Il Trattato di Versailles, firmato alla fine della Prima Guerra Mondiale, fu un atto che segnò profondamente la storia della Germania e, indirettamente, quella di tutto il mondo. Le potenze alleate, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, imposero alla Germania dure pene economiche e territoriali, nonché il pagamento di pesanti riparazioni. Il risultato fu un disastro economico: iperinflazione, disoccupazione di massa e un crollo del sistema sociale. Tra i critici più acuti di questa trattativa si distinse l'economista britannico John Maynard Keynes, che, nel suo celebre libro Le conseguenze economiche della pace, profetizzò che tali misure avrebbero precluso qualsiasi possibilità di una pace duratura.

Ad alimentare il risentimento contro il trattato e le sue ingiustizie, si inserì la figura di Adolf Hitler. Fin dagli anni ‘20, il Führer cominciò a elaborare una narrativa che ruotava intorno alla necessità di abbattere il Trattato di Versailles, considerato da lui e dai suoi seguaci come una delle più gravi ingiustizie mai commesse nei confronti di una grande nazione. In molteplici discorsi e scritti, Hitler ribadiva il suo obiettivo di "abolire il Trattato di Versailles", che considerava non solo un'umiliazione nazionale, ma anche una condanna per la sopravvivenza stessa della Germania. La sua visione era chiara: la Germania doveva essere liberata dal giogo imposto dai vincitori, per garantire un futuro di grandezza e potenza.

L'agenda di Hitler si fondava su un concetto chiaro e semplice: un "nuovo ordine mondiale" in cui le nazioni vittoriose, come la Germania, avrebbero avuto tutti i diritti, mentre le nazioni sconfitte non avrebbero avuto alcuna possibilità di prosperare. In questo contesto, la Germania doveva diventare il centro di un Reich potente e invincibile, capace di sottomettere qualsiasi nemico esterno. Hitler credeva che la vittoria in una futura guerra mondiale fosse l'unico modo per garantire la sicurezza della nazione e, al tempo stesso, la realizzazione del destino del popolo ariano.

Questo pensiero fu espresso in modo esplicito nel 1938, quando Hitler inviò un telegramma a Franklin D. Roosevelt in cui dichiarava che il suo obiettivo non era solo quello di riunificare la Germania politicamente, ma anche di rimettere il Paese sulla via della potenza militare. Con il riarmo e l'annessione di territori che riteneva appartenessero di diritto alla Germania, Hitler costruiva il fondamento di una nuova Germania, unita e pronta a sfidare ogni minaccia esterna.

Il concetto di "sicurezza" che si trovava alla base della politica nazista non era in realtà qualcosa di nuovo. Esso si inseriva perfettamente in una tradizione di pensiero che concepiva la nazione come un'entità che doveva proteggersi da ogni potenziale minaccia, sia essa interna o esterna. Un'idea simile è presente nel pensiero politico statunitense, dove la "sicurezza nazionale" è vista come una necessità assoluta per proteggere gli interessi vitali della nazione. L'idea di una potenza eccezionale, chiamata a difendere la propria sicurezza e quella dell'intero mondo, era quindi ben radicata anche nel discorso politico degli Stati Uniti, che in alcuni momenti storici ha mostrato paralleli con il pensiero di Hitler.

Tuttavia, l'agenda di Hitler non si fermava solo alla difesa contro le minacce esterne. La sua visione fascista implicava anche la "purificazione" della società tedesca, un processo che doveva eliminare quelle "minacce interne" che egli considerava i principali ostacoli alla grandezza della nazione. I nemici da abbattere erano coloro che, secondo lui, non appartenevano alla "tribù ariana" e che minacciavano l'unità della Germania: i socialisti, gli ebrei, e i gruppi considerati come "parassiti" della nazione. La politica di purificazione razziale che Hitler promuoveva divenne uno degli strumenti principali per consolidare il potere e rafforzare la sua visione di un "comunità di sangue" che doveva essere preservata ad ogni costo.

Nel contesto tedesco degli anni Venti, caratterizzato da una profonda crisi economica, molti tedeschi iniziarono ad accogliere favorevolmente l'idea di un'unità nazionale basata sulla superiorità ariana. La Germania rurale, tradizionalista e religiosa, si sentiva minacciata da un'urbanizzazione crescente che era associata a valori cosmopoliti, socialisti e secolari. Hitler seppe sfruttare questa divisione, cercando di unire le diverse fazioni della società tedesca sotto la sua visione di purezza razziale. Le sue politiche, pur alimentando il conflitto sociale ed economico, giustificavano la persecuzione degli ebrei, dei socialisti e degli altri gruppi emarginati come il male assoluto che doveva essere estirpato per il bene del popolo tedesco.

L'adozione di un "racconto di sicurezza" come quello di Hitler non era solo un processo di manipolazione politica, ma anche una costruzione ideologica che riuscì a coinvolgere milioni di persone in un progetto di radicale trasformazione sociale. La promozione di un ordine "naturale" in cui i tedeschi ariani dominavano sugli altri popoli divenne uno degli aspetti centrali del regime nazista, e la sua riuscita fu dovuta in gran parte alla capacità di Hitler di alimentare un senso di paura e di bisogno di protezione tra la popolazione tedesca.

La "sicurezza" che Hitler promuoveva era, in ultima analisi, una visione totalitaria in cui la nazione sarebbe stata preservata solo se fosse stata purificata da tutti coloro che non rientravano nei parametri della sua ideologia razziale. Questo concetto non solo giustificava la persecuzione e l'eliminazione degli "estranei", ma alimentava anche una crescente militarizzazione della società e dello stato, preparando il terreno per il conflitto che sarebbe sfociato nella Seconda Guerra Mondiale. La sua ideologia, infatti, non si limitava alla Germania, ma ambiva a trasformare l'intera Europa sotto il segno della supremazia ariana.

Come il capitalismo si trasforma in fascismo: la cultura della forza e della violenza

Il crescente autoritarismo che stiamo osservando oggi negli Stati Uniti, e in altre democrazie occidentali, è frutto di un lungo processo storico e culturale che ha visto l'evoluzione di pratiche politiche e sociali dirette a consolidare il potere nelle mani di pochi, a discapito dei diritti e delle libertà della maggioranza. Le azioni di molti presidenti, sia democratici che repubblicani, sono segnali di un'accelerazione verso forme di governo che richiamano la logica del fascismo. Barack Obama, ad esempio, ha ordinato l'uccisione di un cittadino americano tramite un drone, ha attuato un'intransigente repressione contro le fughe di notizie e ha mantenuto in segreto un programma che registrava tutte le telefonate degli americani. Questi eventi, pur se giustificati in nome della sicurezza nazionale, segnalano un pericolo crescente per le libertà civili. Il parallelo con il fascismo si fa ancora più evidente quando si osserva l’ascesa di Donald Trump, che, pur ottenendo solo il supporto di circa il 40% della popolazione, viene percepito da molti come una versione americana del "caro leader", una figura simile a quella di Hitler.

In tale contesto, l’autocrazia si nutre di una cultura che enfatizza la forza bruta e la violenza come principi morali fondamentali. La psicologia autoritaria delle masse e la costruzione di una cultura della forza e dell'intimidazione sono pilastri essenziali del fascismo, come affermava Hitler stesso. L'idea che la debolezza sia il male più grande e che la forza, la violenza e la determinazione siano le virtù supremi, ha trovato terreno fertile negli Stati Uniti, dove una lunga tradizione di militarizzazione e capitalizzazione ha condotto a una vera e propria guerra contro i lavoratori. Il capitale finanziario, in particolare, ha investito nelle politiche di austerità, riducendo la spesa pubblica e favorendo un militarismo che lascia poco spazio al welfare o ai diritti dei cittadini più vulnerabili.

Il capitalismo militare ha bisogno di una cultura della sopraffazione, dove l'individuo e le aziende competono senza scrupoli per raggiungere i propri obiettivi. Trump, come il presidente più "bullo" della storia americana, ha amplificato e legittimato comportamenti aggressivi e prepotenti, tanto in politica quanto nella vita quotidiana. La violenza, in questo contesto, non è solo accettata, ma celebrata come simbolo di potere. La brutalizzazione del mondo del lavoro, la disintegrazione dei diritti dei lavoratori e la precarizzazione dei contratti, portano a una situazione in cui la classe operaia si trova a dover combattere per la propria sopravvivenza in un sistema che premia la forza e la spietatezza.

In questo scenario, il razzismo funge da moltiplicatore della violenza. La discriminazione razziale e la marginalizzazione dei gruppi vulnerabili sono essenziali per mantenere viva una cultura che privilegia la forza bruta e l'egemonia di pochi. La segregazione e la violenza istituzionalizzata contro le minoranze razziali e etniche, come gli afroamericani e gli immigrati latini, sono fenomeni che non solo minano la coesione sociale, ma promuovono un modello di società che trova nei conflitti di classe e nella discriminazione la propria linfa vitale.

Il militarismo che pervade la società americana non è limitato agli ambiti tradizionali come le forze armate, ma ha invaso anche le forze di polizia, il sistema educativo e la vita quotidiana. L'esempio della militarizzazione delle scuole, con l'introduzione di guardie armate e la costruzione di barriere fisiche, è un segnale evidente della trasformazione della società civile in una struttura sempre più simile a quella di un campo di battaglia. Le scuole, una volta luoghi di formazione e crescita, sono ora rifugi di violenza, dove la protezione è garantita solo attraverso la forza.

La cultura della violenza non si ferma all'ambito istituzionale, ma si infiltra nel comportamento quotidiano della gente. Il fenomeno della "road rage", l’aggressività durante la guida, è solo un piccolo esempio di come la violenza stia diventando un comportamento accettato. Il tragico episodio in cui due donne si sono affrontate su una strada trafficata e una di loro ha sparato all'altra, uccidendola, è emblematico di come la violenza stia diventando una risposta naturale a ogni conflitto.

Tutto ciò si riflette nella politica, dove l'incitamento alla violenza da parte dei leader, come nel caso delle dichiarazioni di Trump che incitano i suoi sostenitori a "picchiare" i manifestanti, contribuisce a creare un ambiente di tensione crescente e di polarizzazione sociale. I gruppi di estrema destra e i neofascisti, spesso incoraggiati da tali discorsi, invadono le strade, manifestando apertamente il loro disprezzo per la democrazia e il rispetto dei diritti umani.

Nel contesto attuale, l'ulteriore militarizzazione della società e la crescita di una cultura della violenza devono essere comprese non solo come fenomeni di erosione della democrazia, ma come segni di un sistema che si sta avvicinando a forme di governo che privilegiano l'autorità, l'intimidazione e la repressione. La cultura della forza e della violenza, in questo senso, non è una semplice tendenza temporanea, ma un movimento che potrebbe definire il futuro della società americana e di altre nazioni che si trovano ad affrontare sfide simili.

Perché la Sinistra Americana ha Fallito nel Costruire un Nuovo Racconto Nazionale?

Il fallimento della sinistra americana, sia liberale che progressista, nel costruire un nuovo racconto nazionale all’altezza dello spirito della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani risulta lampante osservando l’attuale configurazione del potere politico negli Stati Uniti. Già nel 2018, tutte le leve del potere erano nelle mani di un Partito Repubblicano radicalizzato: Casa Bianca, Senato, Camera dei Rappresentanti, Corte Suprema e la maggioranza dei governatorati statali. Il Partito Democratico, lontano dall'essere un'alternativa, aveva da tempo abbandonato l'eredità socialdemocratica del New Deal rooseveltiano, trasformandosi in un secondo partito del business, come lo era stato prima degli anni ’30. A partire da Bill Clinton, la sinistra istituzionale si è avvicinata a Wall Street, legittimando e perpetuando un sistema di dominio economico-corporativo.

La nascita del Terzo Regime Corporativo — successore dell’età dorata del XIX secolo e dei ruggenti anni Venti — si fa risalire simbolicamente all’elezione di Ronald Reagan nel 1980. Un regime che ha progressivamente trasferito la sovranità dalle mani dei cittadini a quelle delle multinazionali, trasformando il governo federale in un partner d’affari al servizio del profitto globale di una ristretta élite di azionisti e amministratori delegati. Questo regime ha conosciuto un processo di consolidamento sotto Bush padre, ha ottenuto legittimazione dai Democratici con Clinton, si è rafforzato sotto Bush figlio, ed è stato solo marginalmente riformato da Obama. Con Trump, si è virato verso una forma più apertamente autoritaria, accelerando una deriva già in atto da decenni.

Nel frattempo, la sinistra — in particolare quella liberale — ha progressivamente abbandonato la lotta di classe per rifugiarsi nei territori dell’identità. Se la destra ha continuato a nutrire un progetto coerente e strutturato, la sinistra si è persa in battaglie frammentarie e in narrative incapaci di competere con il racconto securitario della destra. I media mainstream hanno enfatizzato una polarizzazione culturale che però, nella sostanza, cela un vero svuotamento dell’alternanza politica: oggi la scena politica americana è dominata dallo scontro tra la Destra e l’Estrema Destra, con una sinistra quasi del tutto marginalizzata.

La retorica della sicurezza, alimentata da paure razziali, xenofobe e nazionaliste, è diventata il motore del discorso pubblico. Trump non ha fatto che rendere esplicito ciò che era già implicito da tempo: il razzismo strutturale, il suprematismo bianco, l’ossessione per la militarizzazione dei confini e la criminalizzazione del dissenso. L’uso del linguaggio disumanizzante contro gli immigrati e l’innalzamento dell’Estrema Destra a interlocutore politico legittimo segnano un passaggio decisivo. La sinistra, anche in questo, ha mancato di reagire con forza e coerenza. Non ha saputo difendere una propria narrativa valoriale, capace di coniugare giustizia sociale e dignità umana.

Eppure, la base progressista nel Paese esiste. Trump non ha mai goduto di un consenso maggioritario. Sondaggi condotti per anni da istituti come Pew e Gallup mostrano che la maggioranza degli americani si colloca su posizioni chiaramente progressiste: desidera una maggiore regolamentazione dell’industria finanziaria, ritiene la disuguaglianza economica un problema serio, vuole ridurre l’influenza del denaro nella politica. E non solo tra i Democratici: anche una fetta consistente degli elettori repubblicani condivide queste preoccupazioni. Il popolo americano è, nei fatti, più a sinistra della propria classe politica.

Tuttavia, la sinistra istituzionale ha mancato l’occasione storica di trasformare questo consenso potenziale in forza politica reale. La sua incapacità di articolare un racconto universale, di offrire una visione alternativa al capitalismo militarizzato, ha lasciato il campo libero alla narrazione egemonica della destra. Mentre i Repubblicani hanno costruito un immaginario reazionario, ma potente e coerente, la sinistra ha rinunciato a raccontare una storia di sicurezza vera, fondata sulla giustizia economica, sull’inclusione e sulla pace.

In questa assenza narrativa si è inserita la cultura del terrore, l’ideologia della minaccia costante, la trasformazione della politica in spettacolo securitario. Il “populismo” di destra, lungi dall’essere un fenomeno spontaneo, è l’effetto di una strategia che ha trovato terreno fertile nella debolezza della contro-narrazione. L’erosione della democrazia, l’ascesa dell’autoritarismo, il consolidamento di un nuovo fascismo americano non sono aberrazioni momentanee, ma tappe di un percorso strutturale di ridefinizione del potere.

Per ricostruire una vera alternativa, non basta denunciare gli eccessi del potere corporativo o l’odio dell’estrema destra. Occorre articolare una visione complessiva, capace di integrare la critica sistemica con un progetto di futuro. Serve una nuova grammatica politica, che non si limiti alla rappresentazione delle vittime, ma sappia costruire un soggetto collettivo capace di agire. Serve un’etica pubblica fondata sulla solidarietà, sulla dignità e sulla democrazia reale. Solo allora la sinistra potrà tornare ad essere protagonista.

Va inoltre compreso che senza una radicale revisione del paradigma economico — che rimetta al centro la redistribuzione della ricchezza, il controllo democratico dell’economia e la smilitarizzazione della sicurezza — nessun cambiamento politico sarà possibile. L'identità senza giustizia sociale si svuota; la rappresentanza senza progetto collettivo diventa solo un'altra faccia dello status quo. E la sinistra, se vuole sopravvivere, deve tornare a parlare non solo alle minoranze oppresse, ma alla totalità sociale, con un linguaggio di emancipazione universale.