Il vento gelido tagliava la notte, ma Donald Trump rimaneva immobile sulla soglia, con la porta aperta, assaporando l’aria tagliente come un segnale. Dall’esterno proveniva un rumore crescente: sirene, clacson, il rombo della città... ma soprattutto le urla dei suoi sostenitori. Erano migliaia, rumorosi, euforici. Trump ascoltava, respirava profondamente, sorrideva. «È fantastico», disse ad alta voce, rivolto ai suoi collaboratori. «Domani sarà una grande giornata». E poi, con un tono più grave, aggiunse: «Fa così freddo, ma sono là fuori lo stesso».

Nella stanza, il presidente aveva convocato i suoi fedelissimi: la portavoce Kayleigh McEnany, il direttore dei social media Dan Scavino, il viceportavoce Judd Deere. Alcuni tremavano per il freddo. Trump non chiuse la porta. Il rumore della folla era parte integrante della scenografia, un sottofondo studiato. «Sono eccitati di sentirla parlare, signor Presidente», disse uno. Un altro aggiunse: «Speriamo che domani sia pacifico». Trump annuì, ma ribatté: «Sì, ma là fuori c’è tanta rabbia».

Cominciò a interrogare i presenti. Cosa fare con i repubblicani al Congresso? «Come possiamo farli comportare nel modo giusto?» Nessuna risposta lo soddisfece. «I repubblicani e i RINO... sono deboli», disse, usando il suo acronimo sprezzante: "Republicans In Name Only". «Serve coraggio. Il vicepresidente, il Congresso, tutti quanti devono fare la cosa giusta!»

Trump non cercava dialogo, cercava fedeltà. Minacciò apertamente i membri del Congresso che avessero sostenuto la certificazione di Biden: li avrebbe sfidati alle primarie. La pressione non si limitava alle parole: chiese consigli su cosa pubblicare su Twitter, Scavino era pronto con il portatile aperto. Poi, come se nulla fosse, McEnany propose una foto di gruppo. I sorrisi si accesero per un istante, mentre l’obiettivo catturava un momento che, retrospettivamente, sapeva di preludio.

Trump chiamò il senatore Ted Cruz. Era cruciale capire fino a che punto i senatori si sarebbero spinti. Cruz, insieme ad altri dieci repubblicani, spingeva per una commissione d’inchiesta sulle elezioni. Ma non intendeva contestare ogni singolo Stato. Trump insisteva: «Dovete opporvi a tutto. A ogni Stato. Devi farlo». Cruz si rifiutò. Voleva mantenere la coesione del gruppo. Trump era frustrato. Non voleva commissioni, voleva scontro.

A tarda sera, mentre Pence si preparava per una cena con dirigenti e donatori, si aggiravano attorno a lui ombre più oscure. Giuliani e Bannon erano all’hotel Willard con Boris Epshteyn. Da lì, al telefono, cercavano di far pressione sui repubblicani per fermare la certificazione del voto. Fu Epshteyn a suggerire che Giuliani potesse andare di persona a parlare con Pence. Marc Short, capo di gabinetto del vicepresidente, trovò l’idea grottesca, come uscita da un film sulla mafia.

Intanto, Trump pubblicava un comunicato affermando che lui e Pence erano «in totale accordo» sul fatto che il vicepresidente avesse il potere di agire. Era falso. Pence non era stato consultato. Anzi, la sua posizione era l’opposto. Quando Short chiese a Jason Miller di ritirare la dichiarazione, ricevette un secco rifiuto: «Deve essere leale».

Trump parlò poi al telefono con Giuliani e con Bannon. Si lamentò che Pence era cambiato, non era più l’uomo di un tempo. «Era arrog

La tragedia del 6 gennaio: una cronaca di insurrezione e inazione

Il 6 gennaio 2021, un giorno che resterà indelebile nella storia degli Stati Uniti, il Campidoglio fu teatro di una delle crisi politiche più gravi della democrazia americana. Mentre i manifestanti, molti dei quali sostenitori di Donald Trump, irruppero nel cuore della democrazia, il paese si trovò di fronte a un dramma che sembrava più una scena di un film che un episodio della vita reale.

Gli eventi iniziarono quando un gruppo di manifestanti, incitati dal presidente in carica, invase il Campidoglio durante la sessione congiunta del Congresso per certificare i risultati delle elezioni presidenziali del 2020. La situazione, che già si profilava tesa, esplose quando la folla divenne sempre più violenta, devastando uffici e facendo irruzione nell'edificio simbolo della sovranità popolare. Alcuni dei partecipanti, mentre si lanciavano contro le forze dell'ordine e distruggevano vetrine, continuavano a monitorare i social media, in particolare i tweet di Trump. Le sue parole, spesso divisive e provocatorie, alimentavano il fuoco di una rivolta che stava sfuggendo a ogni controllo.

Nel cuore della Casa Bianca, il caos si rifletteva nelle azioni di chi, purtroppo, sembrava incapace di affrontare con decisione la gravità della situazione. Mark Meadows, il capo dello staff della Casa Bianca, non sembrava rendersi conto della portata della crisi. Al contrario, alcuni membri della Casa Bianca, come l'allora vice presidente Mike Pence e i suoi collaboratori, si trovarono nel mezzo di un'operazione di salvataggio. Pence venne messo in sicurezza dal Servizio Segreto, mentre Trump, isolato nel suo ufficio, continuava a guardare la televisione, quasi indifferente agli eventi che stavano accadendo sotto i suoi occhi.

Kellogg, uno degli assistenti più vicini al presidente, cercò di convincerlo a intervenire pubblicamente con un tweet. Nonostante la crescente violenza, la risposta di Trump fu di un'incredibile lentezza. La sua azione fu limitata a un tweet tardivo, che invitava alla "pace", ma senza la forza necessaria per fermare l'ondata di violenza. Il fatto che Trump non chiamò nemmeno il vice presidente durante le ore più critiche di quel giorno, è sintomatico della sua incapacità di comprendere la gravità della situazione. La risposta di McCarthy, il leader della minoranza alla Camera, a Trump durante una telefonata drammatica, evidenziò quanto la Casa Bianca fosse distante dalla realtà che stava esplodendo al Campidoglio.

A una certa ora del pomeriggio, il livello di violenza raggiunse il culmine, con il tragico omicidio di Ashli Babbitt, una manifestante che cercò di forzare una porta verso le stanze dove si trovavano i membri del Congresso. Il suo omicidio, come un altro tragico simbolo di quella giornata, scosse profondamente tutti coloro che stavano assistendo, anche se le parole di Trump non cambiarono. Il suo atteggiamento continuava a sembrare distante, quasi surreale rispetto all’intensità della crisi.

Nell'ombra del potere, Ivanka Trump cercò di intervenire, cercando di parlare con suo padre, ma anche lei si trovò impotente di fronte all'arroganza e alla testardaggine del presidente. La sua intervista privata con Trump, in cui cercò di convincerlo a fermarsi, rappresenta l'ultimo tentativo di riportare l'ordine in una situazione ormai fuori controllo. La sua frustrazione, che si leggeva sul suo volto, non poteva cambiare l'inerzia della leadership.

Mentre il paese si trovava sull'orlo di una guerra civile simbolica, il Congresso, che aveva dovuto rifugiarsi e mettersi in sicurezza, riuscì infine a riprendersi, ma non senza gravi danni. La politica americana e la sua democrazia furono messe a dura prova. In molti, come Paul Ryan, ex presidente della Camera dei rappresentanti, provavano a elaborare il lutto per ciò che stava accadendo, ma la realtà era che la violenza e l'irresponsabilità avevano preso il sopravvento. Il suo sentimento di colpa e la sua reazione emotiva, quando vide le immagini degli agenti di polizia che conosceva da anni essere aggrediti, riflettevano la frustrazione di chi aveva visto un sistema democratico crollare davanti ai propri occhi.

Quella giornata segnò un punto di non ritorno. Mentre il caos dilagava e le immagini di distruzione si susseguivano, la risposta dei leader politici, incluso Trump, rimase inadeguata e incapace di gestire la situazione. La domanda che sorga inevitabilmente è se l'America sarebbe riuscita a riprendersi da un tale scossone alla propria democrazia, e se la lezione di quel giorno sarebbe servita a prevenire simili tragedie in futuro.

La politica, quando si allontana dai suoi principi fondamentali di legalità e rispetto per le istituzioni, può condurre a situazioni estreme come quella vissuta il 6 gennaio. Il presidente ha il dovere di guidare con decisione e responsabilità, ma altrettanto importante è la responsabilità collettiva di ogni cittadino nel difendere la democrazia, evitando che la paura e l'odio prevalgano su ciò che è giusto. Se non si riconosce l'importanza della legalità e dell'ordine, le divisioni rischiano di diventare insormontabili, portando il paese a momenti di rottura irreversibili.

Come il piano di salvataggio ha ridisegnato il partito Democratico negli Stati Uniti: il ruolo cruciale del Congresso e le sfide politiche di Biden

Nel cuore della crisi storica che gli Stati Uniti stavano affrontando, Joe Biden sapeva che la sua presidenza sarebbe stata messa alla prova. La pandemia, la recessione economica e l'incertezza globale richiedevano azioni immediate e risolute. Il piano di salvataggio che Biden stava cercando di far passare attraverso il Congresso rappresentava la sua principale risposta. Per i Democratici, era l'opportunità di dimostrare che, finalmente, potevano governare in modo efficace e fare la differenza per milioni di cittadini.

Biden si rivolgeva ai senatori con una determinazione che cercava di rassicurare i membri del suo partito. Li incitava a lavorare insieme, come una squadra coesa, per approvare il piano, senza distrazioni politiche. Era essenziale, diceva Biden, non solo mettere in atto politiche salvavita, ma anche vendere questa proposta alla nazione come un segno che il governo federale poteva rispondere alle necessità della gente comune. Durante quella riunione, Biden chiedeva suggerimenti non solo sul contenuto del piano, ma anche sulla strategia di comunicazione, cercando di evitare la confusione che aveva caratterizzato a volte la sua campagna elettorale. La sua attenzione ai dettagli, la sua insistenza sulla preparazione, era parte di un più ampio progetto politico che mirava a dimostrare competenza e stabilità dopo le critiche che aveva ricevuto in passato, soprattutto da Trump.

Ma non era solo questione di politica. Il presidente sapeva che ogni passo, ogni dichiarazione, aveva un impatto ben oltre i corridoi del potere. Quando, il 3 febbraio, si confrontò con i senatori, citò il ritratto di Franklin D. Roosevelt, riconoscendo che i periodi di crisi mettono alla prova la leadership come pochi altri momenti nella storia. Biden capiva che era un’opportunità per il suo partito, e non voleva sprecarla. La sua approvazione del piano di salvataggio, con o senza il supporto dei Repubblicani, era fondamentale per il futuro dei Democratici, e non solo per la loro sopravvivenza politica, ma anche per la loro credibilità come partito che si occupa dei lavoratori e delle persone più vulnerabili.

In questo contesto, la figura di Bernie Sanders emergeva come quella di un guardiano dell'anima del partito, sempre pronto a ricordare ai suoi colleghi la necessità di fare le cose in grande. Per Sanders, non si trattava solo di far passare un grande piano di stimolo economico, ma di ristabilire un legame di fiducia con la classe operaia che si era allontanata dai Democratici durante l'era di Trump. "Il futuro della democrazia americana dipende da quale partito sarà il partito della classe lavoratrice", affermava Sanders, consapevole che il fallimento di quest'operazione avrebbe potuto alimentare correnti autoritarie che già mostravano segni di crescita.

Il piano di salvataggio non era solo una battaglia legislativa, ma anche una lotta per il cuore e la mente degli elettori americani. I Democratici si trovavano di fronte a un bivio: potevano accontentarsi di alleanze fragili con i Repubblicani moderati, o prendere una posizione audace che avrebbe potuto garantire il sostegno a lungo termine di un elettorato più ampio. In quella stessa riunione del 3 febbraio, Biden cercava di mantenere una porta aperta per i Repubblicani, ma senza mai compromettere i principi fondamentali del piano.

Tuttavia, la complessità della politica americana non si fermava solo alla ricerca di compromessi con il partito avversario. Le dinamiche interne al Congresso, le tensioni tra moderati e progressisti, rendevano ogni passo più arduo. Il senatore Susan Collins, una delle voci più moderate del partito Repubblicano, mostrava un interesse concreto nel trovare una soluzione bipartisan, ma la sua proposta era di gran lunga insufficiente rispetto alle necessità di Biden e del suo team. La comunicazione tra Biden e Collins, sebbene rispettosa, metteva in luce una spaccatura crescente che impediva una reale collaborazione tra le due forze politiche.

Il piano di salvataggio, quindi, non rappresentava solo una questione di numeri e di politiche economiche. Era anche un test per il sistema politico degli Stati Uniti, un banco di prova per capire come il paese potesse rispondere alle sfide del XXI secolo, mantenendo al contempo la sua democrazia vivace. La partecipazione alla politica, la possibilità di trovare soluzioni insieme, non solo per risolvere una crisi, ma per garantire che le risposte fossero inclusive e giuste, era ciò che il piano di Biden stava cercando di dimostrare. Come in ogni grande transizione politica, la difficoltà non risiedeva solo nel cambiare, ma nel convincere chi governava a vedere la necessità di un cambiamento profondo.

La risposta della politica, quindi, doveva essere altrettanto audace, non solo per combattere la crisi immediata, ma per impedire che la crisi futura si trasformasse in una minaccia per la democrazia stessa.