La politica estera dell’amministrazione Trump non è facilmente categorizzabile all’interno dei tradizionali schemi geopolitici. La sua visione del mondo, in effetti, appare più frammentata che coerente, il che rende difficile valutare la costanza delle sue convinzioni in relazione alle sue scelte diplomatiche. Tuttavia, è possibile identificare alcuni tratti distintivi che caratterizzano il suo approccio: il realismo e l’unilateralismo. Questi due elementi sono diventati la base della sua politica estera, nonostante l'assenza di una visione organica e strutturata.

Lo stile di Trump, come descritto nel libro "The Presidential Character" di Barber, si riflette in una modalità di approccio che si manifesta principalmente nelle sue tre funzioni politiche: la retorica, le relazioni personali e il lavoro preparatorio. Lo stile di Trump si distingue soprattutto per la sua impulsività. Questo tratto è stato uno degli aspetti più controversi della sua presidenza, come evidenziato da James B. Stewart, il quale lo descrive come un uomo d'affari che agisce “impulsivamente, in modo inappropriato e talvolta immaturo”. Le sue decisioni, seppur non sempre razionali, sono spesso giustificate dalla convinzione che la rapidità e l'imprevedibilità possano portare vantaggi, specialmente nei confronti di un ordine mondiale che considera obsoleto.

Una delle caratteristiche più significative della presidenza Trump è stata l'instabilità all’interno della Casa Bianca, con un numero straordinario di cambiamenti nel suo team. Nel primo anno di governo, circa un terzo dei suoi principali collaboratori lasciarono la Casa Bianca, un turnover che raggiunse l’83% a livello di staff senior. Tra i personaggi più noti che lasciarono la carica si trovano Michael Flynn, Steve Bannon, Reince Priebus e Rex Tillerson. Questo continuo mutamento nella leadership del governo riflette una delle principali problematiche che caratterizzano la gestione di Trump: la mancanza di continuità e di una visione strategica a lungo termine.

Trump è noto anche per il suo atteggiamento anti-intellettuale, una caratteristica che si manifesta in un disinteresse nei confronti delle idee e delle pratiche politiche tradizionali. La sua sfiducia nei confronti degli esperti e della classe politica preesistente è stata una costante durante la sua amministrazione. Le sue dichiarazioni, che spesse volte sfidano la realtà oggettiva, sono emblematiche di questa sua visione del mondo. Ad esempio, Trump è stato accusato di manipolare i fatti e di diffondere “fatti alternativi” per giustificare le sue azioni. Un’analisi di Politico Magazine ha mostrato che il presidente rilasciava una falsità ogni tre minuti durante le sue apparizioni pubbliche.

Il linguaggio e la retorica di Trump sono particolarmente problematici. La sua semplicità, l’uso frequente di insulti e il tono informale che caratterizzano i suoi discorsi contribuiscono a rendere il suo stile unico, ma allo stesso tempo ambiguo. I suoi detrattori spesso definiscono la sua retorica come “spontanea, imprevedibile, manichea e sfuggente alle responsabilità”, mentre i suoi sostenitori vedono in essa una forma di autenticità che rompe con il linguaggio politico tradizionale. Uno degli esempi più eclatanti della sua retorica impulsiva è stato il suo famoso avvertimento a Kim Jong-un: “Saranno affrontati con il fuoco e la furia come il mondo non ha mai visto”. Questa dichiarazione, che ha messo gli Stati Uniti sull’orlo di un conflitto con la Corea del Nord, mostra come Trump utilizzi il linguaggio per creare tensione e per dimostrare la sua capacità di prendere decisioni senza filtri.

Altrettanto significativa è la sua visione del mondo in relazione alle minoranze e agli immigrati. Le sue dichiarazioni sulla migrazione, in particolare quelle nei confronti degli immigrati messicani, sono state considerate razziste e discriminatorie. Le sue parole durante l'annuncio della sua candidatura presidenziale, in cui descriveva i messicani come “portatori di droghe, crimine, stupratori”, sono state criticate da più parti, ma rispecchiano un approccio che non fa distinzione tra realtà e pregiudizio.

In sintesi, la politica estera di Trump non si conforma a nessuna delle scuole di pensiero tradizionali. La sua natura impulsiva, unita a una retorica imprevedibile e talvolta divisiva, rende il suo approccio alle relazioni internazionali difficile da prevedere e da comprendere. Tuttavia, alcuni tratti principali emergono: l'orientamento verso il realismo, l’isolazionismo e una forte preferenza per l’agire unilaterale, che ne definiscono la politica estera. La vera natura di queste politiche diventerà più chiara solo con il passare del tempo, ma fin da ora è evidente che la personalità di Trump e il suo stile di leadership sono elementi decisivi per comprendere come si è evoluta la sua amministrazione e quali saranno le sue scelte future in ambito internazionale.

Qual è l'approccio incoerente della politica estera di Trump e come si manifesta nelle relazioni internazionali?

L'approccio alla politica estera dell'amministrazione Trump è stato caratterizzato da una serie di contraddizioni e incoerenze che rendono difficile inquadrarlo in una delle scuole classiche della politica internazionale. Le scelte apparentemente impulsive e la retorica aggressiva hanno spesso contraddetto l’immagine di un leader pragmatico, mostrando, piuttosto, un orientamento alle trattative e una visione che risulta incoerente rispetto agli interessi strategici a lungo termine degli Stati Uniti.

Nel contesto delle relazioni internazionali, Trump ha dimostrato una tendenza a ritirarsi da trattati e accordi internazionali cruciali, come nel caso dell'accordo nucleare con l'Iran. Questo passo, motivato principalmente dalla volontà di contrapporsi all’eredità del suo predecessore, ha sollevato forti preoccupazioni tra gli alleati, in particolare in Europa, generando una crescente sfiducia verso gli Stati Uniti. La decisione di abbandonare l'accordo non solo ha isolato gli Stati Uniti, ma ha anche innescato una serie di conflitti e crisi che potrebbero compromettere la stabilità dell'intera regione.

Per quanto riguarda la Cina, l'approccio di Trump è stato altrettanto imprevedibile. La guerra commerciale con Pechino, che ha visto l'imposizione di dazi reciproci, ha messo in evidenza una politica estera che oscilla tra l’affermazione della superiorità economica e la volontà di scoraggiare l’ascesa di una potenza rivale. Tuttavia, la strategia non ha portato ai risultati sperati, contribuendo solo ad aumentare le tensioni senza ottenere concessioni significative da parte della Cina. L’imprevedibilità delle sue politiche, che oscillano tra confronti diretti e dichiarazioni di apertura al dialogo, rende difficile una lettura chiara dell'intento americano nei confronti di Pechino.

Inoltre, l'amministrazione Trump ha segnato una netta rottura con il multilateralismo, un approccio che ha dominato la politica estera statunitense per decenni. Sotto Trump, gli Stati Uniti si sono ritirati da vari trattati e accordi internazionali, inclusi l'Accordo di Parigi sul cambiamento climatico e l'Organizzazione mondiale della sanità, in un tentativo di rafforzare una visione di politica estera unilaterale. Tale scelta ha sollevato interrogativi sul futuro del sistema internazionale basato su regole e su come gli Stati Uniti intendano relazionarsi con gli altri poteri globali in un contesto sempre più multipolare.

Nel caso del Medio Oriente, la politica di "America First" di Trump ha avuto effetti devastanti. Il ritiro dalle alleanze storiche e la gestione errata della questione iraniana hanno ridotto l'influenza degli Stati Uniti nella regione, creando un vuoto di potere che è stato prontamente riempito da attori regionali e potenze globali come la Russia. La decisione di Trump di abbandonare l'accordo nucleare con l'Iran non solo ha minato la posizione diplomatica degli Stati Uniti, ma ha anche alimentato una crescente instabilità che continua a riverberarsi in tutta la regione.

Infine, è importante notare che l'approccio di Trump alla politica estera non si limita alla dimensione geopolitica e economica. La sua visione si intreccia anche con la politica interna, con una retorica che spesso ha enfatizzato la protezione degli interessi nazionali a discapito di una più ampia cooperazione internazionale. In questo senso, le sue scelte hanno riflesso una priorità strategica che ha dato valore alla sicurezza nazionale, ma senza una visione a lungo termine delle dinamiche globali e delle implicazioni delle sue azioni.

Questa incoerenza tra i suoi obiettivi dichiarati e le politiche concrete dimostra la complessità della politica estera di Trump, che non si conforma facilmente agli schemi tradizionali. La sua strategia non si è mai evoluta in una dottrina chiara, ma è stata invece caratterizzata dalla costante ricerca di soluzioni ad hoc per affrontare le sfide quotidiane, spesso senza una riflessione strategica a lungo termine.

In un mondo sempre più interconnesso, è fondamentale che le nazioni comprendano che le politiche unilaterali, sebbene possano sembrare vantaggiose nel breve periodo, non sempre conducono ai risultati desiderati. La crescente sfiducia e la destabilizzazione create dalla politica estera di Trump sono lezioni importanti per il futuro della diplomazia internazionale, dimostrando che la stabilità globale dipende dalla cooperazione e dal rispetto degli impegni presi a livello internazionale.

La fine della missione universale americana: il Trumpismo e la politica estera degli Stati Uniti

Il complesso militare-industriale che ha preso forma nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale ha giustificato la continuazione di un approccio interventista nelle politiche estere degli Stati Uniti. L'esigenza di alimentare un'economia di guerra permanente ha reso quasi impensabile il ritorno all'isolazionismo. I presidenti che si sono succeduti fino all'amministrazione Trump hanno costantemente mantenuto una politica estera che si allineava alla dottrina Truman. La promessa di "rendere di nuovo grande l'America", propria del Trumpismo, potrebbe rompere con queste tradizioni egemoniche, cercando di mantenere le promesse della sua campagna elettorale. Tuttavia, la ripetuta insistenza di Trump sull'isolazionismo e l'assenza di modelli di politica estera specifici, consolidati da decenni di interventismo, pongono molte domande sul futuro della diplomazia americana e sulla possibilità di una politica estera post-eccezionalista.

Tuttavia, paesi come Siria, Iraq, Afghanistan, Ucraina, Turchia, Cina e Corea del Nord sono stati sotto il mirino di Trump fin dal momento della sua elezione. Il presidente continua a creare nuovi nemici ogni giorno. La sua politica di non conformità, unita alle sue scarse capacità diplomatiche e oratorie, alimenta tensioni internazionali che, generalmente, sfociano in conflitti tra nazioni. L'agenda ambigua di un auto-proclamato isolazionista che, pur dichiarandosi tale, continua ad espandere la lista dei nemici degli Stati Uniti, può essere descritta come un mondo di incertezze, tipico del Trumpismo.

L'approccio atipico di Trump solleva preoccupazioni tra gli analisti politici, che esprimono dubbi sul significato e sulle implicazioni di un tale stile informale di gestione della politica estera. Le scuole di pensiero classiche, che hanno avuto un'importanza fondamentale per i numerosi presidenti americani dopo l'adozione dell'interventismo durante la Seconda Guerra Mondiale, sono state messe in discussione dalla politica estera incoerente di Trump. Da un lato, questa potrebbe segnare l'inizio di una nuova dottrina di politica estera post-eccezionalista americana, che appare impulsiva, ma funzionale, imprevedibile, ma realista, caotica, ma pragmatica. Il Trumpismo potrebbe prosperare come una forma unica e atipica di gestione degli affari internazionali, che favorisce un approccio più isolazionista e unilaterale, con un'attenzione particolare al soft power, alle trattative economiche e alle sanzioni piuttosto che al dispiegamento militare.

D'altra parte, tale approccio potrebbe segnare la fine della dominanza americana negli affari globali e una graduale spostamento dell'ordine di potere dalle mani degli Stati Uniti a quelle di superpotenze emergenti come la Cina. Il disinteresse di Trump nei confronti degli affari internazionali e la sua critica al coinvolgimento globale potrebbero portare a un indebolimento del dominio sovranazionale degli Stati Uniti. Fareed Zakaria, noto esperto di politica estera americana, supporta questa tesi, sottolineando che il proseguimento delle tendenze isolazioniste di Trump sta contribuendo all'abbandono della leadership statunitense, creando un mondo sempre più instabile. Nel 2011, Zakaria aveva già espresso il suo scetticismo riguardo al futuro della dominanza americana nel suo celebre libro The Post-American World, in cui sosteneva che molti poli industrializzati del mondo stavano superando gli Stati Uniti, nonostante la lentezza della leadership americana nel riconoscere tale cambiamento.

Applicando la teoria di Zakaria alla politica estera di Trump, si potrebbe interpretare che l'approccio di Trump aggiunga una nuova dimensione alla caduta della potenza americana, un esito derivante dalle sue scelte politiche ed economiche inadeguate. Trump, infatti, sembra voler rompere con il passato, ma il suo comportamento imprevedibile, la sua narcisistica autocompiacenza e il suo populismo potrebbero allontanare sempre più gli Stati Uniti dalla loro posizione di leader globale, mettendo in discussione l'ordine mondiale stabilito nel dopoguerra. In questo contesto, è possibile che si assista alla nascita di un mondo più instabile, dove gli Stati Uniti si trovano ad affrontare sfide senza precedenti, sia sul piano geopolitico che economico.

La sintesi di questa analisi evidenzia due aspetti fondamentali: prima di tutto, la politica estera di Trump, caratterizzata da un'ambiguità perenne, sembra incarnare una nuova dottrina di incertezza. Essa appare caotica ma pragmatica, impulsiva ma funzionale, imprevedibile ma realista. In secondo luogo, le implicazioni di questa dottrina atipica potrebbero segnare la fine del Pax Americana, con il relativo declino della supremazia globale degli Stati Uniti, come prefigurato da Fareed Zakaria. La politica estera di Trump sembra quindi contribuire all’emergere di un mondo multipolare, dove il predominio degli Stati Uniti è sempre meno evidente.

L'impatto della politica estera di Trump e la trasformazione dell'ordine mondiale

La politica estera dell'amministrazione Trump ha segnato un punto di svolta nel ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Il cambiamento di paradigma proposto da Trump ha avuto ripercussioni significative non solo sul contesto politico degli Stati Uniti, ma anche sulle dinamiche geopolitiche globali. La sua politica ha messo in discussione secolare tradizioni diplomatiche e strategiche, provocando una frattura nei rapporti con i principali alleati, in particolare l'Europa.

Sigmar Gabriel, ministro degli esteri tedesco, ha denunciato la "distanza" di Trump nei confronti dell'Europa, suggerendo che l'atteggiamento dell'ex presidente ha spinto il continente a riflettere sulla necessità di "prendere il destino nelle proprie mani". Questo sentimento è stato amplificato dalla cancelliera Angela Merkel dopo il vertice del G7 del 2018, in cui è diventato evidente il crescente disinteresse degli Stati Uniti per il multilateralismo. La condotta di Trump ha indebolito la legittimità degli Stati Uniti agli occhi dei propri alleati, creando uno spazio per l'emergere di nuove potenze che potrebbero colmare il vuoto lasciato dalla nazione americana.

Un aspetto cruciale della politica estera di Trump è il suo approccio alla potenza morbida, un concetto che implica l'uso dell'influenza diplomatica, culturale ed economica per promuovere gli interessi nazionali. Durante il suo mandato, l'amministrazione ha ridotto drasticamente il budget per il Dipartimento di Stato, con tagli che hanno minacciato la stabilità e l'efficacia della diplomazia statunitense. Molti diplomatici di carriera sono stati licenziati senza che venissero nominati i loro successori, alimentando una crisi di competenza e conoscenza istituzionale.

Nel frattempo, la politica estera di Trump ha rafforzato l'ascesa di potenze concorrenti come la Cina. Il presidente Xi Jinping è stato spesso descritto come sempre più vicino a un ruolo centrale nel mondo, pronto a sostituire gli Stati Uniti nella guida dell'ordine commerciale globale. La visione di Trump sulla politica estera è quella di una nazione "normale", che, come tutte le altre, persegue il proprio interesse nazionale e cerca di massimizzare la ricchezza, anche a costo di isolarsi dalle alleanze internazionali. L’episodio della guerra in Iraq, dove Trump ha criticato l’amministrazione Bush per non aver preso il petrolio, è esemplificativo di questa mentalità.

Questo approccio ha dato vita a una politica che rifiuta il ruolo di "nazione indispensabile" assegnato agli Stati Uniti nelle decadi precedenti. Le implicazioni di questa visione si sono manifestate nella crescente sfiducia nei confronti della leadership americana, con il risultato che le potenze emergenti hanno cominciato a riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. La politica di Trump ha di fatto sancito un cambiamento nei rapporti di forza a livello globale, abbattendo l'idea che gli Stati Uniti dovessero essere il pilastro portante dell'ordine mondiale.

Un altro elemento fondamentale della politica estera di Trump è la sua visione della difesa e delle alleanze. Le critiche di Trump ai suoi alleati per non spendere abbastanza in difesa e la sua insistenza sul fatto che gli Stati Uniti non dovessero più assumere il ruolo di "guardiani" del mondo sono state un riflesso del suo approccio nazionalista. Questo non ha solo ridotto l’impegno degli Stati Uniti nei conflitti esteri, ma ha anche indebolito le strutture multilaterali che erano state costruite per mantenere l’ordine internazionale.

L'orientamento verso una politica estera più "calibrata" e pragmatica, che si discosta dai grandi progetti strategici del passato, ha sollevato interrogativi sulla coerenza della visione di Trump. A differenza delle tradizionali scuole di pensiero, che avevano un approccio sistematico, la politica estera di Trump sembra essere più orientata verso decisioni ad hoc, non sempre collegate da un filo logico coerente, ma piuttosto dettate da esigenze immediate e dalla sua personalità impulsiva.

Tuttavia, un aspetto che non deve essere trascurato è il ritorno di un sentimento di "normalizzazione" della politica estera. Trump ha sfidato l'idea di eccezionalismo americano, che aveva caratterizzato la visione di molti presidenti precedenti. In questo senso, la sua politica ha segnato la fine di un'epoca in cui gli Stati Uniti erano visti come la nazione guida del mondo libero. Invece, Trump ha promosso una visione più cinica delle relazioni internazionali, in cui ogni paese è libero di perseguire i propri interessi, senza considerare la stabilità globale o la solidarietà internazionale.

La politica di Trump ha quindi rappresentato un momento di discontinuità radicale, non solo nei confronti della politica estera tradizionale americana, ma anche rispetto alla concezione stessa della leadership mondiale. In definitiva, sebbene la sua politica abbia ricevuto critiche per la mancanza di visione a lungo termine, essa ha comunque segnato un passaggio verso un nuovo ordine internazionale, dove il predominio degli Stati Uniti è stato messo in discussione.

Qual è il ruolo della politica estera americana: isolazionismo, internazionalismo e altre visioni conflittuali?

La politica estera americana è stata tradizionalmente influenzata da diverse scuole di pensiero, ognuna delle quali ha offerto una visione contrastante del ruolo che gli Stati Uniti dovrebbero svolgere nel mondo. Tra le principali dicotomie che segnano il dibattito si trovano l'isolazionismo e l'internazionalismo, l'idealismo e il realismo, il unilateralismo e il multilateralismo, nonché il liberalismo e il conservatorismo. Ciascuna di queste concezioni ha dato forma a politiche che riflettono valori distinti, strategie di sicurezza diverse e approcci variabili nei confronti delle alleanze internazionali.

L’isolazionismo, storicamente una pietra miliare della politica estera americana, rifletteva il desiderio degli Stati Uniti di evitare di essere coinvolti negli affari internazionali, salvo che la loro sicurezza nazionale fosse minacciata. Questo approccio, già delineato da Thomas Jefferson nei suoi discorsi, sostenne la separazione tra gli Stati Uniti e le alleanze europee, cercando di mantenere una politica di "pace, commercio e onesta amicizia con tutte le nazioni, senza alleanze che possano compromettere la nostra indipendenza". Sebbene non implica un distacco totale dal mondo, l’isolazionismo si concentra sull'evitare complicate intromissioni politiche e militari.

Al contrario, l'internazionalismo sostiene l’idea che gli Stati Uniti debbano giocare un ruolo attivo sulla scena globale, impegnandosi in interventi che promuovano i loro valori fondamentali, come la libertà e la democrazia. La Prima e la Seconda Guerra Mondiale dimostrarono che l’isolazionismo non bastava a garantire la sicurezza nazionale, e quindi l'America si trovò obbligata ad assumere una posizione internazionale di preminenza. Theodore Roosevelt espresse l’idea che, come "nazione scelta da Dio", gli Stati Uniti avessero una responsabilità globale, intervenendo per estendere la propria influenza e promuovere i valori democratici.

Un altro contrasto fondamentale è quello tra idealismo e realismo. Gli idealisti, come Woodrow Wilson, hanno visto la politica estera come uno strumento per promuovere valori morali universali, come i diritti umani e la democrazia. Wilson stesso, nei suoi "14 punti", sostenne che la diffusione della democrazia nel mondo sarebbe stata la chiave per un futuro di pace e prosperità. Tuttavia, l'idealismo non escludeva l'uso della forza militare, qualora giustificato da principi morali superiori.

D'altro canto, i realisti si concentrano sugli interessi concreti e sulla sicurezza nazionale. I realisti ritengono che la politica estera debba rispondere innanzitutto agli interessi dello stato, piuttosto che a ideali morali astratti. Tra le varianti di questo approccio, il realismo egemonico si concentra sul mantenimento della superiorità degli Stati Uniti e sulla prevenzione della crescita di potenze rivali, mentre il realismo prudente considera che gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi su aree cruciali per la propria sicurezza, evitando interventi non vitali.

Un’ulteriore dicotomia è quella tra unilateralismo e multilateralismo. Il unilateralismo, sostenuto dai presidenti come George W. Bush, impone che gli Stati Uniti agiscano da soli, senza consultare alleati o organizzazioni internazionali, nel tentativo di promuovere i propri interessi e valori a livello globale. In contrasto, i multilateralisti ritengono che la cooperazione internazionale sia essenziale per risolvere le sfide globali, promuovendo un ordine basato su alleanze e istituzioni come le Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale. Gli Stati Uniti, secondo questa visione, dovrebbero impegnarsi in soluzioni comuni piuttosto che agire da soli.

L’ultimo contrasto rilevante riguarda il liberalismo e il conservatorismo nella politica estera. I liberali sono generalmente favorevoli a un ordine internazionale basato sulla promozione dei diritti umani, della democrazia e del libero scambio, credendo che un mondo con più stati democratici e capitalisti sarebbe più pacifico e prospero. Essi vedono la partecipazione in organizzazioni internazionali come un passo cruciale per risolvere i problemi globali. I conservatori, al contrario, sono più preoccupati dalle implicazioni di un interventismo e tendono a sostenere un approccio più limitato alla politica estera, centrato sulla difesa della sicurezza nazionale e sull’impiego della forza solo quando strettamente necessario. I neoconservatori, tuttavia, adottano una posizione più interventista, credendo che gli Stati Uniti debbano usare il loro potere militare per promuovere i propri interessi e diffondere i propri valori democratici, anche se con scetticismo verso le istituzioni internazionali.

Oltre a comprendere questi approcci teorici, è importante sottolineare che la politica estera americana non si sviluppa in un vuoto. Ogni presidente e ogni amministrazione si trova a fare i conti con contesti internazionali mutevoli, conflitti geopolitici e sfide economiche globali che influenzano la decisione politica. Mentre le differenze tra queste scuole di pensiero sono evidenti, il dibattito su quale approccio sia il più appropriato per gli Stati Uniti è destinato a perdurare. La comprensione di queste dinamiche aiuta non solo a comprendere la politica estera americana, ma anche a prevedere come gli Stati Uniti interagiranno con il resto del mondo in un contesto in continua evoluzione.