La strategia comunicativa adottata da Donald Trump per trattare argomenti controversi, evitare responsabilità diretta e manipolare l'opinione pubblica si basa su una serie di tattiche retoriche studiate e sistematiche. Jennifer Mercieca definisce uno degli strumenti principali usati da Trump come paralipsis, un dispositivo retorico che consente di dire qualcosa senza dichiararne esplicitamente la paternità. Tramite il paralipsis, Trump può citare affermazioni controverse attribuendole ad altri o presentandole come mere ripetizioni di voci altrui, negando così ogni responsabilità personale e mantenendo al contempo il potere suggestivo di quei discorsi. In questo modo, può insinuare un'idea e subito dopo prenderne le distanze, lasciando l’interlocutore sospeso tra l’interpretazione e l’incertezza.
Il mezzo ideale per questa retorica è Twitter, dove il retweet diventa una forma implicita di approvazione priva di assunzione formale di responsabilità. Trump può così rilanciare contenuti di suprematisti bianchi o altri estremisti, beneficiando del sostegno delle loro comunità senza dichiararne apertamente l’adesione. Quando viene interrogato al riguardo, può semplicemente dichiarare ignoranza, minimizzando la gravità del gesto e al tempo stesso rafforzando le sue connessioni con certi segmenti dell’elettorato.
Un esempio emblematico di questa dinamica si verifica nel maggio 2018, durante una tavola rotonda in California dedicata alle sanctuary cities, città che limitano la cooperazione con le autorità federali in materia di immigrazione. Lo sceriffo Margaret Mims esprime preoccupazione per i vincoli imposti dalle leggi statali che le impediscono di comunicare con l'ICE (Immigration and Customs Enforcement) anche nel caso in cui sia coinvolto un membro della gang MS-13. La risposta di Trump è netta: “Non credereste a quanto queste persone siano cattive. Queste non sono persone. Sono animali.”
Il termine “animali” ha immediatamente generato polemiche. Giornalisti e politici, soprattutto democratici, hanno interpretato il commento come un attacco generalizzato agli immigrati irregolari. Trump e i suoi difensori, al contrario, hanno sostenuto che il riferimento fosse limitato ai membri della MS-13. La divergenza non riguarda solo l'interpretazione letterale, ma il quadro interpretativo usato per decifrare le parole del presidente.
Il New York Times, per esempio, ha letto l’intervento attraverso una cornice storica, basandosi sulla lunga serie di commenti denigratori fatti da Trump contro gli immigrati, a partire dalla sua discesa in campo nel 2015. In quella occasione aveva dichiarato che il Messico “manda il peggio del proprio popolo” negli Stati Uniti: criminali, spacciatori, stupratori. Tale continuità discorsiva suggerisce che il termine “animali” non fosse riservato esclusivamente ai membri di una gang violenta, ma rappresentasse un'estensione di quella retorica nativista e xenofoba già ampiamente documentata.
L’amministrazione Trump ha invece proposto una cornice di sicurezza, interpretando il termine in modo ristretto e funzionale alla narrativa della lotta contro la criminalità. Tuttavia, il contesto dell’incontro era più ampio: si parlava delle politiche delle città santuario, non esclusivamente di gang violente. In questo quadro, la gang MS-13 diventa un esempio strategico, usato per giustificare misure repressive generalizzate e per attaccare le giurisdizioni locali che resistono alla collaborazione con le autorità federali.
L’ambiguità del discorso presidenziale è voluta e calcolata: Trump parla in modo che ogni gruppo possa trovare nel suo messaggio ciò che desidera sentire. Per i suoi sostenitori più radicali, la parola “animali” può essere letta come una conferma delle loro paure verso l’immigrazione. Per i moderati o per chi lo interroga, invece, può sostenere che si riferiva solo ai criminali più violenti. Questa ambivalenza, rafforzata da un uso sapiente dei media e delle piattaforme digitali, consente a Trump di mantenere il controllo della narrazione senza mai esporsi del tutto.
Il caso dell’uso del termine “animali” rivela dunque molto di più di un semplice scivolone linguistico. Illustra una strategia articolata in cui ogni parola, anche la più brutale, è scelta per massimizzare l’effetto comunicativo e minimizzare la responsabilità personale. In questo modo, il leader può occupare simultaneamente più posizioni: quella del provocatore che dice “la verità scomoda” e quella del presidente istituzionale che nega ogni eccesso.
Per il lettore è importante comprendere che questa retorica non è improvvisata, ma strutturata su tecniche consolidate di manipolazione discorsiva. L’ambiguità non è un difetto, bensì una risorsa strategica. Non si tratta solo di ciò che viene detto, ma di come viene detto, da chi viene rilanciato, in quale contesto, e con quale possibilità di negare in seguito l’intenzione. La capacità di mantenere plausibile negabilità è ciò che consente alla leadership populista di operare nel caos dell’iperinformazione, sfruttando ogni crisi come un’opportunità per polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica e rafforzare il proprio potere comunicativo.
Come interpretare le parole di Trump: tra sicurezza, storia e la costruzione del concetto di “fake news”
Le parole pronunciate da Donald Trump nei confronti del gruppo MS-13 sono state interpretate in modi radicalmente diversi a seconda del contesto simbolico e delle premesse ideologiche degli ascoltatori. Il termine “animali”, usato dal presidente, ha infatti assunto un significato polarizzante che dipendeva dalla cornice interpretativa adottata: da una parte, il frame della sicurezza che giustifica l’applicazione del termine a individui considerati pericolosi e violenti; dall’altra, il frame storico, che inserisce l’espressione all’interno di un più ampio contesto di retorica nativista e di esclusione.
Trump stesso ha chiarito che il suo riferimento era diretto esclusivamente ai membri delle gang MS-13, colpevoli di crimini violenti e quindi “animali” in senso figurato. Questa definizione segue una logica sillogistica: chi commette atti violenti è definito animale, i membri di MS-13 commettono atti violenti, pertanto sono animali. La portata di questa affermazione non si estendeva, secondo la sua interpretazione, agli immigrati in generale, ma a una categoria criminale specifica. Tuttavia, l’interpretazione pubblica del termine è stata fortemente influenzata dal background simbolico e dalle convinzioni preesistenti degli interlocutori, creando un cortocircuito comunicativo che ha alimentato una polarizzazione crescente.
Il dibattito è stato ulteriormente complicato dalla strategia politica di Trump, che ha cercato di delegittimare i media tradizionali definendoli responsabili di aver travisato le sue parole. La definizione di “fake news” si è così trasformata da semplice accusa di inesattezza giornalistica a strumento politico per screditare qualunque narrazione contraria alla sua visione. La denuncia del “fake news media” è divenuta una tattica per mobilitare il proprio elettorato, spostando il dibattito dalla verifica fattuale a una lotta per la legittimità simbolica.
L’effetto di questa dinamica è la formazione di due “frame” interpretativi che si rinforzano reciprocamente in un circuito chiuso. Da un lato, chi interpreta le parole di Trump attraverso la lente della sicurezza si concentra sugli episodi di violenza, percependo il termine “animali” come giustificato e necessario per descrivere una minaccia reale. Dall’altro, chi adotta il frame storico vede nel commento un’ennesima manifestazione di retorica nativista e razzista, percependo il termine come un’offesa rivolta a un gruppo più ampio di immigrati e non solo ai criminali. Entrambi i gruppi selezionano in modo selettivo gli elementi di contesto che confermano la propria interpretazione, chiudendo così il dialogo in una polarizzazione crescente.
La diffusione del concetto di “fake news” amplifica questa polarizzazione. Non più solo una definizione data dai giornalisti per segnalare notizie false, il termine diventa un’arma politica utilizzata dai poteri per screditare narrazioni scomode. In questo modo, la fiducia nei media tradizionali si erode, e la percezione della realtà si frammenta ulteriormente in bolle informative contrapposte. Il caso dell’abbigliamento della First Lady Melania Trump, con la giacca recante la scritta “I REALLY DON’T CARE, DO U?”, mostra come azioni simboliche possano essere strumentalizzate per alimentare questo circolo vizioso di accuse reciproche tra media e politica.
Questo fenomeno evidenzia come la comunicazione in un contesto polarizzato non sia mai neutrale né univoca, ma sempre mediata da filtri ideologici che selezionano e modellano i significati. È importante comprendere che le interpretazioni di un messaggio politico sono profondamente influenzate dalla cornice simbolica di chi ascolta, che a sua volta è costruita da esperienze pregresse, convinzioni e identità politiche. La capacità di riconoscere questi meccanismi è fondamentale per sviluppare una lettura critica e sfumata degli eventi e per evitare che il dibattito pubblico si riduca a uno scontro di narrative inconciliabili.
Inoltre, occorre considerare come la costruzione del concetto di “fake news” abbia trasformato il rapporto tra politica e informazione, generando un clima di sospetto permanente che indebolisce il ruolo di media come terzo polo di controllo e verifica. La sfida per il lettore è quindi di sviluppare strumenti interpretativi che vadano oltre la polarizzazione e che favoriscano una comprensione plurale e dinamica dei messaggi politici, consapevoli delle strategie comunicative impiegate e delle cornici ideologiche in gioco.
Come si formano i pubblici tra studi culturali e studi sulla traduzione?
L’immagine dell’uomo-bambino, così frequentemente evocata nel discorso critico su Hollywood, incarna un’auto-rappresentazione della cultura popolare contemporanea che è tanto incisiva quanto inquietante. Questa figura, un adulto infantilizzato e incapace di assumersi responsabilità, riflette una dinamica che va ben oltre il semplice stereotipo: rappresenta un modello di spettatore desiderato e prodotto dall’industria cinematografica. I bambini, con la loro combinazione di insaziabile richiesta e facile soddisfazione, incarnano il pubblico ideale per un sistema che, pur sapendo che esiste un numero limitato di bambini reali, si impegna attivamente in un processo di infantilizzazione di massa per creare nuovi consumatori. Questo fenomeno, dunque, non si limita a una strategia commerciale ma svela un atteggiamento culturale verso l’audience che coinvolge manipolazione e costruzione di un’immagine di sé.
Tuttavia, tale visione rischia di essere troppo semplicistica se considerata senza una riflessione critica più profonda. Gli studi culturali, soprattutto nell’arco degli ultimi decenni, ci hanno insegnato a diffidare di interpretazioni che vedono gli spettatori come meri ricettacoli passivi di messaggi mediatici. Al contrario, il pubblico è attivo, interpreta i testi attraverso un filtro soggettivo che incorpora esperienze individuali e categorie sociali come classe, genere, razza. L’agenzia del pubblico si esercita sempre in un contesto di potere che ne limita le scelte, ma non le annulla: la capacità di resistenza e interpretazione critica è reale e significativa, anche se non automatica.
La persuasione mediatica e pubblicitaria resta potente, perché è costruita per fare leva su bisogni e desideri profondi, ma il pubblico non è completamente manipolabile. È suscettibile, certo, ma anche capace di sviluppare strategie di resistenza e critica. Questo processo richiede però educazione e consapevolezza, competenze che si sviluppano attraverso l’istruzione e il dibattito intellettuale. In questo senso, il discorso accademico e la pratica educativa rappresentano strumenti fondamentali per promuovere una libertà di pensiero autentica e contrastare la manipolazione.
Un aspetto cruciale per comprendere la complessità di queste dinamiche riguarda la relazione tra due campi disciplinari strettamente connessi ma ancora troppo separati: gli studi culturali e gli studi sulla traduzione. Nonostante entrambi affrontino temi affini legati alla comunicazione e all’interpretazione, i loro dialoghi sono spesso frammentati e poco integrati. La traduzione, pur giocando un ruolo essenziale nella globalizzazione e nella diffusione culturale, è stata per lungo tempo trascurata dagli studi culturali, mentre i traduttologi hanno osservato le influenze socio-culturali sul lavoro dei traduttori, senza sempre cogliere le complessità delle forme di influenza reciproca fra testi e pubblici esplorate dagli studiosi culturali.
Questo isolamento disciplinare non è assoluto, ma relativo: esistono figure e opere che provano a superare le barriere, avviando conversazioni promettenti. La sfida consiste nel riconoscere che entrambi i campi sono sistemi relativamente chiusi, mantenuti da pratiche accademiche, conferenze e pubblicazioni che consolidano le rispettive comunità di ricerca. Superare queste barriere può generare nuove prospettive e arricchire le metodologie di analisi, soprattutto nella comprensione della complessità delle relazioni tra produzione, circolazione e ricezione dei testi.
L’esperienza didattica, infine, sottolinea l’importanza di un approccio rigoroso e impegnato nella formazione critica degli studenti. Leggere testi complessi, argomentare con rigore e sviluppare interpretazioni fondate sono competenze che si imparano e si affinano. È fondamentale partire da una comprensione solida per poter discutere con i testi e con i diversi punti di vista, sviluppando così quella capacità di pensiero autonomo e critico che costituisce la vera resistenza alle manipolazioni culturali e mediatiche.
È importante considerare che la comprensione dei meccanismi di produzione culturale e traduttiva non può prescindere da una riflessione sul potere e sulle condizioni materiali che ne influenzano l’esercizio. Le pratiche di consumo culturale sono sempre mediate da strutture sociali e ideologiche che determinano chi ha voce e chi resta marginale. Solo riconoscendo questa complessità è possibile sviluppare una consapevolezza critica che non si limiti a una posizione passiva di spettatore o lettore, ma che sappia interrogare, mettere in discussione e, infine, trasformare il proprio rapporto con i media e con il mondo culturale.
Come possiamo comprendere la comunicazione e i nostri orizzonti interpretativi?
Molte persone si avvicinano allo studio della comunicazione con una certa reticenza, spesso temendo che si tratti di un campo troppo astratto, intricato, o addirittura incomprensibile, come se fosse un linguaggio straniero. Questa percezione deriva dal fatto che la comunicazione è considerata una competenza così naturale e quotidiana da non richiedere riflessione teorica approfondita. Tuttavia, questa convinzione nasconde un fraintendimento fondamentale: tutti noi, in realtà, teorizziamo la comunicazione ogni volta che cerchiamo di spiegare un’interazione, di convincere qualcuno o di scambiare informazioni.
Il problema è che queste “teorie” intuitive, basate sul senso comune, sono spesso incomplete o errate, perché non tengono conto di quelle premesse implicite e invisibili che guidano il nostro modo di vedere e interpretare il mondo. È compito di chi insegna o traduce culturalmente rendere espliciti questi presupposti, aiutando a riconoscere ciò che normalmente rimane nascosto, invisibile alla coscienza, cioè il cosiddetto “orizzonte interpretativo”. Questo concetto è una metafora che richiama l’orizzonte che vediamo all’aperto: non notiamo mai l’orizzonte in sé, ma gli oggetti e i fenomeni emergono proprio in rapporto a esso, definendo così ciò che è visibile o significativo.
L’orizzonte interpretativo, quindi, rappresenta quell’insieme di assunti profondi e fondamentali che orientano la nostra percezione e comprensione del mondo, ma che raramente mettiamo in discussione perché li consideriamo dati e indiscutibili. La “traduzione culturale” consiste proprio nel mettere in luce questi presupposti, permettendo di vedere la realtà da un’altra prospettiva, un’altra angolazione.
Questo processo può essere spiegato attraverso la metafora della “visione di parallasse”. La parallasse, parola greca che significa “variante”, indica come la posizione da cui osserviamo un oggetto ne modifichi la percezione rispetto agli altri oggetti vicini. Immaginate di camminare per strada e vedere un murale dipinto su una parete, ma tra voi e il murale si frappongono un palo e una baracca metallica. Avvicinandovi, la baracca, più vicina, si sposta rapidamente fuori dalla vostra vista, mentre il palo, più lontano della baracca ma più vicino del murale, impiega più tempo a scomparire dal campo visivo. Il murale, il più distante, resta sostanzialmente immobile rispetto ai due oggetti intermedi. Gli oggetti non cambiano posizione l’uno rispetto all’altro, ma il vostro punto di vista sì, e questo mutamento nella percezione è ciò che chiamiamo visione di parallasse.
Questo concetto applicato alla comunicazione e alla comprensione culturale è potentissimo. Permette di riconoscere che la nostra percezione della realtà è sempre influenzata dal punto di vista da cui la osserviamo. Cambiando prospettiva, possiamo vedere aspetti prima invisibili, comprendere che altre persone possono vedersi come protagonisti di una storia che noi interpretiamo diversamente.
Un esempio concreto è la narrazione di conflitti come quella mostrata in Star Wars, dove gli spettatori si identificano con i ribelli, ritenendo giusta la loro lotta contro l’Impero oscuro e oppressivo. Tuttavia, se si cambiasse il punto di vista, come fa un veterano americano in Iraq che si è visto, osservando Baghdad, come il “stormtrooper” anonimo e temuto dagli iracheni, si scopre che ciascuno può sentirsi “eroe” o “ribelle” secondo la propria prospettiva. Comprendere questa relatività delle posizioni aiuta a decostruire stereotipi e pregiudizi, ponendo le basi per un dialogo più autentico.
Non si tratta di imporre una verità superiore o di cambiare a tutti i costi il pensiero altrui, ma di riconoscere la molteplicità di prospettive possibili e la necessità di spostarsi, anche simbolicamente, intorno agli oggetti del nostro pensiero per ampliare la nostra comprensione. Solo osservando il mondo da più angolazioni possiamo sperare di comunicare efficacemente, negoziare significati condivisi e apprezzare la complessità dell’esperienza umana.
È importante comprendere che l’orizzonte interpretativo non è rigido o immutabile, ma dinamico e soggetto a trasformazioni, anche se spesso queste avvengono lentamente e con difficoltà. Accettare questa fluidità significa anche riconoscere la nostra responsabilità nell’esplorare continuamente il nostro modo di vedere e capire, aprendo così la strada a una comunicazione più consapevole e a una convivenza culturale più rispettosa e ricca.
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