Il populismo è spesso visto come una risposta semplificata e potente alle sfide politiche moderne, ma la sua forza risiede in una retorica che sfrutta una narrazione semplice, ma emotivamente carica. La politica populista si costruisce attorno a un'idea chiara: la separazione tra il "popolo" e le élite. Il "popolo" è il protagonista indiscusso di questa storia, ma chi sono davvero questi individui che vengono così esaltati?
Il concetto di "popolo" in un contesto populista non è mai definito in modo rigido; è, piuttosto, un termine estremamente flessibile, che può essere interpretato in base agli interessi del politico di turno. Il teorico argentino Ernesto Laclau ha sottolineato come la vaghezza di questo concetto sia proprio ciò che rende il populismo tanto potente. "Il popolo", infatti, è una categoria così ampia e indefinita che può adattarsi facilmente a diverse ideologie e cause. Questo permette ai leader populisti di impiegare il termine per adattarlo alle proprie agende politiche, mentre allo stesso tempo il "popolo" acquisisce un forte peso morale, capace di legittimare qualsiasi posizione politica, anche la più radicale.
Esistono due modalità principali con cui i movimenti populisti definiscono il "popolo". La prima consiste nell'identificare una cultura condivisa e un set di valori che unisce individui diversi, trasformandoli in una comunità coesa. Il secondo modo è più esclusivo, definendo il "popolo" in contrapposizione alle élite, che diventano l'antagonista in questa narrazione. Un esempio chiaro di questo fenomeno si trova nel nazionalismo populista, come quello praticato da Donald Trump e da molti sostenitori della Brexit, dove si promuove un insieme di simboli e valori che i cittadini di una nazione considerano fondamentali per la loro identità collettiva. Questo tipo di nazionalismo viene descritto dal politologo Benedict Anderson come il prodotto di una "comunità immaginata". Nonostante i milioni di persone che costituiscono una nazione non si incontrino mai fisicamente, la percezione di un legame comune si costruisce attraverso miti, simboli e valori che vengono diffusi da politici e media. Questi elementi creano una comunità immaginaria ma estremamente potente, capace di mobilitare milioni di persone verso una causa comune, come dimostrato dal fervore che può spingere le persone a combattere o persino morire per la propria nazione.
Un esempio emblematico di come questi simboli vengano manipolati per evocare un sentimento di identità nazionale si trova sulla copertura del quotidiano britannico "The Sun" prima di un'importante votazione parlamentare sulla Brexit. Il titolo dichiarava senza ambiguità: "Oggi, mentre i parlamentari votano sulla Brexit, vi diciamo: avete una scelta… Gran Bretagna o Grande Tradimento". La copertura era un collage di immagini che rappresentavano una visione idilliaca della cultura britannica: pecore nei campi verdi, il mostro di Loch Ness, il Big Ben, il Castello di Windsor e una Mini, simboli che evocano l'immagine di un'Inghilterra rurale e senza tempo. Questi simboli sono serviti a creare una narrazione che opponeva "noi", il popolo britannico, alle forze esterne, personificate nell'Unione Europea. Ma, come sottolineato dai critici sui social media, molti di questi simboli erano in realtà il risultato di una globalizzazione che aveva coinvolto persone e culture straniere. La Mini, ad esempio, era stata progettata da un greco e acquistata da BMW, il Castello di Windsor era stato costruito da un duca normanno, e così via. In altre parole, la visione di "Britishness" offerta dal quotidiano era una costruzione narrativa, un’illusione condivisa, ma che, nonostante la sua "falsità", aveva un impatto potente sulle emozioni degli elettori.
Un altro aspetto cruciale del populismo è la definizione di chi non appartiene al "popolo". Come in tutte le favole, l'eroe ha bisogno di un antagonista, e il "popolo", pur sembrando un concetto inclusivo, è, in realtà, altamente esclusivo. Coloro che non vengono considerati "popolo autentico" sono spesso divisi in due categorie: gli "stranieri", come gli immigrati, e il "nemico interno", ovvero le élite. Le élite vengono spesso descritte come una classe di individui separata dal resto della popolazione, dotata di privilegi e poteri che la rendono ostile agli interessi del popolo. Quando si parla di élite, è quasi impossibile non pensare immediatamente alla retorica populista. Termini come "media mainstream" o "deep state" sono anch'essi frequentemente associati a un punto di vista populista, che inquadra il potere come qualcosa di oscuro e lontano dal volere popolare.
In questo contesto, l'uso del termine "élite" può sembrare paradossale, soprattutto se ascoltiamo le parole di Donald Trump, che durante una manifestazione in Minnesota affermava: "Loro chiamano gli altri l'élite. Ma perché sono loro l'élite? Io ho un appartamento molto migliore del loro, sono più intelligente, più ricco, sono diventato presidente mentre loro no". Il suo punto, benché ironico, mette in evidenza la confusione intrinseca nel concetto di "élite". In un senso, le élite rappresentano una piccola parte della società che è vista come superiore per qualità, abilità o privilegio, ma nello stesso tempo, queste stesse élite possono essere viste come non meritevoli del potere che detengono.
Il populismo, dunque, non è solo un movimento politico; è una narrazione che sfrutta il linguaggio e i simboli per costruire una comunità immaginaria, divisa tra un "popolo" che lotta per la sua sovranità e delle élite che lo opprimono. Questa narrazione, sebbene a volte basata su elementi di fantasia, può rivelarsi incredibilmente potente nel plasmare l'opinione pubblica e mobilitare il sostegno popolare.
Perché le Storie Politiche Influenzano la Nostra Comprensione del Mondo?
La narrativa, secondo Mark Laity, attuale capo delle comunicazioni strategiche, non è semplicemente una struttura di eventi: è una cornice che ci permette di comprendere come gli eventi si ricollegano ai nostri sistemi di credenze e, di conseguenza, ci indirizza verso azioni future. Le storie, infatti, "danno senso al mondo, mettono le cose al loro posto in base alla nostra esperienza, e ci dicono cosa fare". Sono una struttura organizzativa per i nostri pensieri, un meccanismo che forma la nostra comprensione della realtà.
Questa connessione tra la narrativa e il nostro modo di comprendere il mondo è il cuore di ciò che John Yorke, produttore televisivo e autore del libro Into the Woods: A Five-Act Journey into Story, definisce come la ragione principale per cui siamo così attratti dalle storie. Secondo Yorke, il nostro modo di percepire la realtà implica sempre un tentativo di imporre un ordine, e la forma che tale ordine assume è la stessa della narrativa. La narrazione non è solo un metodo che ci aiuta a comprendere gli eventi, ma è anche il vero e proprio meccanismo attraverso cui costruiamo questa comprensione. Le storie, dunque, non sono semplici strumenti di spiegazione: sono il linguaggio stesso con cui apprendiamo, un codice che ci aiuta a ordinare il caos del mondo.
Questo fenomeno è evidente nel modo in cui le persone si rifugiano instintivamente nelle narrazioni esistenti quando si trovano di fronte a eventi apparentemente casuali e imprevedibili. La narrativa diventa un cristallo magico, una sorta di palla di vetro che ci aiuta a interpretare le forze sconosciute che agiscono nel nostro tempo.
Un esempio affascinante di come le storie possano offrire un'opportunità di comprensione arriva dalla relazione tra Aldous Huxley e George Orwell. Nel 1917, Huxley cominciò a insegnare ad Eton, dove tra i suoi alunni vi era un giovane di quattordici anni chiamato Eric Blair, che avrebbe poi assunto il nome di George Orwell. Trenta anni più tardi, Huxley avrebbe scritto a Orwell per congratularsi della pubblicazione del romanzo 1984, pur esprimendo qualche riserva. Huxley riteneva che, sebbene 1984 fosse potente, il suo Brave New World offrisse una visione più precisa di come la società si stesse evolvendo. Entrambi i romanzi propongono visioni distopiche di un futuro oppresso dal totalitarismo, ma mentre Orwell immagina uno stato che usa la paura e la forza bruta per controllare la popolazione, Huxley prevede un futuro in cui il controllo avviene attraverso la distrazione e l'intrattenimento superficiale.
La reazione della società contemporanea alle opere di Orwell e Huxley dimostra quanto siano potenti le storie nel formare il nostro pensiero politico. Negli ultimi anni, entrambe le opere hanno visto un’impennata di interesse, soprattutto dopo eventi significativi come l'elezione di Donald Trump e il discorso sulle "fatti alternativi" di Kellyanne Conway. Quando la politica diventa un campo di battaglia di realtà contrastanti, le persone si rivolgono ai romanzi di Orwell come una sorta di bussola per orientarsi. Il concetto di Newspeak di Orwell, che descrive una lingua manipolata per esercitare il controllo, ha trovato analogie con la retorica politica contemporanea, dove il linguaggio sembra essere sempre più un'arma per plasmare la realtà.
Alcuni potrebbero chiedersi: perché fare affidamento su opere di fiction per comprendere la politica del nostro tempo? La risposta, come suggerisce il filosofo Hannah Arendt, è che la narrativa "rivela significato senza commettere l'errore di definirlo". Le storie sono strumenti che ci permettono di comprendere meglio la realtà senza ridurla a una semplice definizione intellettuale. Offrono scenari concreti e esperienze vivide, traducendo le riflessioni filosofiche in situazioni che possiamo vivere e comprendere emotivamente.
Le storie sono un legame tra il nostro mondo privato e quello pubblico della politica. Offrono la possibilità di uscire temporaneamente dal flusso degli eventi reali per contemplarli e comprenderli meglio. E ciò che è interessante è che molte delle narrazioni più influenti, come 1984, Brave New World, e The Handmaid’s Tale, sono ambientate nel futuro. Questi romanzi non sono semplicemente racconti di mondi immaginari, ma riflessioni speculative su come la politica possa evolversi in direzioni pericolose se non prestiamo attenzione. Questi autori ci invitano a considerare le implicazioni di scelte politiche che potrebbero apparire banali nel presente, ma che, se ignorate, potrebbero condurci a futuri distopici.
In definitiva, ciò che distingue questi racconti è che ci permettono di fare previsioni sulla nostra società. Nonostante siano opere di fantasia, i loro messaggi risuonano perché si basano su evidenze reali del nostro presente. I loro autori, pur raccontando storie di mondi lontani, ci parlano della realtà in cui viviamo, facendoci riflettere sulle possibili conseguenze delle nostre azioni politiche e sociali.
Come la narrazione politica modella il potere: il caso Trump
La narrazione politica è una delle leve più potenti nel mondo contemporaneo. Essa ha la capacità di trasformare l’individuo in un eroe, un nemico o un semplice spettatore, manipolando così la percezione della realtà. Uno degli esempi più eclatanti di come la narrazione politica possa essere utilizzata con grande efficacia è il caso della candidatura di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Non è un caso isolato, ma rappresenta piuttosto un paradigma, un’illustrazione di come una storia ben costruita possa avere un impatto profondo sul destino di un paese e sul panorama culturale in generale.
Trump ha creato per sé stesso una storia che ha catturato l'immaginazione di milioni di persone, una narrazione che lo ha presentato come un outsider, un uomo contro il sistema, impegnato in una missione eroica per “ripristinare la grandezza” dell’America. Questo tipo di narrazione si inserisce perfettamente all’interno di un archetipo classico, che potremmo ritrovare in numerosi racconti cinematografici o letterari: il protagonista, a volte riluttante e a volte determinato, è chiamato a compiere una missione straordinaria, con il rischio di fallire e con il destino del mondo – o almeno di una parte di esso – in bilico.
Il viaggio di Trump può essere paragonato a quello di un eroe che, alle prese con una serie di avversità, è costretto a confrontarsi con nemici sia visibili che invisibili, spesso rappresentati da una classe politica corrotta o da un'élite globale. La sua battaglia non è solo politica, ma anche esistenziale, perché la sua stessa identità è messa in discussione. È in questo frangente di crisi che l’uomo di successo, abituato a vincere nel mondo degli affari, si reinventa, abbracciando una narrazione che lo trasforma da uomo d’affari a combattente solitario contro il sistema.
Questo processo di reinvenzione non si limita al mondo della politica. Il linguaggio della politica contemporanea è pervaso da narrazioni che spesso sfidano la logica e la razionalità, sostituendole con emozioni e storie. La campagna di Trump ha mostrato come una narrazione emotiva e persuasiva possa superare argomentazioni razionali e tradizionali. Attraverso il racconto di sé come un outsider, un “maverick”, Trump ha attratto milioni di elettori che si sentivano emarginati e senza voce. La sua campagna è diventata un esempio di come la politica possa essere trasformata in un dramma emozionante, in cui ogni vittoria e ogni sconfitta assumono una dimensione epica.
Questa narrazione ha avuto un impatto decisivo anche sulla politica internazionale. La sua modalità di comunicare, per lo più attraverso i social media, ha infranto i tradizionali canali di informazione, rendendo le sue dichiarazioni immediate e dirette, come se fossero un copione in tempo reale. Ogni dichiarazione, ogni gesto diventava parte di una trama più ampia, che risuonava a livello emozionale con un pubblico sempre più vasto e variegato.
In questo contesto, il racconto che Trump ha costruito attorno alla sua figura non è solo un episodio di successo personale, ma diventa una riflessione sul potere della narrazione nella politica. Da sempre, infatti, la politica è stata dominata dalle storie: le storie di lotte, di vittorie, di nemici e di eroi. Eppure, il modo in cui oggi queste storie vengono costruite, distribuite e ricevute è radicalmente cambiato. Il mix di media digitali, populismo e partigianeria ha reso la narrazione non solo un mezzo per trasmettere ideologie, ma una vera e propria arma nelle mani di chi sa raccontare la propria versione della realtà.
Un’altra narrazione potente nella politica contemporanea è quella che ha accompagnato la campagna per la Brexit. Similmente a quanto accaduto negli Stati Uniti, la storia della Gran Bretagna che si ribella contro un'entità esterna, l’Unione Europea, è stata raccontata come una lotta tra l’uomo comune e un establishment lontano e insensibile. La Brexit non è stata solo una questione politica, ma anche una narrativa che ha trasformato il voto in un atto di resistenza contro un sistema percepito come oppressivo.
Non si tratta solo di comprendere come e perché alcune storie politiche abbiano successo. È fondamentale riconoscere come queste narrazioni non solo influenzino le decisioni politiche, ma plasmino la nostra comprensione del mondo. La politica non è più fatta solo di leggi e politiche pubbliche, ma di storie che definiscono chi siamo, chi vogliamo essere e contro chi ci stiamo battendo.
In questo scenario, la narrazione diventa uno strumento di persuasione che va oltre i confini della politica tradizionale. È alla base delle strategie di disinformazione, delle “fake news” e della propaganda, che si basano proprio sulla capacità di manipolare la realtà attraverso storie distorte. In un mondo in cui l’informazione è costantemente in flusso, comprendere il potere delle storie è diventato cruciale non solo per gli attori politici, ma per chiunque voglia comunicare efficacemente nel contesto sociale e culturale contemporaneo.
La narrazione, in questo senso, non è solo un mezzo di comunicazione, ma un vero e proprio campo di battaglia. Conoscere le dinamiche della narrazione politica ci consente di comprendere meglio i meccanismi del potere e di agire con maggiore consapevolezza, sia come cittadini che come partecipanti attivi alla costruzione della realtà che ci circonda. La lingua, il modo in cui raccontiamo e raccontiamo a noi stessi le storie del nostro tempo, è il vero strumento per plasmare il futuro.
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