L’idea che la sinistra progressista favorisca un modello gerarchico invisibile, con uomini bianchi privilegiati “al piano di sopra” e la maggioranza delle persone — in particolare donne, nere e marroni — relegata “al piano di sotto”, emerge come una critica importante. Le politiche di identità della sinistra spesso sembrano contraddire i propri valori progressisti, perché rinunciano a un’analisi più profonda del capitalismo, elemento che Martin Luther King indicava come la radice che lega razzismo, sfruttamento economico e militarismo. King stesso, poco prima della sua uccisione, aveva espresso la necessità di una sintesi tra politica di classe e identità, riconoscendo che è impossibile sradicare una forma di oppressione senza affrontare le altre.
Quando la politica identitaria perde di vista temi universalistici e rinforza tribalismi, alimenta la paura e la creazione di “nemici” artificiali da parte delle élite dominanti. Questo indebolisce i movimenti antirazzisti e femministi, dividendo i lavoratori secondo razza e genere, nonostante i loro interessi sociali ed economici comuni. In questo modo, si mina la storica universalità della sinistra, spianando la strada a un nazionalismo basato sulla paura degli “altri”.
Un altro aspetto centrale è la maniera in cui molti progressisti, inclusi alcuni influenti giornalisti liberal, accettano senza critica la narrazione securitaria che vede la Russia come nemico principale. Sebbene l’ingerenza russa nelle elezioni del 2016 sia un problema serio, l’ossessione mediatica per la “minaccia russa” alimenta un nuovo clima di Guerra Fredda, in cui il dibattito pubblico si restringe e si demonizza qualunque voce dissonante. Questo atteggiamento contrasta con l’eredità di scetticismo critica verso le politiche imperialiste e di sicurezza che un tempo caratterizzava molte correnti di sinistra.
La demonizzazione di avversari esterni ignora spesso la storia reale di come gli Stati Uniti abbiano creato i loro “nemici” attraverso interventi militari e politiche imperialiste. La cacciata di Mohammed Mossadegh in Iran nel 1953, sostenuta dagli USA, ha generato la reazione violenta del regime autoritario del Shah e, successivamente, la rivoluzione religiosa antiamericana. L’invasione dell’Iraq nel 2003 ha prodotto un terreno fertile per la nascita di gruppi terroristici come ISIS, che sono dirette conseguenze della destabilizzazione provocata dall’intervento statunitense. Analogamente, le ingerenze e le guerre in America Latina e in altre regioni hanno creato una diffusa ostilità verso gli Stati Uniti, che viene poi utilizzata per giustificare ulteriori politiche securitarie e conflitti.
La sinistra americana, però, raramente educa il pubblico su questa dinamica. I movimenti pacifisti di massa degli anni ’60, che avevano avuto un ruolo cruciale nel mettere in discussione la guerra e l’imperialismo, sono quasi scomparsi. Di conseguenza, gran parte della sinistra liberal ha finito per difendere le istituzioni di sicurezza — come la CIA e l’FBI — che storicamente hanno compiuto azioni controverse e illegittime, compreso lo spionaggio contro figure progressiste come Martin Luther King.
Le vittime di queste politiche di sicurezza non sono solo all’estero, ma anche a livello interno, dove i movimenti contro la guerra e contro le ingiustizie sono stati spesso etichettati come traditori o nemici dello Stato. Questo rafforza una narrazione securitaria che produce nemici interni ed esterni, ostacolando una visione progressista autentica, che dovrebbe invece puntare alla solidarietà, all’unità sociale e alla critica radicale dell’imperialismo.
Per comprendere appieno questi fenomeni, è fondamentale non solo leggere la sinistra come un insieme di identità in conflitto, ma reintrodurre un’analisi che consideri la classe e il capitale come fattori determinanti. Questo permette di riconoscere che le divisioni di razza, genere o identità, pur reali e significative, sono spesso utilizzate per disinnescare la potenziale alleanza sociale necessaria a sfidare le strutture di potere economiche e militari. Solo così la sinistra potrà uscire dalla trappola del nazionalismo securitario e della frammentazione interna, ritrovando un senso di universalismo critico e di lotta concreta per la giustizia sociale.
Qual è il ruolo del nemico interno nella costruzione dell'autorità autoritaria?
La costruzione dell'autorità nei regimi autoritari e proto-fascisti si fonda spesso sulla produzione deliberata di nemici interni. Questi nemici non rappresentano necessariamente una minaccia reale, ma sono funzionali al consolidamento del potere politico, alla mobilitazione di un’identità collettiva coesa e alla giustificazione di misure repressive. In tale dinamica, il concetto di "nemico" diventa una categoria ideologica, fluida e strategica, piuttosto che una realtà oggettiva.
Il nazionalsocialismo tedesco costituisce un caso emblematico. La retorica hitleriana non si limitava a demonizzare il nemico esterno – il bolscevismo o le potenze occidentali – ma poneva al centro della narrazione politica la figura dell’ebreo come nemico interno per eccellenza. Non solo era descritto come minaccia biologica e culturale alla purezza del Volk, ma anche come soggetto colpevole della decadenza morale, del collasso economico e della sconfitta bellica. Questa figura, come l’“umbrella enemy” di cui si parla nelle narrazioni moderne, racchiude in sé tutte le paure, le ansie e le contraddizioni di un popolo in crisi.
Nel contesto contemporaneo, la fabbricazione del nemico interno si è sofisticata, adattandosi ai codici democratici e neoliberali. Immigrati, musulmani, neri, messicani, e persino attivisti progressisti vengono alternativamente identificati come minacce alla sicurezza, all’identità nazionale, ai valori tradizionali o all’ordine economico. Tale operazione ideologica viene spesso avallata da narrazioni securitarie, come quelle che ruotano intorno al terrorismo islamico o alla criminalità di strada. La loro funzione non è tanto descrittiva quanto performativa: non spiegano il mondo, ma lo costruiscono nella mente collettiva, attraverso il linguaggio del pericolo.
La categoria dell’“umbrella enemy” diventa utile per comprendere come la figura del nemico venga declinata in modo da coprire una vasta gamma di soggetti percepiti come destabilizzanti. L’ebreo nel nazismo, l’immigrato messicano nel trumpismo, il comunista nella guerra fredda, il musulmano nell’era post-11 settembre: tutte queste figure sono costruite come minacce non solo alla sicurezza fisica ma all’identità stessa della nazione. Ciò legittima una politica di eccezione permanente, in cui lo stato d’emergenza diventa normalità.
Il nemico interno è dunque un elemento strutturale, non accidentale, dei progetti politici autoritari. Serve a ridefinire i confini della cittadinanza, a polarizzare l’opinione pubblica, a giustificare la repressione del dissenso e a creare un’illusione di unità nazionale. Tale dinamica è stata chiaramente visibile anche nella demonizzazione delle sinistre, dei sindacati, degli intellettuali critici e delle minoranze politiche e sessuali, che vengono associati a forze destabilizzanti o sovversive. La costruzione del nemico non è mai neutra: serve interessi materiali, economici e simbolici, e si articola con altre strutture di potere, come il militarismo, il nazionalismo e il capitalismo neoliberale.
La narrazione securitaria che accompagna queste costruzioni ha profonde radici hobbesiane: l’idea che l’uomo sia minaccia all’uomo e che solo uno stato forte possa garantire ordine e protezione. Ma nel contesto contemporaneo, questa visione si è intrecciata con logiche di mercato, apparati di sorveglianza tecnologica e ideologie meritocratiche che attribuiscono la povertà o la marginalità a fallimenti individuali, non strutturali. In questo quadro, la legittimazione dell’ineguaglianza si coniuga con l’estetica della forza: la politica del “law and order”, il culto del leader autoritario, la spettacolarizzazione del nemico.
Ciò che emerge, infine, è una crisi della democrazia liberale, che non riesce più a reggere le proprie promesse di uguaglianza, libertà e sicurezza. La costruzione del nemico interno diventa così un sintomo della perdita di coesione sociale, ma anche un meccanismo per evitare di affrontare le vere cause del malessere collettivo: disuguaglianza, precarietà, esclusione. La lotta politica viene così depoliticizzata, ridotta a guerra culturale o lotta esistenziale contro il diverso.
La comprensione di queste dinamiche impone al lettore una consapevolezza critica della relazione tra identità, potere e paura. Non basta analizzare le politiche autoritarie; occorre smascherare i racconti che le rendono desiderabili, accettabili e perfino necessarie. Perché in ultima analisi, chi controlla la narrazione del nemico, controlla anche la forma della società futura.
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