Nel mondo degli affari, spesso si presume che il contratto sia semplicemente un accordo scritto che vincola legalmente le parti a mantenere le promesse scambiate. Questa visione, nota come "teoria della volontà", considera il contratto come l’espressione giuridica di due volontà autonome che, al momento della stipula, decidono cosa devono fare e cosa riceveranno in cambio. Secondo questa prospettiva classica, le obbligazioni nascono esclusivamente dal contenuto esplicito delle promesse, senza alcuna influenza esterna. Ma questa rappresentazione è tanto elegante quanto artificiale.

Ian Macneil, una delle figure centrali nella moderna scienza dei contratti, ha messo in discussione in modo radicale questa concezione. Per Macneil, un contratto non è mai solo un insieme di promesse: è un’espressione concreta di una relazione tra persone che hanno scambiato, stanno scambiando o prevedono di scambiare beni, servizi o altro valore in futuro. In questa prospettiva, lo scambio è necessariamente immerso in un contesto sociale e temporale, dove le norme, le aspettative e i comportamenti reciproci hanno un peso tanto rilevante quanto le clausole scritte.

Macaulay, in una ricerca che ha precorso questo approccio, osservava che nel mondo reale degli affari la legge ha un ruolo meno centrale di quanto molti giuristi vorrebbero ammettere. Le imprese operano in un contesto fatto di relazioni personali, norme sociali condivise, pressioni di gruppo e meccanismi sanzionatori informali. Tali dinamiche influenzano profondamente il modo in cui le parti si comportano nei rapporti commerciali. I contratti, quindi, non sono entità isolate, ma esistono e funzionano all’interno di un tessuto sociale che ne condiziona l’efficacia.

Durkheim già nel XIX secolo aveva riconosciuto che il contratto è la massima espressione giuridica della cooperazione sociale. Questa cooperazione, tuttavia, non può esistere senza fiducia reciproca, senza la capacità di prevedere che l’altra parte manterrà il proprio impegno anche in assenza di una coercizione immediata. Da ciò nasce l’esigenza di riconoscere e valorizzare la funzione sociale del contratto.

Uno degli aspetti centrali della teoria relazionale di Macneil è il riconoscimento che lo scambio contrattuale si estende nel tempo. Questo elemento temporale introduce un’incertezza fondamentale: come può una parte fidarsi dell’altra, soprattutto quando le prestazioni non sono simultanee? Il fornitore che consegna oggi un bene, può davvero essere certo che il compratore pagherà tra un mese? È qui che entrano in gioco le norme sociali di reciprocità e solidarietà.

La reciprocità impone di restituire ciò che si è ricevuto. La solidarietà richiede di tenere in considerazione l’interesse dell’altro. Queste norme non sono formalizzate nei testi contrattuali, ma sono attivate nel momento stesso in cui si entra in una relazione contrattuale. Esse costituiscono la base invisibile ma essenziale su cui si fondano molte delle transazioni economiche, specialmente quando le condizioni sono mutevoli o l’ambiente è incerto.

Macneil sostiene che ogni contratto contiene, in misura diversa, elementi relazionali. Non esistono, in pratica, contratti puramente "discreti", ossia del tutto isolati dal contesto, così come non esistono contratti completamente "relazionali". Ogni scambio si colloca lungo uno spettro che va da un’estrema discrezionalità (es. transazioni spot, isolate e completamente definite) fino a una profonda relazionalità (es. rapporti continuativi, dove le clausole si adattano nel tempo alle esigenze emergenti).

Questa comprensione del contratto come istituzione sociale porta con sé implicazioni fondamentali. In primo luogo, rende evidente che la redazione di un contratto non può prescindere dalla comprensione del contesto in cui esso opererà. In secondo luogo, obbliga i professionisti del contracting a considerare non solo gli obblighi giuridici, ma anche quelli impliciti, derivanti dalle aspettative e dalle pratiche condivise tra le parti. Infine, rivela che l’efficacia contrattuale non deriva solo dalla chiarezza delle clausole, ma dalla capacità del contratto di gestire l’incertezza attraverso la fiducia e la cooperazione.

Non comprendere questo aspetto sociale, ignorare le forze relazionali che influenzano i comportamenti delle parti, significa esporsi a fallimenti contrattuali anche in presenza di documenti giuridicamente ineccepibili. La forma legale da sola non basta: è la sostanza del rapporto, nutrita da norme sociali e da dinamiche relazionali, a determinare il successo o l’insuccesso del contratto.

È fondamentale, per chiunque si occupi di contrattualistica, superare la visione puramente formalista del contratto. Occorre sviluppare una sensibilità verso i segnali sociali, le aspettative implicite e le norme culturali che regolano ogni relazione economica. Un contratto efficace non è solo quello che

Perché i contratti sono incompleti e come questa incompletezza influenza le relazioni economiche?

La premessa fondamentale su cui si basa gran parte della teoria economica dei contratti è che gli esseri umani agiscono sempre nel proprio interesse egoistico. Questa condizione inevitabilmente genera conflitti di interesse tra le parti coinvolte in un accordo, con conseguenti inefficienze non solo tra i partner commerciali, ma nel mercato nel suo complesso. Da qui nasce una delle domande centrali della teoria economica: dove e come emergono queste inefficienze e in che modo possono essere mitigate o evitate? La teoria dei contratti, l’economia istituzionale e la teoria dei giochi ripetuti rappresentano tre approcci fondamentali che contribuiscono alla comprensione dei meccanismi contrattuali, ma non esauriscono il quadro, soprattutto perché non tengono conto di come gli individui si comportano realmente, al di là del solo interesse personale.

La teoria dei contratti, particolarmente sviluppata da studiosi come Oliver Hart e Bengt Holmström — premi Nobel per l’economia nel 2016 — si concentra sul ruolo del contratto come strumento per attenuare i conflitti tra gli interessi delle parti coinvolte. Questa disciplina, spesso espressa attraverso modelli matematici complessi, mira a individuare soluzioni contrattuali ottimali in termini di massimizzazione del valore complessivo dello scambio. Tuttavia, la pratica quotidiana di chi negozia e redige contratti difficilmente può fare affidamento su questi modelli rigorosi, poiché essi si basano su assunzioni ideali e raramente riscontrabili nella realtà.

Nel cuore delle riflessioni di Hart vi è la consapevolezza che i contratti nascono soprattutto per gestire la dipendenza tra le parti, che si genera attraverso investimenti specifici legati alla relazione commerciale. Questi investimenti, detti “relationship-specific”, sono beni o risorse che una parte mette a disposizione per soddisfare le esigenze dell’altra, creando così un legame di dipendenza. Un esempio classico è quello di un produttore contrattuale che investe in macchinari o in know-how specifico per un cliente. Se la relazione si prolunga senza un contratto formale, il cliente rischia di trovarsi vincolato in modo oneroso, poiché cambiare fornitore significherebbe sostenere costi elevati.

Questo scenario dà origine al cosiddetto problema del “hold-up”: una parte potrebbe sfruttare la dipendenza dell’altra per imporre condizioni meno favorevoli, come un aumento del prezzo o modifiche unilaterali nei termini della collaborazione. Per il produttore contrattuale, invece, la pressione può derivare dal timore di perdere un cliente strategico e, di conseguenza, dover chiudere impianti o licenziare personale. La funzione primaria del contratto è dunque quella di prevenire o limitare questo tipo di abuso, definendo diritti e doveri riguardo alle risorse coinvolte.

Nonostante questa funzione, tutti i contratti sono inevitabilmente incompleti. Ciò significa che non è possibile definire in modo esaustivo e definitivo ogni possibile situazione o comportamento delle parti. Questa incompletezza si manifesta in due modi principali: da un lato, il contratto può semplicemente omettere alcuni aspetti, sia per errore sia per scelta; dall’altro, le parti possono aver espresso le loro intenzioni, ma con modalità comunicative che generano fraintendimenti o ambiguità. Studi empirici confermano che molti accordi commerciali risultano vaghi su ambiti fondamentali come l’ambito di applicazione o le responsabilità del fornitore, dando luogo a controversie.

La ragione fondamentale di questa incompletezza è legata a vincoli di tempo e risorse. Spesso i negoziatori sono sotto pressione temporale e non hanno la possibilità di anticipare ogni scenario futuro né di definire dettagliatamente ogni possibile evenienza. Anche in presenza di tempo sufficiente, il costo per redigere contratti completi e senza ambiguità sarebbe proibitivo. Ancora più importante, l’incertezza stessa del futuro rende impossibile prevedere tutte le situazioni contingenti, specialmente in accordi a lungo termine.

Questa incompletezza contrattuale non è quindi un difetto accidentale, ma una caratteristica strutturale della maggior parte degli accordi commerciali. È fondamentale per chi opera nel campo della contrattazione comprendere che il contratto rappresenta sempre un compromesso tra la necessità di definire regole chiare e la realtà pratica e dinamica delle relazioni commerciali. La gestione di queste incompletezze richiede competenze non solo legali, ma anche strategiche e relazionali, per evitare che le ambiguità diventino fonte di conflitti gravi o di inefficienze economiche.

Inoltre, va sottolineato che la teoria economica tradizionale, sebbene fornisca strumenti preziosi per analizzare queste dinamiche, deve essere integrata da approcci più realistici che considerano come le persone effettivamente si comportano, spesso influenzate da fattori psicologici e sociali, e non solo dal calcolo razionale del proprio interesse. Questo apre la strada a ulteriori riflessioni e sviluppi, come quelli offerti dall’economia comportamentale, che verranno approfonditi nelle fasi successive dello studio.

Qual è il ruolo della psicologia nei contratti e nell’economia comportamentale?

Le teorie economiche classiche e giuridiche presuppongono che le organizzazioni rispettino gli obblighi contrattuali principalmente perché (1) sono motivate da interessi materiali e (2) il contratto è legalmente vincolante. Questa visione, tuttavia, si rivela limitata e riduttiva rispetto alla complessità reale delle motivazioni umane. Nel contesto economico moderno, è fondamentale riconoscere quanto questa semplificazione sia fallace. Se da un lato gli interessi materiali giocano un ruolo rilevante, dall’altro motivazioni sociali, quali il senso di equità e le spinte intrinseche, spesso risultano più determinanti per il successo delle relazioni contrattuali. Un’eccessiva enfasi sugli interessi materiali può persino rivelarsi controproducente, minando la fiducia e la collaborazione necessarie.

L’introduzione della psicologia e dell’economia comportamentale ha fornito un nuovo paradigma per comprendere il comportamento umano nei contratti. Richard Thaler, figura chiave di questa disciplina, ha rivoluzionato la visione tradizionale criticando il modello economico basato sull’“Econ”, una costruzione astratta che rappresenta l’individuo come perfettamente razionale e opportunista. Thaler, invece, ha spostato l’attenzione sugli “Humans”, ovvero persone reali caratterizzate da razionalità limitata e motivazioni più complesse. Questa distinzione ha profonde implicazioni per il modo in cui i contratti dovrebbero essere concepiti e applicati.

Uno degli apporti più significativi dell’economia comportamentale proviene da Daniel Kahneman e Amos Tversky, i quali hanno studiato le distorsioni cognitive che influenzano le decisioni umane. La loro ricerca ha introdotto la teoria del prospetto, che mette in luce come le persone valutino guadagni e perdite in maniera non lineare e spesso irrazionale. Queste scoperte evidenziano che le decisioni non sono sempre frutto di calcoli ponderati e obiettivi, ma sono soggette a bias cognitivi che possono alterare il comportamento contrattuale e le negoziazioni.

In questo contesto, la psicologia del contracting non si limita a spiegare perché i contratti possono fallire o avere inefficienze, ma offre strumenti preziosi per la loro progettazione. La comprensione delle motivazioni sociali, come il bisogno di giustizia e riconoscimento, così come delle tendenze cognitive umane, permette di strutturare accordi più resilienti e adattivi, capaci di reggere anche in situazioni di incertezza e cambiamento. Inoltre, riconoscere che molte relazioni commerciali si basano su contratti relazionali piuttosto che su rigidi contratti scritti, implica una gestione più attenta della fiducia e della comunicazione.

Parallelamente, è importante ricordare che le trasformazioni tecnologiche, come l’avvento di internet e le nuove forme di comunicazione, hanno rivoluzionato la natura stessa delle imprese e delle relazioni contrattuali. Questi cambiamenti hanno favorito modelli organizzativi più frammentati, come la gig economy, che pongono nuove sfide sia sul piano economico sia su quello psicologico. La capacità di adattarsi a queste dinamiche richiede una visione integrata che combini economia, diritto e psicologia.

Il lettore dovrebbe inoltre considerare che i contratti non sono solo strumenti di controllo economico, ma anche dispositivi sociali che riflettono e influenzano le norme, le aspettative e le relazioni di potere tra le parti. La gestione efficace di tali aspetti richiede sensibilità alle variabili comportamentali, culturali e istituzionali che si intrecciano nelle dinamiche contrattuali. Una profonda comprensione di questi elementi contribuisce a ridurre conflitti, incrementare la cooperazione e costruire vantaggi competitivi sostenibili nel lungo termine.

Come la lealtà e l'onestà alimentano la fiducia nelle relazioni aziendali: principi fondamentali per il successo

Il concetto di autonomia, insieme ad altri principi chiave come l'onestà e la lealtà, rappresenta una base fondamentale per una gestione sana e creativa dei conflitti e per l'innovazione nelle relazioni aziendali. L'autonomia, intesa come la capacità di operare senza l’imposizione della propria volontà sull'altro, rinforza la fiducia tra le parti. Quando una delle parti più forti sceglie di non usare la propria forza, manifesta la fiducia che l’altra parte agirà nel reciproco interesse. Questo principio può portare a soluzioni più creative e, in definitiva, favorire una maggiore collaborazione e un'innovazione reciproca.

L’onestà è un valore che permea ogni aspetto delle relazioni interpersonali e aziendali. È spesso riscontrato che in nome della praticità, adulti e organizzazioni giustifichino piccole menzogne o scelte di non affrontare la realtà in modo diretto. Tuttavia, la ricerca di Dan Ariely, professore di psicologia ed economia comportamentale, sottolinea come l’onestà nelle relazioni aziendali sia fondamentale per mantenere la trasparenza e la fiducia reciproca. Ariely evidenzia anche il pericolo che la disonestà diventi una norma sociale nelle pratiche quotidiane, come accaduto in episodi emblematici come il fallimento di Enron. Il tradimento della fiducia non ha solo effetti immediati, ma produce anche un contagio che può pervadere l'intero ambiente lavorativo. Il comportamento disonesto, anche se in apparenza insignificante, può deteriorare gravemente l'intera cultura aziendale, portando a un circolo vizioso di sfiducia e opportunismo.

Ariely esorta le organizzazioni a denunciare e affrontare subito le menzogne. Non si tratta solo dell'impatto di una singola trasgressione, ma del modo in cui la disonestà, se non contrastata, può minare l'intera struttura relazionale. La verità in un contesto aziendale crea un ambiente in cui la fiducia può prosperare, mentre la disonestà crea diffidenza, impedendo di fatto una collaborazione genuina e il superamento del cosiddetto “WIIFM” (What’s In It For Me, “Cosa c’è per me?”).

La lealtà, invece, è essenziale per la costruzione di relazioni di valore. Essa non implica un’obbedienza cieca a una parte, ma piuttosto il rispetto e la cura per la relazione come entità indipendente, che richiede pari attenzione agli interessi reciproci. La lealtà promuove un equilibrio tra rischi e benefici, e garantisce che le risorse vengano allocate in modo equo. Non si tratta di sostenere l’altra parte a prescindere, ma di mantenere la relazione in equilibrio, favorendo la sua evoluzione positiva e sostenibile. La lealtà permette alle parti di superare interessi individuali immediati, mirando a risultati che siano vantaggiosi a lungo termine per entrambe le parti coinvolte.

Il concetto di lealtà si estende alla gestione del rischio e delle risorse. Tradizionalmente, le parti coinvolte in una negoziazione tendono a spostare il rischio sull’altra, senza considerare se sia la parte più forte o quella più debole a poter gestirlo meglio. Tuttavia, questo approccio non sempre si rivela vantaggioso, poiché trasferire i rischi senza un’adeguata capacità di mitigazione non li elimina, ma spesso li accentua. Un approccio basato sulla lealtà suggerisce di allocare il rischio alla parte che ha le migliori capacità per gestirlo in modo economico e efficace. In molti casi, il trasferimento dei rischi non è altro che un escamotage per aumentare i costi del progetto senza alcun beneficio reale. La lealtà implica quindi che le parti si impegnino in una gestione condivisa e trasparente dei rischi.

Inoltre, la lealtà può contribuire a ridurre le asimmetrie informative che spesso affliggono le relazioni d’affari. Quando una parte possiede più informazioni dell’altra, si generano costi di transazione più elevati, poiché la parte meno informata deve fare sforzi supplementari per ottenere dati utili. La trasparenza, che nasce da un impegno leale, aiuta a ridurre questi costi, migliorando la qualità delle decisioni e, di conseguenza, rafforzando la fiducia reciproca.

Il principio di equità, anch’esso cruciale nelle relazioni aziendali, si fonda sull’idea che le risorse debbano essere distribuite in modo proporzionale agli sforzi e ai rischi assunti da ciascuna parte. Sebbene una divisione equa delle risorse possa sembrare la soluzione più ovvia, l'equità va oltre una semplice spartizione 50/50. Essa si prefigge di garantire che i benefici e i carichi siano distribuiti in modo che ciascuna parte riceva una compensazione proporzionata ai suoi contributi e risorse investite. La percezione di equità aiuta a prevenire conflitti e tensioni, poiché ciascuna parte riconosce l’importanza di rispettare gli altri e di contribuire in modo equo alla relazione.

L’integrità è l'elemento finale che completa il quadro delle relazioni aziendali. Senza integrità, le relazioni perdono credibilità. Essa implica una coerenza tra decisioni, parole e azioni. Le decisioni devono essere prese in modo uniforme e giusto, sia a livello individuale che collettivo. Quando manca l’integrità, le parti coinvolte perdono fiducia nelle capacità e nel buon senso reciproco, riducendo la capacità di risolvere problemi e di affrontare le sfide in modo collaborativo.

In definitiva, l’onestà, la lealtà, l’equità e l’integrità non sono solo principi astratti; sono le fondamenta che supportano una relazione d'affari di successo e sostenibile. Essi non solo contribuiscono a ridurre conflitti e incomprensioni, ma favoriscono anche un ambiente di lavoro in cui la fiducia reciproca e la trasparenza diventano il motore dell’innovazione e del progresso.