La politica e la narrazione hanno avuto da sempre una relazione affascinante, che si è evoluta nel corso dei decenni. Molti politici hanno sottolineato l'importanza di saper raccontare storie per connettersi con l’elettorato e spiegare le proprie politiche. Eppure, nonostante questo legame consolidato, non si è mai veramente compreso in modo approfondito come la narrazione funzioni nel contesto politico. Per comprendere appieno il ruolo della narrazione in politica, è necessario iniziare dall’analisi di cosa renda una storia efficace.

Una buona storia, come dimostrato dallo studio del termine “narrazione” nel progetto Keywords di Raymond Williams, non è soltanto un concetto di moda ma una vera e propria categoria linguistica che negli ultimi anni ha preso piede, con espressioni come "cambiare la narrazione" o "prendere il controllo della narrazione" che sono diventate onnipresenti nei commenti politici. La narrazione, dunque, non è solo un termine utilizzato per conferire un tocco moderno alla politica, ma è un elemento cruciale che modella il dibattito e le percezioni collettive.

Le storie sono uno strumento straordinario per interpretare la realtà e per trasmettere significati culturali e ideologici. Fin da tempi antichi, le storie sono state utilizzate per trasmettere valori, per definire cos'è “normale” o “naturale”, alimentando così le ideologie radicate nella società. La famosa storia di Adamo ed Eva, ad esempio, ha influenzato profondamente la cultura e le strutture di potere della tradizione giudeo-cristiana, rappresentando una delle radici più potenti della concezione patriarcale. Tuttavia, nel ventesimo secolo, la teoria postmoderna ha messo in discussione questi "grandi racconti" ideologici, come sostenuto da Jean-François Lyotard, il quale ha argomentato che l'epoca postmoderna fosse caratterizzata da una pluralità di narrazioni, ciascuna rappresentativa di esperienze culturali e sociali diverse. La storia non è più vista come un racconto unico e lineare, ma come un insieme di prospettive concorrenti.

Nel contesto politico, la narrazione non è solo un mezzo per veicolare ideologie, ma diventa anche un potente strumento di persuasione. I leader politici, infatti, si avvalgono di storie personali e aneddoti per dimostrare la validità delle loro politiche. Gli incontri con “persone comuni”, come la madre di tre figli o il pensionato in difficoltà, diventano prove tangibili del successo delle politiche adottate. In questo tipo di narrazione, la testimonianza di un cittadino comune acquista un'autorità che va ben oltre le statistiche ufficiali, rendendo il messaggio politico più credibile e umano.

La psicologia della narrazione spiega in parte il successo di questa strategia. Secondo gli studi condotti dai ricercatori Melanie Green e Timothy Brock, quando la gente ascolta una storia piuttosto che un argomento razionale, tende a essere meno influenzata dalla credibilità del narratore e più dal contenuto stesso della storia. Le emozioni suscitate dalla narrazione possono superare la razionalità, facendo sì che l’audience si senta direttamente coinvolta, a differenza di un discorso razionale, che richiede maggiore fiducia nel parlante.

La narrazione, in quanto forma di retorica, non è una novità. Risale ad Aristotele, che parlava dell'effetto catartico che l'arte drammatica può avere sugli spettatori, purificando le emozioni forti. Oggi, la narrazione ha un impatto più immediato rispetto agli argomenti logici, come dimostrato da studi neuroscientifici che indicano come l’ascolto di una storia attivi aree cerebrali non solo legate al linguaggio, ma anche alle emozioni, alla sensorialità e ai motori. Questo implica che l'ascoltatore non comprenda solo la storia, ma la viva, sperimentandola psicologicamente.

Una delle chiavi della narrazione politica è l’utilizzo degli archetipi culturali. Le storie che attingono a modelli riconosciuti dalla cultura collettiva, come quella del "Cinderella Man", trovano un terreno fertile per la persuasione. James Braddock, un pugile degli anni '30 che ha lottato contro le difficoltà economiche della Grande Depressione, rappresenta l’archetipo del “giusto che lotta per la sopravvivenza” e risveglia in molti l’immagine di un’America che si rialza di fronte alle difficoltà. Questo tipo di narrazione crea una connessione profonda con l’elettore, che si riconosce in questi archetipi e percepisce le politiche come risposte autentiche a problemi comuni.

Il successo di una narrazione politica dipende dunque dalla capacità di evocare storie che non solo rispecchiano la realtà, ma che toccano anche corde emotive universali, connettendo l'individuo alla collettività. La politica che riesce a fare proprio questo è quella che non solo offre soluzioni pratiche, ma che racconta una visione del futuro in cui tutti possono riconoscersi, creando un senso di appartenenza e di speranza.

Inoltre, è importante considerare che la narrazione politica non deve essere vista come una semplice manipolazione emotiva o una tecnica persuasiva. È una forma di comunicazione che può generare un impatto profondo sulla comprensione delle problematiche sociali e sulla costruzione di un discorso pubblico che coinvolge le persone non solo a livello cognitivo, ma anche emotivo. La capacità di raccontare storie con autenticità e coerenza è quindi fondamentale per un politico che voglia veramente influenzare l’opinione pubblica e guidare il cambiamento.

La Diffusione della Disinformazione: Come La Propaganda Politica e Le Fake News Hanno Invaso la Comunicazione Globale

La disinformazione è diventata un fenomeno globale che ha preso piede negli ultimi anni, distorcendo la percezione pubblica e influenzando le opinioni politiche in modo devastante. La propaganda, che ha sempre avuto una presenza significativa nella storia delle comunicazioni politiche, ha trovato nuove forme con l’avvento dei social media e dei canali online. Un esempio significativo di questa lotta contro la distorsione della realtà è il progetto StopFake, nato nel 2014 in Ucraina, che si è dedicato al fact-checking per contrastare le false informazioni che venivano diffuse sul paese, in particolare dal vicino orientale, la Russia. In un contesto di conflitto armato nell’est del paese, StopFake ha svolto un ruolo cruciale nel denunciare le menzogne, cercando di educare il pubblico a riconoscere le falsità.

L’idea alla base del programma settimanale StopFake News è semplice, ma potente: raccontare storie false, ma in modo che il pubblico, armato di un "Bingo Caller’s Card", possa segnare le voci quando ascolta questi luoghi comuni, questi stereotipi e queste bugie. La lista delle categorie comprende affermazioni del tipo “L’Ucraina si congelerà senza il gas russo!” o “L’Ucraina usa combattenti ISIS nell’Est!” La trasmissione non solo smascherava le false narrazioni, ma coinvolgeva anche attivamente gli spettatori, trasformando la lotta contro la disinformazione in una forma di intrattenimento. Non è sorprendente che questo approccio si sia rivelato tanto efficace quanto provocatorio: ha preso di mira la ripetitività delle falsità, facendo di esse una parodia.

Il termine “fake news”, coniato nel 2014, è diventato una delle parole più utilizzate, ma anche più fraintese, della politica contemporanea. La sua diffusione nel dibattito pubblico è iniziata nel 2016, quando durante le elezioni presidenziali statunitensi è emerso un ondata di notizie false e manipolate, che hanno avuto un impatto diretto sul voto. Il giornalista Craig Silverman aveva già parlato di questa crescente tendenza online, ma fu solo con la vittoria di Donald Trump che il termine divenne parte integrante del linguaggio politico globale. Da allora, “fake news” è stato utilizzato per descrivere tutto ciò che non piaceva al politico di turno: non solo storie completamente false, ma anche verità distorte, dati manipolati o contenuti presentati in un contesto ingannevole.

Il termine ha acquisito un significato ambivalente e ha avuto un'evoluzione molto rapida, cambiando il suo scopo e le sue connotazioni nel giro di pochi mesi. Oggi “fake news” è usato come un’arma di discredito, utilizzata per delegittimare qualsiasi tipo di informazione contraria alla propria visione politica. Il caso di Trump è emblematico: accusare i media di “fake news” è diventato un modo per nascondere o distorcere la verità. Ciò ha avuto una serie di implicazioni negative sulla libertà di stampa e sulla credibilità delle fonti ufficiali, creando una frattura tra i cittadini e le istituzioni.

Nonostante l’evoluzione e l’ampliamento del concetto di "fake news", è importante considerare come l'uso di questo termine sia divenuto parte integrante di una strategia per confondere il pubblico, e persino per distrarre dalla vera disinformazione. Le sue implicazioni non si fermano ai confini della politica degli Stati Uniti o dell’Ucraina. La disinformazione e la manipolazione delle notizie si sono diffuse in tutto il mondo, con effetti devastanti sulla società, come nel caso delle violenze etniche in Nigeria, in cui la diffusione di immagini false online ha alimentato conflitti mortali tra le diverse fazioni.

Un fenomeno interessante che emerge da questa discussione è l’influenza che la guerra – sia essa una guerra tradizionale, politica o mediatica – ha sull'evoluzione del linguaggio. Raymond Williams, nel suo libro Keywords, parla di come le parole cambiano significato durante i periodi di crisi, come la Seconda Guerra Mondiale. Il termine "fake news", nato nell'ambito della disinformazione digitale, segue lo stesso percorso, evolvendo e adattandosi a nuove situazioni politiche, sociali e tecnologiche.

Ciò che emerge da questo fenomeno è che il linguaggio non è mai neutrale. Ogni termine carica di significato si inserisce all'interno di un contesto più ampio, dove le sue implicazioni culturali e politiche possono modificare radicalmente il modo in cui una società vede se stessa. Così come le parole possono evolvere, anche la percezione del pubblico nei confronti dei media, della politica e delle fonti ufficiali cambia, minando la fiducia nelle istituzioni e destabilizzando il discorso pubblico.

Per il lettore, è fondamentale comprendere come la disinformazione non sia solo un semplice problema di verità o falsità. È un fenomeno che scivola facilmente nel terreno della manipolazione emotiva, spesso veicolato tramite immagini forti, narrazioni esagerate e linguaggi polarizzanti. La capacità di riconoscere e analizzare questi strumenti di manipolazione è cruciale non solo per proteggere la propria opinione, ma anche per salvaguardare la coesione sociale e politica. La disinformazione diventa potente proprio quando riesce a seminare discordia tra le persone, a trasformare le differenze di opinioni in conflitti diretti.

Come la Manipolazione del Linguaggio Ha Innescato la Cultura Post-Vero

Il linguaggio, come strumento di comunicazione, non è mai stato neutrale. Sin dai tempi antichi, la manipolazione delle parole ha avuto effetti devastanti sulla percezione della realtà. Ciò che era vero per alcuni, spesso era ritenuto falso o manipolato da altri. I termini e le espressioni che usiamo quotidianamente non sempre conservano il loro significato originario; possono essere adattati e distorti per servire a scopi politici, sociali o ideologici. Nel contesto attuale, la cosiddetta “politica del post-vero” non è altro che l'ultima evoluzione di un fenomeno che affonda le radici nell'uso distorto del linguaggio.

Un esempio emblematico è l'uso della parola “fatto”. In molte discussioni pubbliche, il termine “fatto” è stato ridotto a una definizione soggettiva, manipolata in modo tale da poter essere utilizzata per sostenere qualsiasi posizione ideologica. Mentre per alcuni il "fatto" è la realtà oggettiva e inconfutabile, per altri esso diventa uno strumento per presentare una versione della realtà che può essere accettata senza critica. In altre parole, ogni parte di un conflitto ideologico ha i propri “fatti”, spesso contraddittori tra loro. Eppure, il fatto in sé, se non accompagnato da una comprensione del contesto in cui viene presentato, non aiuta a risolvere la discussione. In un certo senso, è possibile provare qualsiasi cosa con i fatti, se si manipolano opportunamente.

Questo fenomeno non implica che il linguaggio possa essere usato in modo completamente arbitrario. Non siamo liberi di dare ai termini il significato che più ci aggrada. Tuttavia, è indubbio che, in alcune circostanze, chi detiene potere o autorità può influenzare profondamente il significato di parole apparentemente semplici e oggettive. Un esempio significativo è stato quello di Facebook, che ha rivendicato un numero impressionante di "visitatori giornalieri" per il suo servizio di video-on-demand “Watch”. Tuttavia, questa cifra è stata ottenuta attraverso una definizione allargata di ciò che significa “un minuto” di visione, un trucco statistico che ha manipolato il concetto di tempo, trasformandolo in un’unità non consecutiva, ma che veniva comunque considerata come tale.

Il linguaggio, dunque, conserva una certa stabilità, ma è anche un campo di battaglia in cui il significato delle parole è costantemente negoziato. È proprio in questo contesto che si inserisce il concetto di "fatti alternativi", reso celebre da Kellyanne Conway durante un'intervista in cui, piuttosto che rispondere alla domanda sulla dimensione della folla all'inaugurazione di Trump, ha spostato il dibattito sulla questione del come i media avevano trattato l'argomento. Con questa mossa, Conway ha cambiato completamente la direzione della discussione, mettendo in discussione la fiducia nel giornalismo e suggerendo che la realtà fosse sempre mediazione, filtri attraverso i quali osserviamo gli eventi. Così, la vera questione divenne non tanto l'accuratezza dei fatti, ma come questi fatti vengono raccontati.

Allo stesso modo, un altro momento cruciale della politica post-vero è stato quando Scottie Nell Hughes, commentatrice politica, ha dichiarato che i “fatti non sono fatti”, sostenendo che ognuno interpreta i fatti a modo suo. Questo concetto, che ricorda l'affermazione di Nietzsche secondo cui "non ci sono fatti, solo interpretazioni", viene distorto nel contesto politico per delegittimare l'opposizione. In altre parole, l’interpretazione diventa la “verità” assoluta e chi non condivide tale verità è automaticamente in errore. Un simile approccio minaccia di distruggere il principio stesso su cui si basa il dialogo razionale: la possibilità di distinguere tra verità e menzogna, tra ciò che è oggettivo e ciò che è manipolato.

Questa situazione non è certo nuova. Come il filosofo greco Tucidide notava già nel V secolo a.C., la manipolazione del linguaggio è una delle prime vittime di un conflitto politico. In una guerra, sia essa militare o ideologica, le parole perdono il loro significato originario. Le fazioni in lotta, sostiene Tucidide, modificano il significato delle parole per adattarle alle proprie esigenze, distruggendo il fondamento della comunicazione stessa. Questo processo porta, inevitabilmente, alla violenza e alla tirannia. La storia ci insegna che, in momenti di grande divisione, come quelli che stiamo vivendo oggi, la manipolazione del linguaggio è tanto potente quanto pericolosa.

Il linguaggio non è mai neutro. Ogni parola, ogni frase, ogni concetto è una costruzione sociale che dipende dal contesto in cui viene utilizzato. Il rischio di distorcere il linguaggio a fini politici è che questo porti alla frammentazione della società, alla sfiducia reciproca e alla perdita di un terreno comune su cui costruire il dialogo. La battaglia per il significato delle parole è, quindi, una battaglia per la verità. In un mondo dove il confine tra fatto e opinione si fa sempre più sfumato, è fondamentale non solo difendere la realtà oggettiva, ma anche comprendere il ruolo che le narrazioni giocano nel plasmare quella realtà.

Emozioni e Decisioni Politiche: Il Ruolo Sottovalutato nella Politica Contemporanea

La politica, nella sua essenza, è sempre stata un gioco di percezioni, linguaggi manipolati e, forse più di ogni altra cosa, emozioni. Le dinamiche che governano le decisioni politiche e il modo in cui i leader riescono a conquistare il consenso non si fondano soltanto su argomentazioni razionali, ma su un gioco sottile che coinvolge il cuore e la mente degli individui. Aaron Banks, in uno dei suoi interventi, ha sottolineato che per "vincere" bisogna connettersi emotivamente con le persone. Quello che Banks afferma, sebbene non ne sia consapevole, non è altro che un richiamo alla retorica di Aristotele, che nel IV secolo a.C. esplorò il ruolo delle emozioni nella persuasione. Il celebre filosofo greco, nella sua "Arte della Retorica", identificò tre componenti fondamentali per un discorso efficace: logos (argomento razionale), ethos (carattere e autorevolezza dell’oratore) e pathos (emozioni). Queste ultime, per Aristotele, sono ciò che spinge l’ascoltatore ad un determinato giudizio. La retorica, in altre parole, mira a modificare lo stato d’animo dell’audience per orientarla verso una decisione favorevole al messaggio del parlante.

Aristotele osservava che le emozioni, come rabbia, paura o pietà, alterano profondamente il modo in cui le persone giudicano un fatto o una situazione. "Le cose non sembrano uguali a chi ama e a chi odia, né a chi è arrabbiato e a chi è calmo", affermava. Questo concetto, che da secoli permea la teoria della persuasione, è stato ripreso in modo incisivo anche dal filosofo scozzese David Hume, il quale nel XVIII secolo, pur focalizzandosi sul processo decisionale, ribadì come le emozioni siano alla base della nostra razionalità pratica.

L'importanza di manipolare le emozioni nella politica non è una novità del XXI secolo. La riflessione su questo tema si è acuita nel corso del Novecento, specialmente quando Aldous Huxley, negli anni '50, esaminò il suo celebre romanzo Il Mondo Nuovo, alla luce degli eventi politici contemporanei. Huxley, nel tentativo di prevedere il futuro della società, scoprì che le tecniche di persuasione emotiva avevano giocato un ruolo fondamentale nella riuscita dei regimi totalitari, tra cui il nazismo. Il comportamento delle masse, scrive Huxley, "è determinato non dalla conoscenza e dalla ragione, ma dai sentimenti e dagli impulsi inconsci." Hitler, in particolare, sosteneva che "per conquistare le masse, bisogna conoscere la chiave che apre la porta dei loro cuori", un’affermazione che trova eco nelle riflessioni contemporanee sulla psicologia delle decisioni.

Gli studi psicologici degli anni '70, condotti da Daniel Kahneman e Amos Tversky, hanno messo in discussione l'idea che gli esseri umani siano entità razionali. Le loro ricerche hanno dimostrato che la maggior parte delle decisioni quotidiane, compreso quelle politiche, sono influenzate in modo profondo dalle emozioni. Oggi, la comprensione di come le emozioni guidano i nostri giudizi e le nostre scelte è uno dei concetti cardine nella psicologia cognitiva. Sebbene possiamo ancora credere nel mito illuminista della ragione come fondamento delle nostre decisioni, in realtà ci facciamo spesso influenzare da come ci sentiamo riguardo a un determinato tema, e, nel contesto politico, da come tale tema si relaziona alla nostra identità e affiliazione politica.

Il fenomeno del "post-verità", che ha caratterizzato gli eventi politici del 2016, non è dunque qualcosa di nuovo, ma piuttosto l'evoluzione di una pratica secolare di manipolazione emotiva attraverso il linguaggio. Se storicamente le élite politiche hanno sempre sfruttato la flessibilità del linguaggio e le risposte emotive per influenzare l'opinione pubblica, la peculiarità dei tempi moderni risiede nelle modalità con cui questa manipolazione si realizza. L’emergere di nuove tecnologie e piattaforme di comunicazione, in particolare i social media, ha accelerato questo processo, amplificando la capacità di diffondere e manipolare emozioni su larga scala.

La crescente influenza del populismo, che ha segnato l'ascesa di politici come Donald Trump negli Stati Uniti e il Brexit nel Regno Unito, si inserisce in questo contesto. Le vittorie elettorali di questi leader sono state spesso spiegate come una "vendetta" degli elettori comuni contro un’élite distante, ma dietro questo fenomeno c’è un uso magistrale delle emozioni. Il populismo non è solo una reazione alla politica tradizionale, ma una vera e propria narrazione politica che gioca con le paure, le frustrazioni e le speranze delle masse. La retorica populista è costruita su un racconto semplice ma potente, che si appella alle emozioni di "noi contro di loro", risvegliando sentimenti di rabbia e insoddisfazione per creare un’identità collettiva.

La trasformazione della politica, da una dialettica basata sulla razionalità e sulla discussione dei fatti a una retorica incentrata sulle emozioni e sulle identità, non è solo il risultato di una fase di crisi, ma l’esito di un lungo processo culturale e politico. La manipolazione delle emozioni non è più un’arte nascosta, ma una strategia esplicita e consapevole, che alimenta la polarizzazione e il discredito delle istituzioni democratiche.

È cruciale comprendere che in politica le emozioni non sono semplicemente il risultato di messaggi manipolatori, ma sono esse stesse il veicolo di un cambiamento radicale. Oggi, come in passato, la sfida per la politica non è solo quella di persuadere con argomenti razionali, ma di saper toccare il cuore delle persone, influenzando le loro emozioni e costruendo nuove narrazioni politiche che riflettano i loro sentimenti più profondi.