Il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi plasma profondamente il nostro benessere. I pensieri che coltiviamo, specialmente quelli legati alla nostra percezione di sé, influenzano in modo diretto il nostro equilibrio emotivo. Non sempre è necessario modificare le convinzioni più radicate: a volte è sufficiente ridurne l'influenza, cambiando il modo in cui ci vediamo. L’autocompassione è il primo passo. Significa trattarsi con gentilezza, indulgenza, comprensione. Significa riconoscere che la perfezione non è umana e che ogni errore rappresenta un'opportunità per apprendere, non una condanna da scontare.
Come ha affermato il Dalai Lama, la compassione non è completa se non è rivolta anche verso se stessi. È facile travisare l’autocompassione come egoismo, ma la realtà è opposta: proprio come nelle istruzioni di emergenza sugli aerei, bisogna indossare prima la propria maschera d’ossigeno per poi aiutare gli altri. Non si può amare davvero qualcuno se prima non si riesce ad amare sé stessi. Senza autocompassione, anche l’empatia per l’altro diventa parziale, superficiale, strumentale.
In molti cercano di mantenere un’immagine di sé impeccabile nascondendo i propri difetti. Ma è proprio nella capacità di osservare i propri limiti con lucidità e tenerezza che si manifesta la forza dell’autocompassione. Non conduce a una spirale discendente: al contrario, è associata a una migliore salute mentale e a una maggiore soddisfazione nella vita.
La ricerca ha anche mostrato che gli approcci cognitivi tradizionali non sempre funzionano per ridurre l’autocritica. Uno studio del 2010 ha evidenziato che un eccesso di pensiero negativo può peggiorare con certi tipi di formazione cognitiva. È necessario quindi un approccio più profondo, trasformativo, che vada oltre le tecniche convenzionali.
Coltivare l’autocompassione richiede un allenamento interiore basato su alcune pratiche fondamentali. La prima è il perdono: smettere di punirsi per gli errori, riconoscere che il valore personale non dipende dalla perfezione, ma dalla capacità di affrontare le difficoltà con umanità. Il senso di autostima non dovrebbe derivare esclusivamente dai risultati, ma dalla consapevolezza della propria dignità intrinseca. Portare con sé un promemoria fisico — una frase scritta su un biglietto, una nota nel portafoglio — può aiutare a ricordarsi di trattarsi con dolcezza anche nei momenti di insuccesso.
La seconda pratica consiste nell’abbracciare una mentalità di crescita, come descritto dalle ricerche di Carol Dweck. Invece di percepire gli ostacoli
Come praticare la compassione verso se stessi attraverso l’umanità condivisa
L’idea di far parte di qualcosa di più grande di noi è un tema ricorrente nella letteratura psicologica e risponde a una necessità intrinseca della natura umana: il desiderio di connessione (Maslow, 1943). Vedere la nostra esperienza individuale come radicata in un’esperienza umana più ampia, anziché percepirci come entità separate o isolate, è ciò che definisce l’umanità condivisa (Neff, 2003a). Questo atteggiamento implica un’accettazione e un perdono verso le proprie debolezze, riconoscendo che non siamo esseri infallibili ma meritevoli di compassione (Brown, 2010). Tale consapevolezza si estende anche all’accettazione del fatto che non siamo soli nell’imperfezione o nel dolore, comprendendo che molti altri condividono simili sentimenti senza che ciò comporti isolamento (Gilbert & Irons, 2005).
Secondo la Self-Compassion Scale (Neff, 2003b), sviluppare questa prospettiva implica considerare i propri limiti come elementi naturali dell’essere umano, riconoscere che tali difficoltà sono esperienze universali e ricordarsi che anche gli altri possono sentirsi insicuri o inferiori. La pratica della compassione verso se stessi si colloca idealmente in un equilibrio fra tre polarità teoriche: la gentilezza verso sé stessi contrapposta al giudizio critico; il senso di appartenenza alla comunità umana opposto all’isolamento; e la consapevolezza mentale (mindfulness) equilibrata fra evitamento e sovra-identificazione con il dolore (Barnard & Curry, 2011).
Intraprendere il cammino verso l’auto-compassione può richiedere un cambio di prospettiva radicale, perché le nostre risposte abituali al dolore e alle emozioni negative sono spesso automatiche e condizionate (Neff, 2019). La compassione verso sé stessi non si basa su un immediato benessere emotivo, ma su un’attività intenzionale di buona volontà: riconoscere la difficoltà del momento e rispondere con grazia e considerazione, consapevoli che l’imperfezione fa parte della condizione umana.
Un punto di partenza efficace è trattarsi come tratteremmo un amico caro: riconoscere che, proprio come non giudicheremmo severamente un amico in difficoltà o in errore, possiamo concederci lo stesso rispetto e accettazione. Permettere a sé stessi di essere umani significa liberarsi dall’identificazione totale con errori o emozioni negative, ricordandosi che queste non definiscono il nostro valore intrinseco (Abrams, 2017). A questo si aggiunge la cura gentile verso sé stessi, che può manifestarsi anche in gesti simbolici di auto-conforto, come un tocco leggero o parole dolci, attivando così meccanismi neurobiologici positivi (Hamilton, 2010).
Un’attività essenziale per coltivare la compassione è diventare più consapevoli del proprio dialogo interiore, osservando i pensieri senza giudicarli ma aprendosi a formulare affermazioni liberatorie, come “È normale che io mi senta così” invece di “Sono una cattiva persona”. Questo processo favorisce il distacco dall’autocritica distruttiva e promuove l’accettazione di sé, con i propri difetti e pregi, senza sovra-valutare gli aspetti negativi (Morgado et al., 2014; Neff, 2010).
La pratica della mindfulness si rivela centrale, poiché aiuta a mantenere l’attenzione al presente con un atteggiamento non giudicante, utilizzabile in ogni momento attraverso tecniche come la respirazione profonda o esercizi di meditazione guidata, inclusa la ‘pausa di auto-compassione’ suggerita da Neff.
È importante anche evitare giudizi affrettati su se stessi, lasciando spazio al dubbio costruttivo e alla possibilità che il nostro comportamento possa cambiare in futuro (DiPirro). Ampliando lo sguardo, ricordare la nostra connessione con gli altri ci aiuta a vedere i problemi nel contesto più vasto dell’esperienza umana, alleviando la pressione del giudizio sociale e del bisogno di validazione esterna (Neff, 2011).
Infine, mantenere relazioni e confrontarsi con gli altri consente di contenere le emozioni dolorose e confermare la nostra appartenenza a una rete sociale di sostegno, fondamentale per il benessere psicologico.
Oltre a quanto esposto, è cruciale comprendere che la compassione verso sé stessi non è un atto di indulgenza o passività, ma una pratica attiva e resiliente che sostiene la crescita personale e l’equilibrio emotivo. Sviluppare questa capacità richiede tempo, pazienza e pratica costante, poiché va contro molti automatismi mentali che tendono alla critica e all’isolamento. È altresì fondamentale riconoscere che l’auto-compassione alimenta una maggiore capacità di empatia verso gli altri, creando un circolo virtuoso di umanità condivisa. La compassione verso sé stessi, quindi, non solo allevia la sofferenza personale, ma diventa una pietra angolare per una vita più autentica e relazioni più profonde.
Come si può vivere meglio imparando a ridurre il perfezionismo?
Il nostro benessere personale incide direttamente sulla qualità della nostra vita e sul nostro rendimento lavorativo. Tuttavia, spesso trascuriamo la nostra salute finché non diventa un problema urgente. Quando dormiamo a sufficienza, mangiamo in modo più equilibrato e ci muoviamo anche solo moderatamente, ci sentiamo più felici, energici, produttivi. Il benessere non è un lusso, ma una base necessaria.
Occorre anche ridurre l’esposizione alle “tossine”, non solo quelle chimiche ma soprattutto quelle emotive. Le persone negative, lamentose o con atteggiamenti distruttivi, influenzano profondamente il nostro stato d’animo. Se non possiamo evitarle del tutto, dobbiamo limitarne l’impatto, creare confini, e scegliere di circondarci — quanto più possibile — di persone costruttive, entusiaste e aperte.
Il tempo trascorso da soli è spesso sacrificato, ma è fondamentale per abbassare la tensione, aumentare la creatività e la soddisfazione interiore. Bastano pochi minuti al giorno: meditazione, disegno, respirazione consapevole, yoga o semplice silenzio. È un ritorno all’ascolto di sé.
Le relazioni autentiche richiedono intenzionalità. Non basta condividere uno spazio, bisogna condividere presenza. Guardare un film con un familiare non è lo stesso che parlarci davvero. Un caffè con un amico, una passeggiata con un figlio, una conversazione sincera con il partner possono trasformare il nostro quotidiano.
Concedersi un piccolo piacere non è superficialità: è cura. Un massaggio, un bicchiere di vino buono, una candela profumata o una passeggiata tra i fiori sono gesti che ci ricordano che meritiamo gentilezza, anche — e soprattutto — da noi stessi.
Esplorare il mondo è riscoprire la meraviglia. Camminare senza meta, osservare, scegliere una strada nuova, fotografare, guardare i bambini giocare: tutto questo ci riporta a uno stato di presenza vitale. Non serve andare lontano, serve guardare meglio.
Espandere la coscienza significa apprendere. Imparare a dipingere, ascoltare musica che ci smuove dentro, leggere qualcosa che risveglia la curiosità. La mente si nutre di stimoli, ma ha bisogno anche di silenzio per elaborare e trasformare.
Il gioco, il riso, la leggerezza non sono accessori dell’infanzia. Sono strumenti di sopravvivenza per l’adulto. Ritrovare l’umorismo, ridere di cuore, concedersi momenti di gioia sciocca è una forma di resistenza alla rigidità del mondo.
Ma per godere davvero della vita, bisogna affrontare la zavorra del perfezionismo. Riconoscere i propri schemi mentali è il primo passo. Quali convinzioni ci portano a volere il controllo assoluto? Dove si annida l’idea che solo l’eccellenza totale meriti rispetto o affetto?
Bisogna identificare comportamenti specifici e immaginare alternative concrete. Se ci aspettiamo che ogni dettaglio sia impeccabile, stiamo imponendo agli altri — e a noi stessi — standard disumani. Imparare a lasciar correre ciò che non è essenziale è un atto di libertà.
Il perfezionismo ha un costo: relazioni danneggiate, ansia, comportamenti compulsivi. Ann

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