come l'informazione, avere effetti fisici? La risposta a questa domanda richiede una comprensione più profonda della relazione tra "forma" e "fisicità". Le teorie contemporanee, infatti, si trovano a fare i conti con il dilemma che affonda le radici nella filosofia antica, in particolare nel pensiero di Platone e Aristotele, che già si interrogarono sulla natura delle forme astratte.

Da una parte, esistono posizioni che tendono a ridurre l'informazione a una proprietà fisica, vedendo le regolarità naturali o le strutture come la manifestazione di una realtà puramente materiale. Questo approccio, che possiamo definire "fisicalismo riducibile", è seguito da teorie come quella di Dretske (1981) e Millikan (1984), che vedono l'informazione come una proprietà che emerge dalle strutture fisiche e dai processi causali. D'altra parte, una visione più radicale, quella del "fondamentalismo informativo", sostiene che l'informazione è una proprietà fondamentale dell'universo, così essenziale quanto la materia o l'energia. Questa posizione, sostenuta da pensatori come John Archibald Wheeler, afferma che l'universo stesso è essenzialmente computabile e digitale, dove ogni differenza o simmetria è una forma di informazione.

Le implicazioni di questa visione sono notevoli. Se l'informazione è davvero un elemento primordiale della realtà, allora il nostro modo di comprendere l'universo cambia radicalmente. Le teorie che vedono l'informazione come un principio fondante suggeriscono che essa potrebbe essere utilizzata per spiegare fenomeni complessi come la coscienza, la percezione e persino la materia stessa. Tuttavia, questa posizione è anche oggetto di critiche, in particolare per il suo approccio metodologico, che alcuni considerano un "politica della struzzo", evitando il problema centrale della natura dell'informazione senza offrire una spiegazione soddisfacente.

In generale, la questione dell'informazione come entità fisica o astratta è ancora aperta. Le teorie contemporanee cercano di navigare tra il riduzionismo fisico e l'idea di un'informazione fondamentale, ma entrambe le posizioni affrontano difficoltà metafisiche che non sono facilmente superabili. La chiave per comprendere la natura dell'informazione, dunque, potrebbe risiedere nel trovare un equilibrio tra queste due visioni, riconoscendo che l'informazione, pur radicata nel mondo fisico, possiede una dimensione semantica che la rende unica e difficile da ridurre completamente a fenomeni fisici.

Come il punto di legame e la selezione naturale plasmano i processi interpretativi: una riflessione semantica

Il concetto di "punto di legame" in relazione ai segni e alla loro interpretazione ha sollevato molte discussioni nella filosofia della semiotica. La domanda centrale riguarda il ruolo che questo punto gioca nell'indicare se è l'oggetto dinamico (l'oggetto in movimento) o l'ambiente in generale (l'oggetto immediato) ad essere rappresentato. La mia tesi è che questa domanda non sia del tutto corretta. In effetti, la presenza dell'oggetto dinamico costituisce una parte fondamentale dell'oggetto immediato. La selezione di un substrato specifico per la rappresentazione è determinata e vincolata dalla sua idoneità generale per l'autogenesi, ovvero per la capacità del sistema di auto-produrre se stesso, definito secondo l'autogenesi stessa. Questo implica che ciò che un segno rappresenta dipende dal suo contributo ai processi di auto-manutenzione e auto-produzione dei sistemi interpretativi.

Pertanto, sebbene possiamo classificare oggetti immediati e dinamici a fini epistemologici, queste categorie non sono significative nel processo operativo e interpretativo. In termini semiotici peirceiani, gli autogeni riparati e discendenti sono interpretanti. Tuttavia, alcuni potrebbero obiettare che, sebbene l'autogeno sensibile riapra la sua contenimento aumentando il legame con il substrato e inizi a replicarsi quando ci sono substrati abbondanti, la presenza di questi substrati e il loro contributo all'autogenesi potrebbero essere accidentali e idiosincratici. Di conseguenza, sarebbe difficile sostenere che la funzione principale del punto di legame sia quella di rappresentare l'idoneità generale dell'ambiente.

Il concetto di teleosemantica, che attinge alla storia evolutiva attraverso la selezione naturale, mira a spiegare l'aspetto stabilizzante della normatività della rappresentazione. Tuttavia, come argomentato nella Sezione 4.2, una rappresentazione, come funzione stabilizzante, riguarda il passato in base alla teoria etiologica della funzione, mentre un sistema vivente usa la rappresentazione per affrontare le condizioni presenti. In questo modo, l'ambiente circostante, o meglio l'evoluzione storica che ha forgiato la capacità di rappresentare, non è il solo elemento che determina la natura di un segno, ma piuttosto la capacità del sistema di rispondere e reagire alle circostanze attuali.

Peirce distingue tra interpretanti dinamici e finali. L'interpretante dinamico è l'effetto diretto o attuale che un segno produce su un sistema interpretativo, mentre l'interpretante finale è qualsiasi effetto di tipo regola o legge che un segno esercita su un sistema interpretativo. Nel nostro esperimento mentale, l'autogeno riparato e i suoi replicanti sono interpretanti dinamici, mentre la perpetuazione di questa abitudine interpretativa attraverso la persistenza della linea genealogica dell'autogeno è l'interpretante finale. Ma qual è la relazione tra l'interpretante finale e l'interpretante dinamico? Ancora una volta, è possibile ricorrere a spiegazioni evolutive, ma in un modo negativo. L'evoluzione, infatti, non determina o produce una funzione, come suggerirebbe la teoria degli effetti selezionati, ma impone vincoli che strutturano come una funzione venga eseguita.

Un ingrediente basilare della selezione naturale include la variazione naturale, la riproduzione differenziale e l'ereditarietà. In breve, esistono varianti nei tratti biologici tra i membri di una popolazione, varianti che hanno successo riproduttivo differenziale, e le variazioni sono ereditabili. Con questi tre fattori, l'evoluzione procede. Una variante con una maggiore fitness prevarrà nella popolazione, mentre quelle con una fitness inferiore verranno gradualmente eliminate. In altre parole, la selezione naturale è un meccanismo passivo, che non genera novità ma elimina quelli che non si adattano all'ambiente. Ciò che rimane nella popolazione è il risultato dell'eliminazione di altre varianti. Questo implica che la selezione naturale non seleziona tratti specifici, ma restringe la gamma delle possibilità per i tratti biologici.

Alcuni potrebbero obiettare che la funzione stabilizzante di un tratto sia estremamente specifica, e quindi difficile sostenere che un tratto non sia stato selezionato per l'effetto che produce. Per esempio, gli occhi umani sono adattati specificamente per la visione. Se gli occhi non fossero selezionati per la visione, ma fossero il risultato di vincoli, come potrebbe esserci una tale sofisticazione nell'abilitare la visione? Questa è una versione dell'argomento del "orologio" di Paley. Secondo Paley, se troviamo un orologio sulla spiaggia, deve essere stato progettato da qualcuno, poiché è troppo sofisticato per essersi formato spontaneamente. Allo stesso modo, gli occhi sono troppo sofisticati per essere semplicemente il risultato di un restringimento delle possibilità. Anche se lo spazio delle possibilità è vincolato, esso rimane vasto, e quindi gli occhi devono essere stati selezionati per l'effetto che producono.

Tuttavia, come Paley ignora il lungo periodo temporale su cui opera la selezione naturale (tempo geologico) e tratta la selezione naturale come un processo casuale, anche questo argomento trascura l'effetto di "impalcatura" nell'evoluzione. La selezione naturale potrebbe essere stata casuale quando la vita è iniziata, ma una volta che l'evoluzione inizia, essa plasma i vincoli su altri vincoli e genera inevitabilmente forme sempre più complesse di dipendenza da quei vincoli. L'evoluzione può procedere solo nella direzione definita dai vincoli del passato, e questi vincoli formano una base per l'evoluzione futura. Deacon definisce questo effetto come "l'effetto della carrucola", cioè l'evoluzione può avanzare solo entro i limiti stabiliti dalla storia. In altre parole, l'evoluzione deve iniziare dai vincoli che ha incarnato; non può ignorare il passato.

Con questo in mente, la relazione tra gli interpretanti dinamici e finali appare chiaramente come una riflessione sulla storia evolutiva e sui vincoli. I vincoli formati dalla storia evolutiva plasmano la base dell'interpretante finale. Quest'ultimo non determina ciò che un segno rappresenta, ma vincola le possibili interpretazioni di un segno, ovvero ciò che un interpretante dinamico può essere. Questo concetto ci permette di vedere la rappresentazione non come una funzione che seleziona effetti passati, ma come un processo di vincolo e possibilità che interagisce con il presente.

Come comprendere la funzione semantica e la complessità dei segni linguistici

La frase “Immanuel Kant era un filosofo tedesco” rappresenta un semplice stato di cose nel quale Immanuel Kant è un filosofo tedesco. In questa frase descrittiva, possiamo identificare tre variabili: il nome proprio “Immanuel Kant”, l’aggettivo “tedesco” e il predicato “filosofo”. Ogni variabile corrisponde a un aspetto della realtà. Tuttavia, questa semplice frase può risultare ingannevole, poiché implica una corrispondenza semantica diretta e univoca tra i componenti della frase e gli aspetti del mondo. In realtà, le funzioni di mappatura semantica sono molto più complesse di quanto sembri a prima vista. Le variabili stesse non corrispondono ai loro oggetti in modo indipendente, ma solo nel contesto di una frase.

Oltre alle rappresentazioni descrittive linguistiche, il cui contenuto è determinato da ciò a cui devono corrispondere, esistono anche rappresentazioni direttive, il cui contenuto richiede che l’ascoltatore compia un’azione per soddisfarlo. Gli atti di linguaggio, come ad esempio “Attenzione, per favore!”, sono esempi di rappresentazioni direttive. Per le rappresentazioni descrittive, “può essere il caso che il produttore, che è principalmente responsabile nel fare il segno, corrisponda al mondo”. Queste sono progettate per rappresentare fatti esistenti nel mondo. Per le rappresentazioni direttive, “il consumatore può essere principalmente responsabile nel fare sì che il mondo corrisponda al segno”. Queste sono progettate per spingere gli ascoltatori a produrre gli affari rappresentati nel mondo (Millikan, 2004, p. 80).

Secondo questa visione, uno dei compiti della filosofia del linguaggio è individuare le funzioni convenzionali delle diverse rappresentazioni linguistiche e le loro corrispondenti funzioni di mappatura semantica. Tale visione si allinea con le nostre intuizioni riguardo ai segnali animali e anche ai segnali subpersonali. Funziona bene anche per spiegare le frasi indicizzate e le descrizioni definite. Tuttavia, quando si tratta di frasi che non hanno referenti diretti, come le descrizioni indefinite, le descrizioni generali, quelle astratte e la fiction, la teoria diventa meno chiara.

Millikan (1984) ha cercato di affrontare questi problemi. Essa sostiene che per una descrizione indefinita come “Un filosofo ha scritto un grande libro filosofico intitolato Critica della ragion pura”, la sua funzione non è quella di riferirsi a un individuo specifico, ma “solo di mappare almeno un individuo nel contesto dell’intera frase” (Millikan, 1984, p. 177). In altre parole, le descrizioni indefinite dovrebbero mappare su disposizioni o tipi, piuttosto che su un individuo specifico. Allo stesso modo, definizioni generali o astratte come “Gli animali con i reni hanno anche un cuore” e “La somma degli angoli di un triangolo è 180 gradi” dovrebbero anch'esse mappare su disposizioni o tipi naturali.

A differenza di Meinong, che sviluppa una metafisica che definisce gli enti fittizi come reali, Millikan (1984, 201–202) accetta una teoria del “fingere”, che afferma che quando le persone utilizzano frasi fittizie, fingono che gli affari rappresentati nel mondo esistano, anche se in realtà non esistono. La teoria della funzione di mappatura semantica di Millikan ha il vantaggio di fornire una visione unificata che copre tutti i segni intenzionali, dai segnali subpersonali ai segnali animali e persino al linguaggio. Tuttavia, è difficile affermare che la teoria sia completamente soddisfacente.

Innanzitutto, quando Millikan sostiene che le descrizioni indefinite si riferiscono a disposizioni, proprietà o tipi, presuppone una certa posizione metafisica (Millikan, 1984; 2017). Disposizioni, proprietà e tipi sono universali la cui esistenza è stata dibattuta fin dall'antica Grecia. Di conseguenza, la concezione della funzione di mappatura semantica porta con sé un peso metafisico. In secondo luogo, comprendere la rappresentazione fittizia come fingere presuppone che le persone abbiano la competenza per interpretare i controfattuali. Quando qualcuno fa una dichiarazione controfattuale, significa che sta descrivendo qualcosa che non esiste, ma sta fingendo che esista. Questo richiede una competenza cognitiva di livello superiore. Per comprendere le rappresentazioni linguistiche fittizie, il rapporto tra l’interpretazione controfattuale e il linguaggio dovrebbe essere esplorato, ma la teoria di Millikan lo presume senza indagare ulteriormente.

In terzo luogo, la biosemantica di Millikan presuppone la continuità tra i diversi tipi di segni, ma non spiega adeguatamente le differenze tra di essi. Ad esempio, in alcune delle sue opere, Millikan riconosce la differenza tra i segnali animali e il linguaggio (Millikan, 1989a; 2005, p. 64), ma non spiega da dove provengano queste differenze. Consideriamo la differenza nel racconto del “Bambino che gridò al lupo”. Con il ripetersi del grido “Lupo! Lupo!”, il potere indicizzante della frase viene perso. Cioè, i villaggi che ascoltano il grido del ragazzo non credono più che ci sia un lupo presente (Deacon, 1997, p. 82). Tuttavia, il significato, o senso nei termini di Frege, della frase non è perduto. Questo è anche il caso del cane di Pavlov. Dopo un addestramento ripetuto, il suono della campana diventa un segno di cibo, acquisendo un potere indicante verso il cibo. Ma se l'addestratore smette di associare il suono al cibo, la campana perde rapidamente il suo potere referenziale. Il cane non interpreta più il suono come un segno di cibo. Una teoria naturalistica del significato dovrebbe non solo spiegare le continuità, ma anche le discontinuità.

Inoltre, sebbene Millikan (2004; 2005; 2017) sostenga che non esiste una distinzione principiale tra semantica e pragmatica, c'è una tensione tra il significato pubblico o le funzioni convenzionali del linguaggio e il loro uso individuale nella pratica. Questa distinzione sorge dal fatto che ogni individuo ha sempre un proprio modo di usare e comprendere le forme convenzionali del linguaggio. Pertanto, come un individuo utilizza un segno intenzionale per identificare un affare del mondo in un contesto specifico diventa un problema cruciale. Millikan sviluppa una teoria dell’identità e introduce nuovi concetti come unicept e unitracker per comprendere questo problema. Tuttavia, si potrebbe sostenere che la tensione rifletta lo stesso problema affrontato dalla concezione etiologica delle funzioni biologiche analizzate nel capitolo precedente: il significato convenzionale delle forme linguistiche è una disposizione determinata dal passato. In primo luogo, la disposizione è un concetto dibattuto; in secondo luogo, una forma linguistica ha un significato convenzionale nel presente, non nel passato. Come argomentato nel capitolo precedente, ciò che la storia evolutiva fornisce sono vincoli sui possibili modi in cui un segno può essere usato, piuttosto che funzioni specifiche.

Un errore profondo sottostante queste teorie di mappatura del significato è quello che viene chiamato l’errore di semplice corrispondenza (Deacon, 2003) o l’errore del codice (Deacon, 2012b). Secondo l’errore del codice, il linguaggio è un tipo di codice determinato da una mappatura uno-a-uno tra set di segni convenzionalmente determinati (Deacon, 2012b, p. 395). Questa nozione è un errore perché presenta una visione semplificata, portando alle difficoltà sopra descritte. L’errore del codice trascura l’infrastruttura semiotica complessa. Il riferimento simbolico nel linguaggio dipende gerarchicamente da tipi più basilari di riferimento. Sostenendo questa infrastruttura semiotica sottostante al riferimento simbolico, la tensione tra l’aspetto pubblico e l’uso pratico individuale scomparirà; la distinzione tra senso e riferimento, insieme ai relativi problemi, potrà essere articolata. Di conseguenza, le funzioni delle diverse forme linguistiche possono essere spiegate.