Uno degli aspetti più toccanti di Venezia è rappresentato dalla scultura "La Partigiana" di Augusto Murer, eretta in onore delle donne che hanno lottato contro il fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. La statua, fusa in bronzo, raffigura una donna con le mani legate, il cui corpo senza vita sembra fluttuare verso la riva. Questa scultura, pur essendo opera di Murer, un membro della Resistenza, è stata progettata da Carlo Scarpa, il più acclamato architetto del Novecento veneziano. Scarpa, nella sua concezione, pensò ad una base in cemento ricoperta di bronzo, che dovesse alzarsi e abbassarsi con la marea, facendo sembrare la figura che galleggiava. Tuttavia, questo meccanismo non ha mai funzionato correttamente, e spesso la scultura rimane parzialmente sommersa, coperta di alghe. La sua visione moderna della scultura è visibile attraverso una serie di cubi di pietra istriana disposti su vari livelli, creando una versione modernista di una linea di costa frastagliata.

Situata sulla Fondamenta dei Sette Martiri, la statua si affaccia su una parete lungo la Riva degli Schiavoni, costruita durante il periodo fascista e dedicata nel 1937 come Riva dell'Impero, in onore della recente conquista dell'Etiopia da parte dell'Italia. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la riva venne rinominata in memoria di sette prigionieri politici giustiziati dai nazisti nell'agosto del 1944. La scultura di Murer non fu la prima a commemorare le donne della Resistenza, ma fu certamente la più significativa, soprattutto dopo la distruzione della scultura di Leoncillo Leonardi nel 1961, ad opera di neofascisti. La sua sostituzione con "La Partigiana" segna un capitolo importante nella storia di Venezia, che unisce l'arte e la politica in modo inscindibile.

Il contesto storico di Venezia durante il periodo tra le due guerre mondiali è fondamentale per comprendere il significato di queste opere. Dopo la Prima Guerra Mondiale, la città, come il resto d'Italia, vide un forte fermento politico e sociale. Il 1919 fu un anno di forti agitazioni: l'inflazione galoppante, i sindacati in fermento e la crescita di partiti di massa segnarono il periodo immediatamente successivo alla guerra. Il socialismo guadagnò terreno, ottenendo il 50,4% dei voti a Venezia nelle elezioni per la Camera dei deputati del 1919. Tuttavia, questo clima di fermento politico vide anche l'affermarsi del fascismo, che a Venezia non tardò ad incarnarsi attraverso il Fascio di Combattimento. Già nel 1920, la città fu teatro di violenti scontri tra fascisti e socialisti, che culminarono con l'occupazione della Piazza San Marco da parte dei socialisti, fermati dalla violenza fascista.

Il fascismo a Venezia, pur essendo meno radicale rispetto ad altre città italiane, influenzò comunque profondamente la vita politica e sociale. Il fascio veneziano, guidato da figure come Pietro Marsich, si distinse per il suo nazionalismo e il suo sostegno alla causa di Gabriele D'Annunzio e alla sua irredentismo. Tuttavia, la divisione interna tra i fascisti, tra i sostenitori di Marsich e quelli di Giovanni Giuriati, che successivamente si sarebbe allineato con Benito Mussolini, segnò il passaggio del fascismo dalla radicalità iniziale alla sua forma più istituzionalizzata e accettata dai ceti più elevati e dalla borghesia.

L'integrazione del modernismo nell'architettura e nell'arte pubblica fu uno dei temi dibattuti in quegli anni. Le opere di Scarpa e la realizzazione delle sculture come "La Partigiana" sono testimoni di un'epoca in cui la città si trovava a dover fare i conti con la propria identità, tra tradizione e innovazione. Queste opere d'arte non solo rappresentano la memoria storica di Venezia, ma anche il tentativo di conciliare la modernità con la storia complessa del Novecento, segnata dalle divisioni politiche e dalle vicissitudini della guerra.

Oggi, il rischio crescente di inondazioni a Venezia, dovuto all'innalzamento del livello del mare, conferisce una nuova e preoccupante dimensione alla scultura di Murer. La frequente sommersione della figura, un tempo simbolo di lotta e speranza, rappresenta anche la crescente vulnerabilità della città di fronte ai cambiamenti climatici. Le difficoltà che la città affronta oggi sembrano in qualche modo riecheggiare le sfide del passato, portando in primo piano il tema della resilienza, sia politica che ambientale, che Venezia è chiamata a sviluppare nei decenni a venire.

In un contesto in cui il fascismo e la Guerra Fredda hanno segnato indissolubilmente la storia della città, l'arte ha svolto un ruolo fondamentale nel raccontare le sue ferite, i suoi conflitti e le sue speranze. La scultura di Murer non è solo un memoriale per le donne della Resistenza, ma anche un monito per le generazioni future: la storia di Venezia non è solo una storia di gloria e bellezza, ma anche di lotte, sacrifici e, infine, di una lotta costante per mantenere la sua identità, tra l'antico e il moderno, tra il passato e il futuro.

Come la struttura amministrativa e le trasformazioni socio-politiche plasmarono Venezia tra XII e XIII secolo

Alla fine del XII secolo, l’organizzazione comunale veneziana si era consolidata attraverso una rigorosa suddivisione territoriale e amministrativa. Le oltre settanta parrocchie furono accorpate in coppie, chiamate trentacie, ciascuna rappresentata da un membro nel Maggior Consiglio. Contemporaneamente, la città si articolava in sestieri – Cannaregio, San Marco, Castello, Santa Croce, San Polo e Dorsoduro – ognuno con il diritto di nominare un rappresentante nel Minor Consiglio. Questo sistema, fondato su un’equità topografica nella ripartizione del potere legislativo e amministrativo, contribuiva a unire la città, mitigando tensioni e risentimenti tra i centri urbani e le periferie. Tuttavia, tale equità non si estendeva agli insediamenti della laguna, che progressivamente venivano esclusi dalla partecipazione politica diretta. L’introduzione di queste ripartizioni nei consigli comunali emarginò di fatto le altre comunità della laguna, costringendo molti uomini ambiziosi a trasferirsi a Venezia, avvicinandosi così al fulcro del potere.

La marginalizzazione dei centri minori ebbe conseguenze economiche e sociali profonde. Alcuni, come Chioggia, vennero relegati a fornitori specializzati di prodotti come sale e pesce, mentre altri lentamente caddero nell’oblio. I processi naturali della laguna, in particolare il progressivo insabbiamento e la trasformazione di vaste aree di acqua libera in zone malsane e paludose, accelerarono il declino di città un tempo potenti, come Torcello. Eventi improvvisi, come l’innalzamento del livello del mare intorno al 1108, portarono all’abbandono di insediamenti come l’antica Malamocco e al trasferimento delle istituzioni religiose verso nuove sedi più sicure, segnando la scomparsa di nuclei urbani che non avrebbero lasciato tracce scritte della loro storia.

Il XIII secolo rappresenta un punto di svolta decisivo, segnato da due eventi epocali: la Quarta Crociata e la Serrata del Maggior Consiglio. La prima trasformò Venezia da potenza adriatica in dominatore mediterraneo, con la conquista di Costantinopoli nel 1204 e l’acquisizione di un vasto impero marittimo comprendente territori strategici quali Negroponte, Modon, Coron e l’isola di Creta. Questo mutamento radicale impose a Venezia una nuova dimensione geopolitica e militare, ponendola in conflitto aperto con rivali come Genova e costringendola a gestire le complesse dinamiche di un impero.

Parallelamente, la Serrata del 1297 sancì la chiusura delle porte del potere politico alle nuove classi emergenti, consolidando un’aristocrazia nobiliare di mercanti vecchi e nuovi. Questo processo fu la conseguenza di un secolo di straordinaria crescita demografica ed economica, accompagnata da fermenti sociali, dall’affermazione delle corporazioni, dalle confraternite e dalle nuove influenze religiose dei mendicanti. Nonostante la loro crescente importanza, le classi popolari e i rappresentanti delle arti e mestieri vennero progressivamente esclusi dalla gestione politica, determinando un inasprimento delle divisioni sociali e la cristallizzazione del potere nelle mani di pochi.

La trasformazione urbana e sociale si accompagnò a un’espansione fisica della città, soprattutto nelle zone periferiche, spesso incoraggiata dagli ordini mendicanti. Nacque così il palazzo veneziano, architettura che, pur evolvendosi nei secoli, divenne emblema di questa nuova élite e del potere consolidato. Il XIII secolo, dunque, rappresenta una fase cruciale in cui Venezia, partendo da un sistema comunale articolato e relativamente inclusivo, si trasformò in una repubblica oligarchica, imperiale e marittima.

Oltre agli eventi politici e sociali, è fondamentale comprendere come la natura abbia agito come un attore silenzioso ma determinante in questa trasformazione. L’evoluzione geografica e ambientale della laguna plasmò non solo la geografia fisica ma anche la struttura stessa della società e del potere, influenzando insediamenti, economie e le stesse dinamiche di governo. La storia di Venezia non può quindi essere separata dalla sua natura lagunare, che ha imposto continue sfide e adattamenti.

Come si è consolidato il potere oligarchico a Venezia nel XIII secolo?

La transizione di Venezia da una politica comunale conflittuale verso una forma più stabile e strutturata di governo oligarchico fu un processo lungo, asimmetrico e tutt’altro che lineare. Il potere non si concentrò improvvisamente, ma fu il risultato di una sequenza di eventi, conflitti, mediazioni e innovazioni istituzionali che riflettevano le dinamiche più ampie della società veneziana.

Nel corso del XII secolo, la politica interna di Venezia assomigliava a quella di molte altre città italiane, dominata da un ristretto numero di famiglie aristocratiche che utilizzavano le loro enormi ricchezze per determinare le sorti della repubblica. Le guerre, come quella contro Federico Barbarossa, venivano finanziate da prestiti privati, che rafforzavano il legame tra contributo economico e potere politico. Due dei principali sottoscrittori di un prestito fondamentale al comune — Sebastiano Ziani e Orio Mastropiero — divennero successivamente dogi, a conferma di come la finanza pubblica fosse una via diretta all’autorità.

La creazione, nel 1172, di un comitato di undici elettori per l’elezione del doge, e poi nel 1178 di un sistema più complesso con una doppia votazione che portava a un collegio di quaranta, segnò una svolta. Il potere elettorale venne posto nelle mani di un’élite ristretta, rendendo il dogado sempre più espressione della volontà dei super-ricchi.

Tuttavia, l’equilibrio si incrinò nel 1229 con l’elezione contestata di Giacomo Tiepolo, ottenuta tramite sorteggio dopo un pareggio elettorale. Il rifiuto di legittimare questa elezione da parte del doge uscente, Pietro Ziani, rifletteva un malcontento profondo. Tiepolo rappresentava l’ascesa di nuove famiglie arricchitesi in seguito alla Quarta Crociata, contrapposte alle vecchie casate come i Dandolo, più radicate nell’aristocrazia tradizionale.

Questa contrapposizione si tradusse anche in scontro giuridico: i nuovi ricchi sostennero la codificazione del diritto romano per disciplinare la vita pubblica, mentre i conservatori difesero l’arbitrium, che lasciava ampia discrezionalità ai giudici e favoriva la gestione informale del potere.

Le divisioni interne però non portarono a fratture ideologiche nette sul piano della politica estera. La minaccia dell’imperatore Federico II e del suo spietato alleato Ezzelino da Romano preoccupava tutte le fazioni. La cattura e la successiva esecuzione del figlio di Tiepolo, Pietro, durante la battaglia di Cortenuova nel 1237, testimoniavano l’impatto diretto di questi conflitti sul patriziato veneziano. Anche le famiglie legate ai Dandolo sostennero un intervento contro Federico, dimostrando come la sopravvivenza degli interessi commerciali veneziani superasse le rivalità interne.

Ciononostante, la popolarità di Tiepolo tra i mercanti emergenti e gli artigiani suscitò il timore dell’élite tradizionale. Alla fine del suo dogado, nuove clausole vennero inserite nel giuramento richiesto al successore Marino Morosini: si proibiva al doge di nominare i propri figli a cariche fuori dal dogado o in Istria, e gli si vietava di convocare l’assemblea generale senza l’approvazione delle due principali magistrature. Inoltre, per la prima volta, si stabilì una procedura legale per la rimozione del doge, subordinata al consenso congiunto del Minor e Maggior Consiglio.

Nel decennio successivo, il malcontento popolare emerse con forza. Le tensioni culminarono nel 1266, quando l’aumento di una tassa sul grano provocò una rivolta della plebe. I nobili furono attaccati nelle loro abitazioni, e solo la repressione violenta del doge Zeno riportò un ordine precario. Anche la carestia del 1268 contribuì a mantenere alta la tensione sociale, mentre il governo cercava disperatamente cereali in tutto il Mediterraneo e nel Mar Nero.

In parallelo, la libertà dei mestieri fu ridimensionata. Con la divisione del tribunale dei Giustizieri nel 1261 e la subordinazione delle corporazioni al controllo diretto del Maggior Consiglio, si sancì la subordinazione politica dei ceti produttivi alla nobiltà. Le confraternite, che avevano cominciato a offrire uno spazio di solidarietà e forse anche di protesta, vennero monitorate e arginate. La volontà del patriziato era chiara: rafforzare il proprio potere attraverso la riforma amministrativa, il controllo dei corpi intermedi e l’uso calibrato della violenza statale.

È fondamentale comprendere che la stabilità istituzionale di Venezia non fu il frutto di una concordia spontanea, ma l’esito di una lunga lotta tra gruppi sociali con interessi divergenti. La coesione della nobiltà veneziana, che in seguito caratterizzerà la cosiddetta serrata del Maggior Consiglio, nacque dal timore di perdere il controllo su una città che stava cambiando troppo rapidamente. L’evoluzione politica di Venezia nel XIII secolo è, in definitiva, una storia di esclusione: delle classi produttive, degli artigiani, dei nuovi ricchi, a favore di una classe patrizia sempre più chiusa e autoreferenziale.