L'elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti nel 2016 ha segnato una svolta significativa non solo nella politica americana, ma anche nel contesto geopolitico e economico mondiale. La sua ascesa ha sorpreso molti e sollevato una domanda fondamentale: come è potuto accadere? E, ancora più importante, quale impatto avrebbe avuto sulla stabilità globale e sul futuro delle relazioni internazionali? Questo fenomeno, che molti hanno definito "Trumpismo", ha portato alla ribalta una nuova forma di populismo economico, con profonde implicazioni per l'Europa e l'Asia.

La politica economica di Trump si è distinta per la sua natura protezionista, che ha visto l'introduzione di tariffe sui prodotti esteri e una crescente distanza dalla cooperazione transatlantica. In un contesto globale sempre più interconnesso, questo approccio è stato visto da alcuni come una reazione alle crescenti disuguaglianze economiche all'interno degli Stati Uniti. La sua retorica mirava a riportare l'America a un passato mitizzato, dove l'industria manifatturiera e settori come l'acciaio e il carbone erano i motori dell'economia. Questo sguardo retrospettivo non si limitava però al solo settore economico: abbracciava una visione più ampia, in cui gli Stati Uniti avrebbero dovuto "riprendersi il controllo" in un mondo che sentivano sempre più minacciato da potenze emergenti come la Cina.

Questa visione nostalgica, tuttavia, ignorava le sfide moderne, come il cambiamento climatico e le dinamiche della globalizzazione, che richiedono una risposta più complessa e lungimirante. La Brexit, avvenuta nello stesso anno, rifletteva una preoccupazione simile: il desiderio di tornare a un'epoca passata, idealizzata, ma senza una comprensione adeguata delle forze globali in gioco.

Nel contesto internazionale, le azioni di Trump hanno avuto impatti significativi, in particolare sulle relazioni tra gli Stati Uniti e le principali economie europee e asiatiche. La decisione di ritirarsi dal Partenariato Transpacifico (TPP) e le minacce di abbandonare la Unione Postale Universale, ad esempio, hanno mostrato una volontà di sfidare gli accordi globali e le istituzioni internazionali che per decenni hanno regolato le relazioni economiche. Sebbene Trump giustificasse queste mosse con il desiderio di difendere gli interessi statunitensi, la domanda che emerge è se tali azioni siano sostenibili e vantaggiose nel lungo periodo, o se, al contrario, mettano a rischio la posizione degli Stati Uniti nel sistema economico globale.

La sua politica economica, che ha cercato di invertire tendenze globali come la liberalizzazione dei mercati, si è rivelata problematica anche a causa della sua incoerenza. Da un lato, Trump promuoveva una politica di "America First", mirando a ridurre il deficit commerciale e a tutelare l'occupazione interna; dall'altro, le tariffe imposte su vari prodotti, tra cui l'acciaio e l'alluminio, non hanno trovato una soluzione nei confronti del conflitto economico con altre potenze. La Cina, in particolare, è stata al centro delle sue politiche economiche, con una serie di misure che hanno inasprito la guerra commerciale tra le due superpotenze.

In Europa, la risposta alle politiche di Trump è stata variegata. Se alcuni paesi, come la Germania, si sono concentrati sull'approfondimento delle proprie relazioni economiche con la Cina e altri partner globali, altri, come il Regno Unito, hanno cercato di orientarsi verso nuove alleanze bilaterali, in particolare dopo la Brexit. Tuttavia, nonostante le differenze tra i vari Stati europei, la preoccupazione comune rimane quella di navigare in un mondo sempre più polarizzato e dominato dal conflitto tra potenze economiche.

Il populismo economico statunitense, tuttavia, non è un fenomeno che finirà con la fine della presidenza di Trump. I suoi effetti strutturali, legati alla crescente disuguaglianza economica e alle fratture interne nella società americana, potrebbero perdurare anche oltre la sua era. L'adozione di politiche nazionalistiche e protezioniste, sebbene possieda un forte sostegno interno, potrebbe portare a una maggiore frammentazione del sistema economico globale. L'Europa e l'Asia, quindi, dovranno affrontare sfide nuove e complesse, cercando di equilibrare le proprie risposte alle politiche di Trump con le necessità di un'azione internazionale collettiva.

In conclusione, è essenziale comprendere che il populismo statunitense non è un episodio isolato, ma parte di un trend globale più ampio che ha radici nelle trasformazioni economiche e sociali che hanno segnato gli ultimi decenni. Le risposte politiche e le strategie economiche adottate dall'Europa e dall'Asia nei confronti degli Stati Uniti determineranno in gran parte l'andamento futuro delle relazioni internazionali e la stabilità economica globale.

Come la politica economica e il mercato del lavoro influenzano la globalizzazione: analisi dei modelli di spesa pubblica e dei cambiamenti nelle strutture produttive

In molti paesi, i governi affrontano il problema della disoccupazione e della riconversione professionale con politiche di sostegno pubblico. In Svizzera e Norvegia, per esempio, esistono finanziamenti pubblici specifici per la riqualificazione dei lavoratori disoccupati e anche di quelli già occupati, offrendo loro opportunità di miglioramento delle competenze in vista di un’economia in continua evoluzione. Negli Stati Uniti, invece, il supporto governativo per i disoccupati e i lavoratori a bassa qualificazione è significativamente più ridotto. La spesa pubblica per la formazione e la riqualificazione professionale negli Stati Uniti si aggira intorno allo 0,03% del PIL, una cifra nettamente inferiore rispetto a quella di paesi come la Danimarca, la Svizzera o la maggior parte dei paesi dell'UE continentale, dove tale investimento supera ampiamente lo 0,2%. Tale differenza solleva interrogativi riguardo alla saggezza di queste politiche e alla loro efficacia nel lungo periodo, considerando che un supporto formativo insufficiente può portare a un indebolimento delle capacità produttive di una nazione.

Un concetto utile per comprendere le dinamiche di questo fenomeno è il teorema di Rybczynski, che analizza la relazione tra la disponibilità relativa dei fattori produttivi e la struttura della produzione. Questo teorema suggerisce che un aumento esogeno nell’offerta di un fattore di produzione (come il lavoro) condurrà a un aumento della produzione del bene che utilizza più intensamente questo fattore. Ad esempio, l'arrivo di rifugiati in un paese con abbondanza di manodopera a basso costo porterà probabilmente ad un incremento della produzione di beni ad alta intensità di lavoro, mentre la produzione di beni ad alta intensità di capitale diminuirà. Questo fenomeno si può osservare in situazioni come quella di un’improvvisa fuoriuscita di conoscenze digitali da un paese ad alta tecnologia, che consente ad altri paesi meno avanzati di migliorare le proprie capacità produttive in settori ad alta intensità di conoscenza, riducendo però la produzione di beni ad alta intensità di lavoro.

Nel contesto dell’economia globale, il teorema di McDougall, che prende in considerazione la mobilità internazionale dei fattori produttivi, offre un ulteriore spunto di riflessione. Se consideriamo due paesi come il Messico e gli Stati Uniti, un flusso di capitali in entrata in Messico dovuto agli investimenti diretti esteri dovrebbe teoricamente portare ad un aumento dei salari reali dei lavoratori messicani. Tuttavia, nella realtà, nonostante gli enormi flussi di investimenti (circa 8 miliardi di dollari all’anno), i salari dei lavoratori non qualificati in Messico non sono aumentati in modo significativo. Questo fenomeno è paradossalmente legato al sistema economico messicano, dove forti sindacati negoziano contratti favorevoli per le multinazionali, ma a scapito di un reale miglioramento delle condizioni salariali per i lavoratori. In questo contesto, la logica di un flusso di investimenti che benefica sia i capitalisti statunitensi che i lavoratori messicani attraverso l'aumento dei salari non si applica, e la pressione migratoria verso gli Stati Uniti rimane alta. La situazione si complica ulteriormente quando si considera l’effetto negativo dell’Accordo di Libero Scambio Nordamericano (NAFTA), che ha avuto l’effetto di spingere la produzione agricola statunitense in Messico, contribuendo a ridurre i redditi dei contadini messicani e aumentando la disuguaglianza economica.

La visione di Trump riguardo alla globalizzazione, che la considera dannosa per gli Stati Uniti e per i ceti più deboli della società americana, appare in netta contraddizione con la teoria economica tradizionale. L’idea che il commercio internazionale possa portare a salari reali più elevati per i lavoratori nei settori di esportazione e a prezzi più bassi per le importazioni è, infatti, generalmente supportata dagli economisti. Tuttavia, la percezione pubblica in molti paesi, in particolare negli Stati Uniti, spesso non corrisponde a questa realtà teorica. Le ricerche di Ghemawat del 2017 mostrano che la popolazione statunitense tende a sovrastimare l’intensità della globalizzazione, tanto che gli americani spesso pensano che le esportazioni rappresentino una quota maggiore del PIL di quanto non sia effettivamente il caso. Inoltre, il sostegno del pubblico al commercio internazionale è diviso lungo linee politiche, con i democratici favorevoli al commercio quando un presidente democratico è al potere e viceversa per i repubblicani.

A livello globale, la percezione degli effetti del commercio varia notevolmente tra i paesi. Secondo un sondaggio PEW del 2018, la maggioranza degli americani ritiene che il commercio internazionale e i legami commerciali siano benefici per gli Stati Uniti, ma la percentuale è inferiore rispetto ai partner di NAFTA come il Canada e il Messico. Inoltre, solo il 56% degli americani considera gli accordi di libero scambio come un’opportunità positiva, e la percentuale di coloro che credono che il commercio porti a un aumento dei salari è aumentata, ma rimane ancora bassa rispetto ad altri paesi sviluppati.

In definitiva, la percezione della globalizzazione e dei suoi effetti è complessa e spesso influenzata da fattori economici, politici e culturali. È importante che i lettori comprendano che, sebbene il commercio internazionale possa apportare benefici, questi benefici non sono distribuiti in modo uniforme. I paesi devono adottare politiche che favoriscano la formazione e la riqualificazione dei lavoratori, in modo da ridurre le disuguaglianze e consentire a tutti di trarre vantaggio dalla crescente interconnessione globale. Inoltre, la percezione distorta della globalizzazione in molti paesi, in particolare negli Stati Uniti, potrebbe essere il risultato di una comunicazione inefficace e di una comprensione superficiale dei suoi effetti reali.

Come il Commercio Internazionale e la Tecnologia Influenzano l'Occupazione e le Disuguaglianze Economiche

Nel contesto delle economie industrializzate, il tasso di occupazione è diminuito in molti Paesi, in particolare negli Stati Uniti, sebbene in Giappone non si siano registrate flessioni significative. Sebbene il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti abbia raggiunto il minimo storico nel 2018, occorre notare che il tasso di occupazione nel 2017 fosse ancora inferiore rispetto a quello del 2007. Un'analisi comparativa tra Paesi nel 2017 evidenzia che in Germania, Giappone e Regno Unito i tassi di occupazione erano superiori a quelli degli Stati Uniti di 4-6 punti percentuali. Questa situazione solleva interrogativi sulle dinamiche dell'occupazione in un contesto di crescente globalizzazione e automazione.

La questione dell'occupazione è particolarmente complessa quando si considera la varietà di imprese e tecnologie che caratterizzano il commercio internazionale moderno. A partire dal 1980, con l'espansione del commercio internazionale, si è osservato un crescente impatto della diversificazione tecnologica tra le imprese. Studi teorici e empirici, come quelli di Melitz (2003) e Santacreu e Zhu (2018), hanno dimostrato che le imprese di diversa grandezza e livello tecnologico affrontano sfide differenti nel mercato globale. Di conseguenza, le professioni diventano sempre più complesse, e l'automazione di molte mansioni appare come una realtà inevitabile. Tuttavia, un'indagine condotta dall'OCSE nel 2016 ha rivelato che solo una piccola percentuale di lavoratori negli Stati Uniti è a rischio elevato di automazione: circa il 9%, contro l'11% in Spagna e il 12% in Germania e Austria.

Parallelamente, il commercio internazionale ha un impatto significativo sull'occupazione, con alcuni Paesi che dipendono in misura maggiore dagli scambi internazionali rispetto ad altri. Secondo il World Trade Report (WTO, 2017), in molti Paesi, le esportazioni rappresentano dal 15% al 25% di tutti i posti di lavoro. In particolare, nel 2011, gli Stati Uniti e il Brasile avevano circa il 10% dei posti di lavoro legati a esportazioni di valore aggiunto, mentre Paesi come Australia, Cina e India si aggiravano intorno al 15%. L'Unione Europea si collocava al di sopra del 26%, considerando anche il commercio intra-UE. Ciò dimostra come la globalizzazione e il commercio possano influenzare i mercati del lavoro, creando opportunità in alcuni settori e sfide in altri.

Per quanto riguarda la disparità dei redditi, la situazione negli Stati Uniti è interessante da osservare. Sebbene la povertà abbia iniziato a diminuire dal 2014, con un incremento del reddito mediano delle famiglie, la disuguaglianza economica rimane una questione rilevante. Gli Stati Uniti presentano un reddito mediano delle famiglie più elevato rispetto a Paesi come la Germania e la Francia, con un vantaggio di circa il 30%. Tuttavia, questo divario si riduce quando si considerano fattori come le vacanze pagate più lunghe in Germania e Francia, che, se corretto, rendono la differenza di reddito effettivo tra questi Paesi e gli Stati Uniti decisamente inferiore. In effetti, tenendo conto anche delle spese sanitarie, il reddito disponibile netto negli Stati Uniti non supera di molto quello di Paesi come la Germania e la Francia.

Nonostante ciò, ci sono settori in cui gli Stati Uniti mostrano un vantaggio competitivo rispetto all'Unione Europea. Ad esempio, l'Europa è in ritardo rispetto agli Stati Uniti nel campo della tecnologia digitale e delle start-up ad alta crescita. Mentre le aziende tecnologiche statunitensi dominano a livello globale, le imprese europee faticano a mantenere il passo, soprattutto per quanto riguarda l'innovazione nelle tecnologie digitali e le telecomunicazioni. La frammentazione dei mercati delle telecomunicazioni in Europa è un ostacolo che ha impedito una piena modernizzazione digitale. Le politiche europee potrebbero beneficiare di una maggiore competizione, non solo in termini di prezzi, ma anche di innovazione qualitativa nei prodotti digitali.

Un altro settore in cui l'Europa potrebbe trarre vantaggio dall'adozione di strategie più simili a quelle statunitensi è quello dell'innovazione. Le dinamiche brevettuali nel settore delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni, ad esempio, sono notevolmente più forti negli Stati Uniti rispetto all'Europa. Inoltre, negli Stati Uniti è più frequente che le imprese giovani e ad alta crescita siano quotate in borsa, una realtà che in Europa è ancora rara. Questo divario evidenzia la necessità di riforme che possano facilitare l'accesso delle imprese europee alle fonti di capitale, soprattutto per quelle che operano nei settori ad alta tecnologia.

Infine, un altro elemento importante riguarda il divario di reddito per capita tra l'Europa e gli Stati Uniti. Sebbene la differenza appaia significativa a favore degli Stati Uniti, quando si considerano fattori come la durata della vita media e i costi sanitari, la disparità diminuisce considerevolmente. È dunque cruciale che i Paesi europei, in particolare quelli del Sud, migliorino l'accesso al capitale e potenzino le loro politiche di supporto all'innovazione, se vogliono affrontare efficacemente le sfide economiche del futuro e colmare il gap con gli Stati Uniti.

Come le reti di produzione asiatiche e le dinamiche geopolitiche influenzano il ruolo della Cina e la governance globale

La rapida espansione delle reti di produzione asiatiche è un fenomeno fortemente sostenuto dalle tecnologie digitali avanzate, come evidenziato dall’Asian Development Bank (ADB, 2014). In questo contesto, la Cina emerge come attore centrale, grazie al suo ruolo trainante nelle innovazioni digitali e alla crescente integrazione tecnologica nelle economie ASEAN. Questa dinamica favorisce un’accelerazione della penetrazione cinese nei mercati asiatici, rafforzando tanto l’influenza economica quanto quella politica di Pechino nella regione. La presenza di comunità cinesi etniche in paesi come Singapore e Malaysia contribuisce a consolidare una rete di legami commerciali e culturali, anche se alcune élite finanziarie di origine cinese a Singapore mostrano un orientamento meno allineato con le politiche governative della Cina continentale.

Un elemento chiave della strategia cinese è l’iniziativa “One Belt One Road”, che mira a sviluppare una nuova infrastruttura di trasporti, la “Nuova Via della Seta”, con l’obiettivo di incrementare i flussi commerciali e potenziare il ruolo geopolitico cinese in Asia. L’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), istituita a Pechino e largamente dominata dalla Cina, rappresenta una piattaforma privilegiata per finanziare questi progetti e al contempo sperimentare un approccio multilaterale nelle relazioni economiche globali. Questo approccio multilaterale è relativamente recente per la Cina, ma risulta strategicamente indispensabile per la sua proiezione internazionale a lungo termine.

Il mutamento nella politica estera americana, caratterizzato da un approccio populista e nazionalista sotto l’amministrazione Trump, ha introdotto un’incertezza significativa nelle istituzioni multilaterali tradizionali. La minore affidabilità degli Stati Uniti come attore chiave comporta un aumento dei costi di governance globale, rendendo più difficili le previsioni economiche e alzando i premi di rischio per le imprese. Le dinamiche dei mercati internazionali risentono di una maggiore volatilità, con effetti negativi attesi sulla produzione globale, sul PIL reale e sull’occupazione.

In questa fase, gli Stati Uniti sembrano chiedere una maggiore cooperazione politica e concessioni commerciali ai paesi tradizionalmente sotto la loro sfera d’influenza, cercando di condizionare la sovranità politica di paesi avversari attraverso leve finanziarie. Di fronte a questa pressione, la cooperazione tra i paesi interessati tende a rafforzarsi, con la Cina che si conferma come un attore globale chiave. L’economia cinese, ormai destinata a superare quella di Stati Uniti ed Europa in termini di PIL, rappresenta uno strumento fondamentale per accrescere il potere politico di Pechino.

Dal punto di vista europeo, è cruciale che la leadership cinese mantenga un impegno nel multilateralismo. La partecipazione attiva della Cina nelle organizzazioni internazionali, e in particolare nel contesto dell’AIIB, può rappresentare la base per un’azione congiunta che sostenga un ordine economico globale stabile e inclusivo. Tuttavia, questa cooperazione non è priva di difficoltà, considerando le differenze politiche e culturali tra Cina e Unione Europea, soprattutto su temi sensibili quali la politica della concorrenza e la governance della società digitale. Queste divergenze richiedono un’attenta riflessione per costruire una collaborazione efficace, che tenga conto delle differenti visioni e delle specificità di ciascun attore.

L’evoluzione della governance globale dipenderà in larga misura dalla capacità di Cina ed Europa di trovare un equilibrio tra cooperazione e competizione. La disintegrazione o indebolimento delle istituzioni multilaterali, favorita dal declino del ruolo cooperativo degli Stati Uniti, potrebbe generare un aumento delle tensioni e dei costi economici a livello globale. La stabilità e la prosperità future dell’economia mondiale richiederanno quindi un’attenta negoziazione tra grandi potenze, fondata su regole condivise e un dialogo costante, anche alla luce dell’importanza crescente delle reti di produzione digitalizzate e dell’infrastrutturazione globale.

È fondamentale comprendere che la trasformazione delle relazioni internazionali e delle reti produttive non è solo un fenomeno economico, ma anche profondamente politico. L’espansione tecnologica e l’integrazione commerciale implicano inevitabilmente una ricalibrazione del potere geopolitico e delle alleanze strategiche. La sfida per i paesi e le organizzazioni internazionali sarà gestire questa transizione in modo da evitare frammentazioni che potrebbero compromettere il progresso economico e la cooperazione globale.