Il pensiero politico ebraico nella prima modernità si distinse per un approccio complesso e, talvolta, innovativo riguardo ai temi della cittadinanza universale, della giustizia e della prosperità. Esso si intrecciava con le riflessioni più ampie del Rinascimento e del pensiero politico europeo, ma si caratterizzava per un adattamento specifico delle idee alla realtà socio-politica e culturale delle comunità ebraiche. In particolare, alcuni autori e pensatori ebrei del Seicento, come Simone Luzzatto, mostrarono una profonda comprensione delle dinamiche politiche ed economiche, pur all'interno dei limiti imposti dalla condizione di minoranza religiosa e sociale.

Luzzatto, ad esempio, nell’opera Discorso circa il stato degli Ebrei (1638), sollevò questioni che trascendevano il contesto della singola comunità ebraica, mirando ad un pensiero politico che fosse più ampio, universale, e capace di rispondere alle sfide globali della sua epoca. Il suo approccio era improntato ad un’idea di giustizia cosmopolita, che riconosceva la possibilità di una società internazionale dove la prosperità e la pace fossero raggiungibili attraverso il commercio libero e la tolleranza religiosa. Luzzatto vedeva nel commercio un mezzo per risollevare e stabilizzare la condizione degli ebrei, ma anche per promuovere l'armonia tra popoli diversi.

La nozione di cosmopolitismo che si sviluppava in queste riflessioni non era soltanto teorica; era legata alla concreta possibilità di interazione pacifica tra popoli di diversa fede, lingua e cultura. Un aspetto fondamentale del pensiero di Luzzatto era la sua comprensione della diaspora ebraica non come una condanna eterna, ma come un'opportunità per sviluppare una visione politica che potesse servire da modello di unione tra differenti nazioni. La sua riflessione sull'esilio, ad esempio, suggeriva che questo non fosse solo un castigo divino, ma un fenomeno che poteva essere interpretato anche come una parte di un disegno più ampio di giustizia globale.

Altri pensatori ebraici del periodo, come Isaac Polgar, con il suo Supporto della Religione (2011), si concentravano sulla funzione della religione come pilastro fondamentale per la stabilità della comunità, ma anche come strumento per il dialogo interreligioso e l’armonizzazione delle differenze. L’opera di Polgar, seppur più concentrata sugli aspetti religiosi, faceva eco alle stesse preoccupazioni politiche di Luzzatto, riconoscendo l’importanza di un quadro di riferimento universale che superasse le divisioni confessionali.

Uno degli aspetti cruciali che emergeva in queste riflessioni era l’interconnessione tra economia, politica e religione. Il pensiero cosmopolita dei filosofi ebrei non era separato dalla realtà pratica della loro esistenza; piuttosto, si alimentava dalle difficoltà quotidiane della vita ebraica in un contesto di marginalizzazione. In questo modo, le idee politiche si facevano veicolo per una rinnovata speranza di integrazione e di progresso non solo per gli ebrei, ma per l’intera umanità.

Questa prospettiva trovava risonanza anche nei più ampi dibattiti intellettuali dell’epoca. Molti pensatori europei, come Émeric Crucé, con il suo trattato Le Nouveau Cynée (1623), elaboravano teorie di pace universale che riprendevano tematiche simili a quelle trattate dai filosofi ebrei. Crucé, sebbene non fosse ebreo, sosteneva un modello di pace globale che coinvolgeva il commercio libero come strumento per superare conflitti e divisioni tra le nazioni. In questo, si intravede un dialogo sotterraneo tra il pensiero ebraico e quello europeo, che si ritrovava in un ideale comune di solidarietà mondiale.

L’importanza di questi pensatori risiede non solo nel loro contributo teorico alla nascita di un cosmopolitismo inteso come interazione pacifica e prospera tra i popoli, ma anche nel loro tentativo di rendere tale cosmopolitismo praticabile in un contesto di forte discriminazione e segregazione. Questi intellettuali non solo riflettevano sulle condizioni di vita degli ebrei, ma cercavano anche di tracciare una via per una coesistenza armoniosa, riconoscendo la necessità di un cambiamento nelle strutture politiche e sociali esistenti.

Infine, è fondamentale notare che le visioni cosmopolite proposte da questi pensatori non erano utopiche, ma radicate in un pragmatismo che cercava di rispondere a situazioni concrete di conflitto, isolamento e ingiustizia. Queste idee non avevano solo una valenza intellettuale, ma si rivolgevano direttamente alla pratica politica e sociale della loro epoca, cercando di risolvere i problemi più urgenti della loro realtà quotidiana.

L'individualismo contro il comunitarismo: Un conflitto tra diritti e identità

Se ascoltiamo la sua rivendicazione, dobbiamo quindi accettare la dignità pari dei popoli e non solo quella delle persone. Adottando il vocabolario di Habermas (1995), è necessario riconoscere che i principi che governano la società hanno un "carattere co-originante" e ciò vale anche all'interno di una società democratico-comunitaria. Dobbiamo ascoltare le rivendicazioni dei cittadini individualisti e di quelli comunitaristi. Non è forse un altro modo di rendere i principi basati sugli individui? Non del tutto, poiché possiamo comprendere diversamente la natura della fonte co-originante. Gli individui possono essere autonomi, ma i membri possono anche essere intesi come parti di un corpo collettivo.

Abbiamo sostenuto che la tesi dello scontro di civiltà, sebbene inizialmente falsa, è penetrata nelle menti delle persone al punto da diventare una realtà. Se questa è la situazione in cui ci troviamo, potrebbe sembrare che per neutralizzare la tesi sia sufficiente confutare empiricamente le false notizie riguardo alla presenza di gruppi religiosi-civili. Potremmo essere inclini a pensare che siano solo proiezioni della nostra mente. È quindi sufficiente negare semplicemente l'esistenza delle civiltà. E se lo facciamo, cosa rimane, se non individui e associazioni di individui all'interno di uno stato o nella struttura globale di base che godono dei diritti individuali? Ci sono vari modi per sviluppare un argomento di questo tipo. Potrebbe basarsi su una lettura errata delle "comunità immaginate" di Benedict Anderson. Mentre Anderson (1991) le tratta come "artefatti culturali" reali, si potrebbe ad esempio credere che popoli e civiltà siano entità fittizie. Potrebbero essere comprese come costrutti ideologici o assimilate allo status fittizio delle razze. Tuttavia, la vera finzione presente nella tesi di Huntington è postulare comunità che non possano essere superate, vedendo queste comunità come impenetrabili, impedendo la mescolanza. Questa è la vera natura fittizia della teoria di Huntington.

La fonte più importante di resistenza, tuttavia, è quella che rifiuta l'idea secondo cui il conflitto di civiltà si manifesta come un'opposizione tra l'individualismo morale occidentale e il comunitarismo morale non occidentale. Come stanno le cose in Francia, non dovremmo forse dire che si sta verificando un'opposizione tra il peso istituzionale della Repubblica, che è l'espressione della volontà generale, e i diritti individuali delle persone che indossano il velo? Se è così, gli individualisti sono coloro che sostengono un laicismo aperto, ospitale e generoso verso l'Islam, mentre coloro che vi si oppongono invocano interessi collettivi. Vi è infatti un disaccordo sulla diagnosi in corso. In realtà, la Francia si oppone innanzitutto all'uguaglianza dei cittadini repubblicani rispetto al "comunitarismo" musulmano. La denuncia del comunitarismo morale è esplicita e struttura i dibattiti. Ma che dire di coloro che rivendicano il diritto di indossare il velo? Non difendono i loro diritti individuali, la libertà di religione e il diritto di manifestare quella religione? Non sfruttano le risorse offerte dall'articolo 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici? Non devono forse affermare la supremazia dei diritti individuali? Se è così, non è forse sbagliato rappresentare il dibattito come un'opposizione tra individualismo morale e comunitarismo morale? Senza dubbio, sono in gioco questioni relative alla libertà religiosa e all'uguaglianza. Come è stato sostenuto, tuttavia, la fede religiosa musulmana si esprime per molti musulmani in pratiche varie come il Ramadan, la preghiera verso La Mecca e una visione etica della vita buona che implica una certa concezione di modestia femminile e l'indossare il velo religioso. Tuttavia, queste pratiche sono basate sulla comunità e se l'indossare simboli religiosi è percepito come portatore di una dimensione identitaria, è perché la comunità in questione è etnoculturale. Il diritto individuale rivendicato è in questo senso subordinato al diritto collettivo della comunità etnoculturale musulmana di esprimere la propria identità attraverso pratiche religiose comunitarie. Lo stesso tipo di osservazioni potrebbero essere fatte riguardo l'indossare la kippah ebraica o il turbante sikh.

Per comprendere più chiaramente perché la fonte del conflitto deve essere spiegata da un'opposizione tra individualisti morali e comunitaristi morali, dobbiamo notare che le società occidentali, composte sia da atei che da credenti, tendono a condividere una concezione individualistica della religione. La stessa idea implica che la fede religiosa debba essere intesa come un insieme di credenze o pratiche che possono essere separate dall'individuo. In breve, si tratta dell'idea che la religione sia una questione privata, soggettiva e individuale. È attraverso le interpretazioni individualistiche della religione che l'individualismo morale permea le menti di coloro che rifiutano l'indossare simboli religiosi nel servizio pubblico. L'alternativa, secondo loro, è nient'altro che il comunitarismo morale. Se una persona gode della libertà razionale, ci viene detto, può liberarsi da qualsiasi dottrina comprensiva particolare e si pensa che debba quindi essere intesa come prioritaria rispetto ai suoi scopi. Altrimenti, essa è alienata per sempre; o così vuole l'argomento. Tuttavia, il fatto che identità e religione siano inseparabili per alcuni non significa che non sia possibile una conversione. La libertà razionale può essere esercitata nel contesto comunitarista di una ricerca del proprio autentico sé. Un comunitarista è in grado di riflettere su se stesso, di impegnarsi in una "forte valutazione" tayloriana, come in Taylor (1985), e nella realizzazione di esperimenti di pensiero su se stesso. Questo è tutto ciò che è necessario per godere della libertà razionale, e può essere fatto senza l'idea che egli sia prioritario rispetto ai suoi fini.

Chi ha un'identità legata alle proprie comunità è in linea di principio in grado di rivedere la propria concezione di sé. È in grado di liberarsi da determinati fini attraverso la conversione e con la scoperta della propria vera natura sottostante. Se ho ragione, attaccare l'Islam equivale a volte ad attaccare l'identità di una persona musulmana. L'islamofobia è una posizione che prende di mira sia la religione che l'identità dei musulmani. Quest'ultima osservazione non vuole essere un argomento che cerca di immunizzare l'Islam dalla critica. Possiamo criticare le persone per ciò che sono, e quindi possiamo criticare l'Islam anche se è parte della loro identità. È l'odio, non la critica, che deve essere proibito, e l'islamofobia è un esempio di odio. Incitare all'odio fino al punto di voler eradicare la loro religione può essere visto come un tentativo di attaccare la stessa identità culturale di un gruppo minoritario. Questo può ovviamente influenzare l'identità personale di coloro che appartengono a questo gruppo. Il razzismo può colpire le culture e non solo le caratteristiche fenotipiche degli individui. La stigmatizzazione collettiva può colpire i gruppi etnoculturali e non solo gli individui. E poiché la religione può svolgere un ruolo definitorio all'interno di alcuni gruppi etnoculturali, un discorso che cerca di convalidare il divieto legale di alcune pratiche identitarie all'interno di un gruppo etnoculturale può diventare un'istanza di islamofobia. Potremmo descriverlo in questo modo se non fosse in grado di dimostrare come tale pratica comprometta la sicurezza pubblica o come influenzi le libertà di altri cittadini. L'islamofobia è riprovevole perché è un odio diretto non solo contro l'Islam, ma anche contro pratiche che fanno parte dell'identità di gruppi etnoculturali musulmani.