Nel contesto della teoria politica medievale e rinascimentale, l'idea di un governo mondiale è stata trattata in modo significativo, ma la concezione del cittadino cosmopolita, inteso come "cosmopolitēs", non ha trovato una trattazione altrettanto incisiva nelle opere di Dante Alighieri. Sebbene Dante, in particolare nel suo "Monarchia", affronti la questione centrale del dibattito politico medievale – la relazione tra potere papale e imperiale – la sua visione dell'ordine politico universale si concentra principalmente sull'autorità imperiale unitaria piuttosto che sulla cittadinanza globale. L'aspirazione di Dante era infatti quella di giungere a uno stato ideale governato da un unico monarca, in grado di unificare l'umanità sotto una sola legge e una sola direzione. Non si trattava di un ideale cosmopolita in senso stretto, ma piuttosto di un ordine politico unitario, che rispondeva a un principio cosmico di movimento, orientato verso una visione di unità e coesione mondiale.
La visione di Dante non è estranea alla sua concezione dell’universo, che immaginava come regolato da un'unica fonte di movimento e governato da una sola legge universale. Tuttavia, la sua fiducia in un impero cosmopolita non era condivisa universalmente, e la frammentazione della Chiesa europea durante le riforme religiose rese la sua speranza di unità politica un'illusione. La crescente divisione tra le confessioni religiose e la frammentazione geopolitica contribuirono a rendere inattuabile l'idea di una comunità universale unita sotto un solo imperatore.
Nonostante ciò, l'idea di cosmopolitismo non scomparve completamente dalla scena intellettuale. Nel XVII secolo, con l’emergere di nuovi movimenti sociali e intellettuali, come i mercanti, gli studiosi e i radicali politici, la visione cosmopolita rivive attraverso l’“effetto cosmopolita”, come lo ha definito Margaret Jacob, che descrive il fenomeno dei gruppi sociali che si mescolano al di là dei confini etnici e confessionali. Questi gruppi, caratterizzati da un atteggiamento di apertura verso altre culture e tradizioni, incarnavano una forma di cosmopolitismo che si rifletteva anche nelle idee religiose di quell’epoca. Erasmus di Rotterdam, ad esempio, esprimeva il desiderio di appartenere alla "città del cielo" e di essere un "pellegrino" sulla strada di una cittadinanza universale, distante dal concetto di cittadinanza locale o terrena.
L'idea di cittadinanza universale si incarna anche nelle opere di Justus Lipsius, filosofo e umanista fiammingo, che condivise con Althusius il contesto intellettuale del tardo Rinascimento. Lipsius criticava il patriottismo tradizionale e ridefiniva la cittadinanza in termini di una visione comune della fraternità umana, basata su un mix di ideali cristiani e stoici. Althusius, pur operando in un contesto riformato protestante, fu influenzato dalle teorie di Lipsius e degli stoici, come Seneca e Cicerone, i cui pensieri vennero incorporati nel suo lavoro.
La rinascita dello stoicismo, specialmente attraverso il pensiero di John Calvin, uno dei principali riformatori protestanti, dimostra come questa filosofia esercitasse una notevole influenza sulle teorie politiche del periodo. Calvin stesso fu profondamente influenzato dagli scritti stoici, e la sua visione di una fratellanza universale si riflette nelle sue opere, che a loro volta influenzarono pensatori come Althusius. Quest'ultimo, pur non essendo un sostenitore esplicito di un cosmopolitismo universale, si inserì in un contesto che incoraggiava l’idea di una comunità umana globale, anche se spesso subordinata a una visione cristiana della storia e del destino umano.
In questo quadro, Althusius appare come una figura che naviga tra due influenze potenti: quella della tradizione cristiana, che prevedeva un destino escatologico per l’umanità, e quella dello stoicismo, che promuoveva l’idea di un'umanità unita sotto leggi universali. Le sue riflessioni politiche, sebbene ancorate alla realtà dei conflitti confessionali e geopolitici del suo tempo, offrono un punto di contatto tra il cosmopolitismo cristiano e quello stoico, e rappresentano un punto di partenza per comprendere come le idee cosmopolite si siano evolute nel pensiero politico moderno.
A livello sociopolitico, Althusius, nato nel 1563 nell'area del Sacro Romano Impero, visse in un contesto segnato dalla Riforma Protestante e dalle tensioni religiose che scaturivano dalla divisione tra cattolici e protestanti. La sua formazione, che includeva studi a Colonia, Basilea e Ginevra, lo mise in contatto con le correnti filosofiche e teologiche che più tardi avrebbero informato il suo pensiero. Nonostante la difficoltà di vivere in un territorio in cui il protestantesimo riformato non era legalmente riconosciuto, Althusius ricevette un'educazione eccellente e sviluppò una visione politica che cercava di conciliare i principi del cristianesimo con un'idea di governo basato sulla comunità e l’ordine universale.
In definitiva, le influenze cristiane e stoiche che pervadevano il pensiero di Althusius e di altri intellettuali del suo tempo non solo testimoniano la continuità del cosmopolitismo, ma ne segnano anche una trasformazione, che passerà da un modello imperiale unitario, come quello proposto da Dante, a una visione più complessa e sfumata di un'umanità unita da leggi universali, ma con una forte impronta escatologica. Althusius, pur rimanendo legato alle sue radici teologiche e politiche, ci offre una prospettiva importante su come le idee cosmopolite possano evolversi all'interno di contesti culturali e religiosi differenti.
Come può il cosmopolitismo kantiano rispondere alle sfide dell’onore, della sovranità e dell’immigrazione?
Kant concepisce l’onore non come un privilegio elitario, né come un’espressione di potere aggressivo, ma come una dimensione essenziale della dignità politica, sia per l’individuo che per lo Stato. Ogni Stato, nella sua autonomia, ha il diritto di mantenere l’onore e l’indipendenza, purché lo faccia rispettando i diritti degli altri. Nel contesto internazionale, questa idea diventa cruciale. L’onore di uno Stato non consiste nell’espansione della propria influenza, ma nel trattenersi da tale espansione, nel riconoscere e proteggere l’indipendenza degli altri attori globali.
Kant insiste sul fatto che le disuguaglianze materiali tra gli Stati non devono diventare un pretesto per strutture di dominio. Uno Stato impoverito non deve essere ridotto a uno stato passivo, assistito con carità paternalistica da Stati più ricchi. Al contrario, l’aiuto deve avvenire attraverso un congresso internazionale, dove anche gli Stati poveri possano esprimere la propria voce. In tal modo, la dipendenza è evitata e l’onore preservato. Solo in un tale equilibrio tra aiuto e riconoscimento reciproco può emergere un ordine giuridico internazionale che rispetti la libertà politica di tutti.
La riflessione kantiana va oltre la semplice etica della carità: essa domanda che gli Stati economicamente dominanti rinuncino alla tentazione del controllo e alla perpetuazione dei vantaggi ottenuti tramite l’ingiustizia storica. Tali Stati, per ottenere un onore autentico, devono disfare i meccanismi legali ed economici che perpetuano la loro supremazia. L’onore, in questo senso, non è una ricompensa per la potenza, ma una prova morale: esso si misura nella capacità di astenersi dal dominio, di cedere privilegi, di garantire eguaglianza giuridica.
La stessa dinamica si applica al diritto cosmopolitico, il quale regola i rapporti tra individui in un mondo finito, dove ogni azione oltrepassa i confini nazionali. Kant delinea un diritto di ospitalità che non garantisce un diritto a migrare, ma riconosce a ogni essere umano il diritto a presentarsi per la società. Gli Stati hanno dunque il dovere di ascoltare le rivendicazioni di chi si presenta ai loro confini, soprattutto quando respingerli equivarrebbe a condannarli. Il diritto cosmopolitico non permette l’arbitrarietà nel trattamento dei migranti. L’esclusione, se attuata senza procedure giuste, diventa un atto di violenza giuridica.
Kant non propone una dissoluzione della sovranità, ma una sua trasformazione attraverso la giustizia. Egli ammette che gli Stati abbiano il diritto di rifiutare l’ingresso, ma solo se ciò può avvenire senza distruggere la persona. In questo senso, il diritto di ospitalità diventa un vincolo morale e giuridico, imponendo agli Stati l’obbligo di indagare le richieste d’asilo e di farlo secondo procedure legittime. Kant, contrariamente all’immagine diffusa di un pensatore freddamente formale, chiede che il migrante sia trattato come un fine in sé, mai come un mezzo per il vantaggio politico o elettorale.
Alcuni critici contemporanei, come Valdez, notano che la struttura del diritto cosmopolitico kantiano è fin troppo deferente verso la sovranità nazionale, al punto da permettere abusi sistemici. In un’epoca segnata da nuovi squilibri di potere, ciò che nel Settecento poteva fungere da protezione per i popoli indigeni contro il colonialismo europeo, oggi viene sfruttato dalle nazioni potenti per giustificare la chiusura e la disumanizzazione. Tuttavia, Kant stesso offre gli strumenti concettuali per criticare questi abusi. La sua insistenza sulla legalità, sull’imparzialità delle procedure, sull’autonomia morale di ogni individuo, implica che nessuno Stato possa agire al di sopra del diritto, anche quando si tratti di esercitare il controllo sui propri confini.
Il vero onore di uno Stato, secondo Kant, non risiede nel difendere la propria sovranità come uno scudo assoluto, ma nel sottoporla al controllo della ragione pratica, nel riconoscere che la forza non crea diritto. Il rispetto per il diritto cosmopolitico non significa abdicare alla propria autodeterminazione, ma dimostrarne la legittimità attraverso l’apertura, il giudizio imparziale e l’accettazione della responsabilità verso l’umanità intera.
Per questo, Kant non nega la legittimità delle istituzioni internazionali che sanzionano violazioni del diritto cosmopolitico. Egli nega loro solo il diritto alla coercizione armata, per evitare che il cosmopolitismo stesso si trasformi in maschera dell’imperialismo. Tuttavia, la pressione morale, le sanzioni diplomatiche, il diritto pubblico della ragione, possono e devono esistere. L’ordine internazionale giusto non è un ordine di conquista, ma uno spazio di reciprocità giuridica.
L’applicazione di questi principi al mondo odierno richiede una riformulazione del rapporto tra onore, sovranità e diritto. Gli Stati devono imparare a vedere nell’immigrato non una minaccia, ma un interlocutore morale. Devono costruire procedure che rispettino la persona, non strumenti di esclusione basati sulla paura. Devono rinunciare a leggi commerciali che impoveriscono altri Stati, se vogliono essere liberi da una ricchezza costruita sull’ingiustizia. E devono costruire uno spazio internazionale dove il diritto non sia subordinato alla forza, ma dove la forza sia disciplinata dal diritto.
È fondamentale comprendere che per Kant l’autonomia politica non è semplice indipendenza materiale, né mera autodeterminazione istituzionale: essa richiede una struttura legale che consenta a ogni soggetto morale, sia esso individuo o Stato, di agire secondo principi universali. La vera indipendenza non si misura con la capacità di respingere gli altri, ma con la volontà di convivere secondo norme comuni. Questo significa che ogni politica dell’immigrazione, ogni struttura del commercio internazionale, ogni decisione sulla sovranità, deve rispondere a una domanda ineludibile: è compatibile con la dignità dell’altro come essere razionale?
Cosa significa attraversare l’epoca della transizione secondo Heidegger?
Nel cuore del pensiero tardo di Heidegger, come esposto nell’anteprima del suo Beiträge zur Philosophie, si apre un movimento radicale di pensiero che non mira più alla fondazione sistematica di una dottrina, ma a una meditazione preparatoria per l’attraversamento epocale dalla metafisica tradizionale verso un pensare storico dell’essere (seynsgeschichtliches Denken). Questo attraversamento non è semplicemente un evento intellettuale o filosofico, ma un mutamento ontologico nel modo in cui l’essere umano – non più come animal rationale, ma come Da-sein – si situa nel mondo e nella verità dell’essere.
Heidegger non offre argomentazioni né descrizioni sistematiche. Il suo linguaggio si fa allusivo, poetico, quasi oracolare, perché ciò che è in gioco è irriducibile al concetto: è l’intimazione (Ahnung) dell’altro inizio, il quale non si oppone al primo inizio greco (Platonico-Aristotelico), ma lo attraversa, lo interpreta, lo oltrepassa come in una Auseinandersetzung, un confronto decisivo e al tempo stesso fondante.
L’epoca della Machenschaft – del dominio tecnico-calcolante – ha sigillato l’oblio dell’essere, riducendo l’esperienza del mondo a oggettualità, a disponibilità manipolabile. In questa condizione, il pensiero autentico non può più essere un pensiero rappresentativo, soggetto-oggetto, ma deve farsi pensiero in cammino, un pensiero che si lascia guidare dall’apertura storica dell’essere. Questo cammino è lo spazio del passaggio, in cui non è ancora cominciato ciò che deve venire, ma in cui l’antico non vale più.
Il Beiträge articola questa struttura del passaggio attraverso sei “giunture” (Fügungen), ognuna delle quali rappresenta un momento dell’evento epocale dell’Ereignis – l’appropriazione o enowning dell’essere. Il gioco anticipante (Zuspiel), come momento pedagogico o prefigurativo, riattiva lo stupore originario dei Greci, ma lo getta nella disillusione moderna, nello Erschrecken, il disorientamento profondo dinanzi all’assenza di fondamento. Da qui prende slancio il salto (Sprung), che non è decisione volontaristica, ma movimento essenziale del Da-sein che si appropria di sé stesso nel passaggio dal domandare sull’ente (Leitfrage) alla domanda radicale sull’essere (Grundfrage).
Il fondamento (Gründung) che segue al salto non è struttura o sistema, ma dispiegamento poetico-normativo dell’essere nella forma del nomos – legge non come imposizione, ma come canto e misura dell’abitare umano. Questo fondamento prepara l’avvento dei venturi (die Zukünftigen), i futuri poeti-filòsofi, custodi della verità dell’essere nell’epoca del disincanto. Essi non saranno costruttori di mondi, ma ascoltatori del tempo, capaci di risuonare con l’evento e di fondare nuovi inizi non nella

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