La pratica dell’“othering”, ovvero l’identificazione di un gruppo come inumano e quindi non paragonabile al proprio, costituisce una strategia psicologica fondamentale per giustificare azioni disumane quali la sospensione dei diritti civili, la separazione di bambini dalle loro famiglie o persino lo sterminio di intere popolazioni. Questo meccanismo, analizzato fin dall’origine dagli studiosi di geopolitica critica, si è progressivamente diffuso dalla dimensione accademica a quella della cultura popolare, divenendo un elemento ricorrente nella narrazione mediatica e nell’immaginario collettivo contemporaneo.

Un esempio paradigmatico di questa dinamica è rappresentato dall’episodio “Men Against Fire” della serie Black Mirror del 2016, in cui la tecnologia è utilizzata per manipolare la percezione di un soldato: un impianto cerebrale gli impedisce di vedere l’umanità del nemico, descritto come “mutanti” o “scarafaggi”, figure disumanizzate che giustificano la violenza estrema. Quando l’impianto si guasta, il soldato si rende conto della reale natura delle sue vittime, appartenenti a una minoranza geneticamente discriminata, e prova orrore per i crimini commessi. Questo esempio dimostra come la cultura popolare non solo rifletta il processo di “othering”, ma ne sia anche consapevole, offrendo una critica implicita alle narrazioni geopolitiche dominanti.

La nascita e la diffusione della cultura popolare, contrapposta a quella “alta” o d’élite, rappresentano un altro elemento cruciale nella comprensione della diffusione di tali narrazioni. Mentre la cultura alta, storicamente riservata a pochi privilegiati e associata alle arti classiche e alla letteratura, si configurava come uno strumento di coesione sociale e di controllo simbolico, la cultura popolare si è sviluppata come fenomeno di massa accessibile e consumabile da un pubblico vasto e diversificato. L’invenzione della stampa, la diffusione della Bibbia nelle lingue vernacolari durante la Riforma protestante e la crescente prosperità del secondo dopoguerra sono momenti chiave che hanno contribuito a spostare l’autorità culturale dalle élite verso un pubblico più ampio.

La cultura popolare, pur spesso stigmatizzata come degradata o frivola dagli intellettuali, è oggi riconosciuta come un ambito in cui le distinzioni tra cultura alta e cultura di massa si fanno sfumate. L’interazione tra questi due mondi si manifesta nelle contaminazioni artistiche, nei fenomeni letterari e musicali e nella ridefinizione dei confini estetici. La pop art degli anni Cinquanta e Sessanta, le fusioni musicali tra rap e musica classica e l’ingresso di autori di genere nel dibattito accademico sono esempi di questa ibridazione.

È importante riconoscere che la cultura popolare è uno spazio cruciale per la formazione delle immaginazioni geopolitiche collettive. Attraverso film, serie televisive, musica, videogiochi e altri media, essa contribuisce a costruire narrazioni e simboli che influenzano la percezione dei conflitti, dei nemici e dei gruppi “altri”. L’analisi critica di questi prodotti culturali non solo rivela i meccanismi di manipolazione e disumanizzazione, ma permette anche di interrogare il nostro ruolo di spettatori e partecipanti attivi in questi processi.

L’attenzione ai contenuti mediatici, dunque, diventa fondamentale per smascherare le strategie che consolidano stereotipi e giustificano esclusioni e violenze. La riflessione sul rapporto tra cultura popolare e geopolitica offre strumenti per comprendere non solo le radici delle tensioni globali, ma anche le modalità attraverso cui esse vengono riprodotte e legittimate nella società. Il confronto con la complessità delle rappresentazioni culturali rende possibile una critica più profonda dei discorsi politici e un’apertura a forme alternative di narrazione e comprensione.

Comprendere la dinamica dell’“othering” nella cultura popolare implica anche riconoscere la sua dimensione psicologica e sociale: la deumanizzazione è un processo che disabilita l’empatia e normalizza la violenza. La consapevolezza critica di queste dinamiche può offrire una via per contrastare il ripetersi di tali meccanismi e per promuovere una cultura della solidarietà e del rispetto delle differenze. Solo attraverso un esame attento e consapevole dei media e delle narrazioni culturali si può sperare di trasformare la percezione del “diverso” da minaccia a opportunità di dialogo e arricchimento reciproco.

Come la globalizzazione trasforma la cultura popolare e la geografia culturale

La cultura popolare si radica profondamente in luoghi specifici e tradizionali, collegandosi a identità regionali e storiche definite come pre-moderne. Nella geografia culturale, la cultura popolare è sempre stata considerata vulnerabile alle pressioni della globalizzazione, un fenomeno complesso che intensifica le connessioni mondiali attraverso rivoluzioni nei trasporti e nelle telecomunicazioni degli ultimi trent’anni. Questo processo, noto come “compressione spazio-temporale”, riduce la percezione delle distanze relative tra i luoghi, permettendo un circolo più rapido e diffuso di beni, servizi e idee.

Questa intensificazione delle interazioni spaziali ha conseguenze ambivalenti per le economie locali. Da un lato, può favorire un arricchimento culturale attraverso la “fertilizzazione incrociata”, come si osserva nella diffusione globale di cucine etniche, musiche “mondiali” o fenomeni come la pratica dello yoga in Occidente. Dall’altro, tuttavia, la globalizzazione rischia di svuotare di significato gli elementi della cultura popolare, trasformandoli in meri prodotti per il consumo occidentale, privi delle loro radici locali e identitarie. Questo fenomeno si intreccia con l’orientalismo, una visione che contrappone il progresso e la universalità occidentali all’esotismo tradizionale dei “popoli altri”, relegati a un passato e a una regione specifica. Così, la cultura popolare diventa una sorta di “rullo compressore” che ingloba solo gli aspetti di culture locali che risultano commerciabili, distruggendo il resto sotto il peso di merci e intrattenimento moderni occidentali.

In particolare, questa dinamica è spesso associata all’imperialismo culturale americano, che promuove il libero scambio su scala globale ma secondo condizioni favorevoli ai propri interessi, dominando settori come Hollywood e l’industria musicale. Tale dominio mira a sostituire le culture locali, trasformando i popoli in semplici consumatori anziché produttori della propria cultura. Tuttavia, questa lettura non coglie appieno la complessità del fenomeno. La cultura popolare non si riduce mai unicamente al consumo di beni materiali, ma si manifesta nelle pratiche culturali che riflettono significati diversi a seconda dei contesti sociali e culturali. Come dimostrato da studi comparativi su programmi televisivi globali, ogni pubblico interpreta e riadatta i contenuti secondo le proprie esperienze e riferimenti, mantenendo così le differenze culturali anche nel quadro della globalizzazione.

Il rapporto tra cultura popolare, cultura alta e cultura popolare tradizionale evidenzia come questi ambiti si definiscano reciprocamente. La cultura popolare spesso è percepita come una minaccia, sia da parte delle élite che dalla comunità culturale, e tale percezione riflette le tensioni legate all’identità di chi produce, consuma e utilizza la cultura per i propri scopi. Attraverso la cultura popolare, le persone costruiscono e negoziano chi sono, chi desiderano diventare e come vogliono essere percepite nel mondo.

Le riflessioni della Scuola di Francoforte, influenzate dal marxismo classico, offrono un’analisi critica di questi processi. Per loro, la cultura popolare non può essere compresa senza considerare la struttura economica che la genera. L’industria culturale è vista come un sistema monolitico e anonimo che produce cultura standardizzata e mercificata, che, pur offrendo prodotti apparentemente globali, mantiene rapporti di potere e di dominio economico. Tale approccio sottolinea l’importanza di non limitarsi a osservare i contenuti culturali, ma di analizzare le condizioni di produzione e distribuzione c

Come si può studiare ciò che non è rappresentabile? Il dibattito sull’affetto e le geografie emotive

La ricerca sull’affettività si confronta con un paradosso intrinseco: tentare di rappresentare ciò che per natura è non rappresentabile. L’esperienza affettiva non si limita alla semplice emozione individuale, ma si radica in una percezione sensoriale sociale e diffusa dell’ambiente e delle relazioni che vi si intrecciano. Questo porta a una tensione metodologica tra chi studia l’affetto come fenomeno post-umano e ambientale, e chi invece sostiene la necessità di considerare la dimensione emotiva vissuta a livello personale e corporeo.

Il modello affettivo, secondo alcuni critici, tende a distanziare l’emozione dall’esperienza soggettiva individuale, relegando la dimensione personale a un ambito separato e meno rilevante rispetto alle agende pubbliche. Tale approccio riprende vecchie critiche femministe che denunciano la marginalizzazione del personale, dell’emotivo e del femminile a favore di una razionalità universale e maschile, dominante nelle scienze sociali. Secondo questi critici, includere il soggetto emotivo come centro dell’analisi apre nuove prospettive per comprendere il rapporto tra sé e luogo, valorizzando le dinamiche di potere più complesse e plurali che attraversano l’esistenza individuale.

Dal punto di vista delle geografie emotive, infatti, il potere non si esaurisce nell’infrastruttura ambientale che influenza le masse, ma si manifesta in molteplici forme, stratificate e contestate. Le figure di “terrorista”, “schiavo” o “internato” richiamano l’esigenza di mettere in discussione le rappresentazioni universali che spesso negano scelte reali e dimenticano storie e contesti specifici. Tuttavia, questa focalizzazione sull’individuo suscita perplessità tra i sostenitori dell’affetto, che sottolineano i rischi etici di un’indagine così intima e ravvicinata, e il pericolo di cadere in un fondamentale emotivo che idealizza l’autenticità esperienziale come qualcosa di irraggiungibile e quasi mistico.

Parallelamente, il ruolo dei media nelle geografie affettive viene spesso sottovalutato nella ricerca sull’affetto, che li considera semplicemente come parte dell’ambiente in cui si trasmettono messaggi. Questa visione riduttiva rischia di trascurare la complessità delle manipolazioni mediate, che incidono sulla nostra dimensione precognitiva, influenzando le nostre reazioni prima ancora che ce ne rendiamo conto. Un esempio emblematico è l’uso di profumi studiati per aumentare la spesa in casinò, dimostrando come l’ambiente possa essere progettato per modellare comportamenti e decisioni apparentemente autonome.

Tuttavia, questa prospettiva implica una passività totale dell’individuo, privato della capacità di resistere o deviare dagli effetti ambientali. Ciò richiama le critiche alle teorie classiche degli effetti mediatici, accusate di un modello ipodermico che attribuisce ai media un potere quasi magico di inoculare messaggi direttamente nella mente del pubblico. Il dibattito rimane aperto, soprattutto perché l’esperienza emotiva e affettiva del pubblico appare stratificata, molteplice e spesso sfuggente a un’analisi univoca.

All’interno di questo panorama emerge il ruolo centrale del complesso militare-industriale-mediatico-entertainment (MIME), ipotizzato come un potente attore nell’orchestrare scenari affettivi nei media popolari, capaci di promuovere risposte militaristiche e influenzare profondamente le percezioni collettive. La consapevolezza di tali dinamiche è cruciale per capire come si costruiscono gli ambienti affettivi e i significati geopolitici che ci coinvolgono.

È fondamentale considerare che l’affetto e l’emozione non sono solo fenomeni soggettivi ma processi sociali profondi, influenzati da strutture di potere complesse e da mediazioni tecnologiche che agiscono al di sotto della soglia della coscienza. La comprensione di queste dinamiche richiede un approccio critico che sappia integrare la dimensione corporea, personale, sociale e politica dell’esperienza affettiva. Solo così si può evitare una riduzione semplicistica che oscura la pluralità delle soggettività e la possibilità di resistenza.

Come il patrimonio vive attraverso il conflitto, la memoria e l’esperienza corporea

Il patrimonio non si riduce mai a un semplice oggetto o a un monumento isolato; esso prende forma in un gioco complesso tra istituzioni, individui e contesti sociali. Un esempio emblematico è il Vietnam Veterans Memorial di Washington, DC, che non celebra eroicamente la guerra, ma pone al centro la perdita e il sacrificio, sfidando così le tradizionali narrazioni di gloria militare. Questa scelta di design, inizialmente controversa, ha gradualmente conquistato il consenso popolare, dimostrando come il significato di un monumento possa evolvere nel tempo e riflettere cambiamenti culturali profondi.

Il patrimonio si manifesta inoltre come spazio di dibattito e conflitto. I monumenti ai Confederati negli Stati Uniti, oggetto di contestazioni accese negli ultimi decenni, sono meno un’eredità materiale e più una controversia su ideologie politiche radicate, come il suprematismo bianco. Questi monumenti non sono solo pietre o statue, ma simboli carichi di tensioni che evocano un passato controverso e che continuano a influenzare le dinamiche sociali contemporanee, come è emerso tragicamente durante la manifestazione di Charlottesville nel 2017. Qui, l’uso pubblico del patrimonio diventa il teatro di una lotta politica e culturale, rivelando quanto il passato non sia mai veramente passato.

L’approccio performativo al patrimonio evidenzia come il significato si costruisca nell’interazione materiale e corporea tra persone e oggetti. L’esperienza di un sito storico o di un museo è un evento dinamico, un assemblaggio in cui materiali, corpi e ricordi si influenzano reciprocamente. Partecipare a uno scavo archeologico, ad esempio, trasforma gli individui: i reperti non sono solo oggetti da studiare, ma agenti capaci di modificare la percezione e la relazione con la storia. In questo senso, il patrimonio si incarna nei corpi di chi lo vive, diventando memoria attiva pronta a riemergere e influenzare il presente.

Questa dimensione corporea del patrimonio spiega le reazioni emotive intense che monumenti come il Vietnam Veterans Memorial suscitano, o l’attaccamento quasi ossessivo per reperti materiali apparentemente insignificanti. Il passato diventa una forza che muove, divide e unisce, capace di veicolare significati geopolitici profondi, influenzando le identità collettive e le politiche sociali.

Un caso emblematico di come il patrimonio possa combinare molteplici funzioni è l’Australian War Memorial, che funge contemporaneamente da museo, santuario e centro di ricerca. Questo luogo esprime una tensione intrinseca: da una parte la sacralità del sacrificio, dall’altra la celebrazione della guerra come evento eroico. I visitatori, con i loro differenti atteggiamenti emotivi e cognitivi, contribuiscono a creare un assemblaggio unico ogni giorno, che trasforma l’esperienza museale in un evento vivo e mutevole. L’osservazione etnografica di questi incontri rivela come anche elementi apparentemente secondari, come l’illuminazione o i suoni ambientali, influenzino la percezione e il comportamento, sottolineando l’importanza del contesto materiale nella costruzione del significato del patrimonio.

È fondamentale comprendere che il patrimonio non è mai neutrale né statico: è un campo di forze, un processo in cui passato e presente si intrecciano, in cui le memorie collettive si esprimono e si trasformano attraverso corpi, materiali e pratiche sociali. Ogni interazione con il patrimonio ha il potere di modificare chi la vive, perpetuando e rielaborando continuamente l’eredità culturale. Il patrimonio è dunque una forma di politica vissuta, un mezzo attraverso cui si negoziano identità, poteri e valori in un contesto in costante evoluzione.

Come i media popolari influenzano la geopolitica e la percezione pubblica

La cultura popolare rappresenta un terreno cruciale dove si intrecciano identità, potere e narrazioni geopolitiche. Attraverso film, serie televisive, videogiochi e social media, si costruiscono e si diffondono significati che riflettono e, al contempo, plasmano la percezione collettiva di eventi, stati e conflitti. Non si tratta semplicemente di intrattenimento, ma di un processo complesso di produzione e consumo di messaggi che contribuiscono a definire immaginari geopolitici condivisi. La distinzione tra cultura alta e cultura popolare è sempre meno netta: la cultura pop diventa così veicolo di idee, stereotipi, e forme di potere che si manifestano non solo nelle grandi narrazioni ufficiali, ma nella vita quotidiana.

Il concetto di geopolitica popolare, o popular geopolitics, si concentra proprio su come gli individui e le comunità interpretano e partecipano a discorsi geopolitici attraverso la cultura di massa. È fondamentale comprendere che questa dimensione è caratterizzata da una polifonia di voci e da una continua intertestualità: film come Rocky IV o Red Dawn non sono solo opere cinematografiche, ma riflettono e alimentano visioni del mondo legate a guerre, tensioni politiche e ideologie. La cultura popolare genera così “immagini geopolitiche” che influenzano i comportamenti e le convinzioni del pubblico, contribuendo a una sorta di “banal nationalism”, un nazionalismo quotidiano e diffuso.

Parallelamente, l’avvento dei nuovi media e, in particolare, dei social network ha trasformato radicalmente lo scenario. La digitalizzazione ha aumentato la circolazione delle immagini e delle narrazioni, permettendo una partecipazione più attiva da parte degli individui. Tuttavia, questa democratizzazione dell’informazione è accompagnata da sfide etiche e politiche: la diffusione di fake news, le interferenze elettorali e le campagne di disinformazione diventano strumenti geopolitici nel nuovo teatro digitale. L’analisi critica dei media sociali rivela come questi siano un campo di battaglia per la costruzione della verità e del potere, in cui si giocano la reputazione degli stati e la legittimità delle azioni politiche.

L’interrelazione tra discorso, rappresentazione e potere è centrale per comprendere come la cultura popolare e i media operino come spazi geopolitici. La rappresentazione non è mai neutra; essa costruisce soggettività e identità, definisce “l’altro” e legittima o sfida narrazioni ufficiali. Le teorie poststrutturaliste e di studi culturali, influenzate da Foucault e Lacan, offrono strumenti indispensabili per analizzare come il potere si eserciti attraverso il linguaggio e le immagini. Le narrazioni pubbliche, siano esse filmiche o digitali, plasmano la percezione della realtà, creando un’ontologia narrativa che può essere sia esplicita che sottile.

Inoltre, la dimensione geopolitica della cultura popolare si riflette nei simboli e nelle pratiche della vita quotidiana, come gli eventi sportivi globali (ad esempio le Olimpiadi o i Mondiali di calcio) che diventano palcoscenici di rappresentazioni nazionali e rivalità geopolitiche. Anche l’arte pop, i fumetti, i videogiochi e le serie televisive contribuiscono a questa dinamica, offrendo spesso rappresentazioni idealizzate o distorte di identità e conflitti, ma che sono parte integrante del modo in cui le società si raccontano e si comprendono.

Importante è altresì la comprensione delle diverse modalità di ricerca su questi fenomeni: dall’osservazione partecipante ai metodi qualitativi e quantitativi, la ricerca sui media e la cultura popolare richiede un approccio interdisciplinare e riflessivo. Le questioni etiche, la partecipazione degli audience e la circolazione dei testi e delle immagini sono elementi centrali per un’analisi approfondita.

Oltre alle riflessioni sulla costruzione delle narrazioni e sul potere dei media, è fondamentale per il lettore comprendere che questi processi si inscrivono in un contesto più ampio di rapporti di forza globali, di storie coloniali e postcoloniali, di identità nazionali e transnazionali. Le rappresentazioni e i discorsi culturali si intersecano con realtà materiali, istituzionali e politiche, influenzando le percezioni pubbliche, le politiche statali e le dinamiche internazionali.