La crisi dei titoli di stato italiani rappresenta una delle minacce economiche più gravi per l’Italia, ma anche per l’intera Eurozona. L’Italia, pur non avendo un debito estero significativo, si trova in una posizione delicata. Una possibile ristrutturazione del debito sovrano italiano, sebbene sembri improbabile, potrebbe avere implicazioni devastanti per la ricchezza dei possessori di bond italiani, come banche, imprese e individui. La ricaduta di una crisi simile potrebbe replicare la situazione della Grecia nel periodo 2010-2018, ma con sfumature diverse. Un elemento cruciale che distingue l’Italia dalla Grecia è il fatto che il paese, pur essendo un importante attore economico dell'Eurozona, ha meno esposizione nei confronti di investitori esteri, e quindi il rischio di "svendita" delle infrastrutture nazionali a capitali stranieri, come accaduto con la Grecia, appare meno probabile, almeno in termini immediati.
La questione della stabilità italiana è particolarmente rilevante anche per la Francia e la Germania, che hanno un interesse diretto nel mantenere la solidità economica dell’Italia, non solo per ragioni politiche ed economiche interne, ma anche per evitare che una crisi italiana possa compromettere ulteriormente la stabilità dell’intera area dell’Euro. Negli anni, la Commissione Europea ha sottolineato più volte che i tassi di crescita della produttività e della produzione in Italia sono troppo bassi, ma non si è mai giunti a una vera e propria collaborazione tra i principali attori europei, come Francia e Germania, per supportare pienamente le riforme necessarie, come quelle varate dal governo Monti. L'assenza di un adeguato sostegno da parte dell'Unione Europea potrebbe, quindi, avere ripercussioni ben più ampie di quelle che si potrebbe immaginare a prima vista.
Nel contesto geopolitico globale, l’Italia si trova anche ad affrontare sfide in relazione agli sviluppi politici degli Stati Uniti. L’amministrazione Trump, infatti, ha mostrato un certo interesse nel promuovere politiche populiste in Italia, rafforzando la cooperazione con il governo Conte, il quale, a sua volta, spera che un avvicinamento a Washington possa consolidare la posizione delle imprese italiane negli Stati Uniti e, contemporaneamente, agevolare il supporto per la sua agenda politica in Europa. Tuttavia, la crescente interconnessione tra gli Stati Uniti e l’Italia potrebbe, a lungo termine, esporre maggiormente il paese alle tensioni derivanti dai conflitti commerciali tra Stati Uniti e Cina, un altro fattore che potrebbe destabilizzare ulteriormente il panorama economico europeo.
Parallelamente, il populismo che ha preso piede negli Stati Uniti sotto la guida di Trump trova riscontro anche nel Regno Unito, con la Brexit che ha portato a un rafforzamento di politiche protezionistiche e nazionalistiche. Il Regno Unito, dopo la sua uscita dall'Unione Europea, ha intrapreso una strada che mira a promuovere accordi di libero scambio con altre nazioni, come gli Stati Uniti, l'India e l'Australia. Tuttavia, la Brexit solleva anche interrogativi circa l’impatto che avrà sull’economia globale, in particolare sulla City di Londra, che potrebbe perdere il suo status di centro finanziario di riferimento, e sulle relazioni con gli Stati Uniti, i quali, pur supportando la Brexit, potrebbero in futuro ostacolare la politica commerciale del Regno Unito, in particolare a causa della crescente debolezza dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
La fine della libertà di movimento dei capitali e dei beni che caratterizza il mercato unico dell’Unione Europea potrebbe comportare difficoltà significative per il Regno Unito, in particolare per quanto riguarda gli investimenti diretti esteri e i flussi di capitale. L’eventualità che la politica fiscale di entrambi i paesi, Stati Uniti e Regno Unito, spinga verso una riduzione della tassazione per le imprese potrebbe avere effetti devastanti sulla distribuzione del reddito, accrescendo le disuguaglianze sociali. La pressione fiscale sui salari e sui lavoratori potrebbe aumentare in modo significativo, mentre il reddito da capitale potrebbe beneficiare di sgravi fiscali, esacerbando ulteriormente le disuguaglianze economiche.
Tuttavia, la chiave per comprendere pienamente la complessità di questa situazione risiede nell’interconnessione tra le economie globali e la politica internazionale. Mentre l’Italia si trova al centro di una serie di dinamiche economiche e politiche, la sua capacità di affrontare una crisi del debito potrebbe essere influenzata dalla reazione delle grandi potenze globali, dalle politiche interne dell’UE e dalla crescente competitività economica a livello internazionale. Se la crisi dei bond sovrani italiani dovesse davvero manifestarsi, non sarebbe solo una questione economica nazionale, ma una sfida che coinvolgerebbe l’intero sistema finanziario europeo e internazionale.
La necessità di riforme strutturali profonde in Italia, per migliorare la produttività e la competitività a livello internazionale, è ormai evidente. Tali riforme dovranno essere sostenute da un supporto concreto, tanto a livello nazionale quanto europeo, per evitare che l’Italia diventi il punto di rottura dell’intero progetto dell’Eurozona. La stabilità economica italiana è cruciale non solo per il paese stesso, ma per l’intero equilibrio dell’area euro e della stessa Unione Europea. E proprio in questo scenario incerto, dove il populismo, il protezionismo e le politiche di deregolamentazione sembrano prendere piede, diventa fondamentale considerare le ripercussioni globali delle politiche interne di ogni singolo stato, inclusa l’Italia.
Quali saranno le conseguenze per l'ordine mondiale se gli Stati Uniti abbandonano gli organismi internazionali?
La questione dell'abbandono delle istituzioni internazionali da parte degli Stati Uniti solleva interrogativi cruciali riguardo alle dinamiche geopolitiche ed economiche future. Se gli Stati Uniti riducessero la propria influenza in organizzazioni come la Banca Asiatica di Sviluppo (ADB), il ruolo di Paesi come il Giappone e la Cina potrebbe rafforzarsi ulteriormente. In particolare, la Cina, che ha creato la Banca Asiatica per le Infrastrutture (AIIB), si troverebbe a giocare un ruolo di maggiore preminenza nel panorama internazionale. Mentre l'assenza degli Stati Uniti dalla AIIB non influisce direttamente sulla sua forza, i Paesi dell'Unione Europea, inclusi Regno Unito, Francia e Germania, che sono membri fondatori, potrebbero vedere nuove opportunità di espansione economica e strategica.
Il ritiro degli Stati Uniti da queste organizzazioni solleva anche una questione fondamentale: gli Stati Uniti trarrebbero davvero beneficio dal ridurre il proprio impegno nelle istituzioni internazionali, dove hanno storicamente esercitato una notevole influenza? L’idea che l’indebolimento degli organismi internazionali possa giovare agli Stati Uniti è tanto poco convincente quanto l’idea che la Gran Bretagna possa acquisire potere internazionale uscendo dall’Unione Europea, un’azione che ha dimostrato di ridurre significativamente il peso economico della nazione.
Il multilateralismo, infatti, è un sistema basato sul rispetto delle regole internazionali e sulle organizzazioni che facilitano l'attuazione di queste leggi. Come sottolineato dal Segretario Generale dell’OMC nel 2017, il multilateralismo serve a “rendere grande ciò che è piccolo e a civilizzare ciò che è grande”, proponendo una visione in cui le potenze mondiali legate a queste regole possano essere partner più giusti per i Paesi più piccoli del mondo. In tale contesto, le nazioni minori hanno voce e possibilità di influire sulla politica economica internazionale. Il ruolo di queste nazioni diventa ancora più forte se fanno parte di un blocco di integrazione commerciale regionale.
Nel periodo della Guerra Fredda (1944-1991), l’economia mondiale era plasmata da Stati Uniti e alleati politici e militari. Le organizzazioni internazionali nate dopo il 1944, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, sono state fondamentali nell’ottenere il bene pubblico globale del “commercio libero” e della “stabilità finanziaria”. In questo periodo, la cooperazione tra Paesi industrializzati è stata coordinata dall’OCSE, mentre il G7 ha svolto un ruolo informale. Tuttavia, il sistema non è riuscito a prevenire la crisi bancaria transatlantica del 2007-2009, nonostante gli sforzi del FMI e dei regolatori internazionali come il Comitato di Basilea, che avevano già progettato regole di supervisione bancaria.
Un altro punto rilevante riguarda l’emergere del G20, che ha riunito Paesi come la Cina e l’India per una responsabilità economica condivisa. Tuttavia, questa piattaforma è rimasta eterogenea e priva di reali risultati concreti, con eccezione del summit di Brisbane nel 2014, quando è stato promesso un incremento del PIL globale del 2% entro il 2019. L’incapacità di tradurre tali promesse in azioni concrete evidenzia le difficoltà di un multilateralismo che si sta indebolendo.
Se gli Stati Uniti dovessero abbandonare il multilateralismo, l’emergere di un nuovo regime di potere globale sarebbe quasi inevitabile. In un mondo in cui le organizzazioni internazionali non avessero più il peso di un tempo, ci si troverebbe davanti a un sistema in cui Stati Uniti, Russia e Cina assumerebbero ruoli di grandissimo potere, e gli altri Paesi sarebbero costretti a scegliere quale di queste grandi potenze supportare. In un tale scenario, una delle principali aree di conflitto potrebbe essere il Mar Cinese Meridionale, dove l’entrata di forze militari europee potrebbe essere giustificata dalla necessità di proteggere le rotte commerciali cruciali tra l’Asia e l’Europa.
Nel contesto geopolitico attuale, l’Unione Europea potrebbe giocare un ruolo sempre più centrale, spingendo la Cina a sostenere il multilateralismo, dato che il suo ruolo nella politica economica internazionale è ancora relativamente giovane. La sua adesione all’OMC nel 2001 e la creazione dell’AIIB hanno segnato i primi passi di un’entrata nell’arena del multilateralismo che, tuttavia, ha avuto luogo in un lasso di tempo molto breve.
Da un punto di vista storico, la globalizzazione, che ha preso piede tra la fine del XIX secolo e i primi del Novecento, ha visto l'emergere di un numero ristretto di organizzazioni internazionali destinate a facilitare il commercio e i flussi di capitali. L’Inghilterra, che una volta era la principale potenza economica globale, ha visto il suo ruolo ridursi progressivamente, mentre gli Stati Uniti, che avevano rifiutato un impegno internazionale durante gran parte della loro storia, hanno preso il comando della scena economica globale a partire dal 1944, promuovendo un ordine multilateralista che ha visto il pieno sviluppo di organizzazioni come l’FMI e la Banca Mondiale.
Tuttavia, con l'arrivo della presidenza di Donald Trump nel 2017, questo ordine ha cominciato a subire delle crepe, con una crescente sfiducia verso gli organismi internazionali e una spinta verso posizioni più isolate. La parte più conservatrice della politica statunitense continua a sostenere che le organizzazioni internazionali siano controllate da Paesi non americani, che non riescono a garantire una leadership efficace.
Il cambiamento nell’ordine mondiale potrebbe comportare, oltre a un aumento delle tensioni geopolitiche, anche la creazione di una nuova architettura economica globale, in cui le alleanze regionali e le decisioni politiche unilaterali potrebbero prevalere sugli accordi multilaterali.

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