Pensavamo di aver trovato un modo. Come con lo zucchero, anche la plastica sembrava una questione di abitudini, di attenzione, di impegno. Ma ci sbagliavamo. Il supermercato, quel teatro quotidiano del consumo, si rivelava il palcoscenico di una tragedia plastica senza scampo. Una volta superato il reparto ortofrutta, dove qualche eccezione — farina, carta stagnola, conserve — resisteva ancora, tutto il resto era un trionfo del polimero: involucri, vaschette, bottiglie, sacchetti, reti, etichette adesive. La plastica non era solo ovunque: era ineluttabile.

Con la sfida dello zucchero eravamo riusciti, con attenzione certosina, a eliminare ogni traccia dalla nostra spesa. Ma con la plastica, anche con la pianificazione più meticolosa, sessanta percento dei prodotti che acquistavamo contenevano comunque plastica. Senza alternativa. Maionese, cracker, cibo per gatti, limoni, petti di pollo, latte. Era come essere sotto il giogo di una mafia della plastica monouso. Non si trattava più di scegliere: si trattava di soccombere. Bianco o nero non esistevano, solo infinite sfumature di grigio.

Eppure non volevamo arrenderci. Anche se le nostre intenzioni iniziali erano state spazzate via dalla realtà logistica, non significava che avremmo rinunciato al progetto. Avevamo semplicemente cambiato rotta: evitare la plastica ove possibile, conservare e lavare ogni pezzo non riciclabile, nella speranza di trovarvi una seconda vita. L’obiettivo restava lo stesso. Il metodo si adattava.

In questo riadattamento forzato, cominciavo a intravedere un parallelo con la pandemia globale. Anche essa ci obbligava a vedere le cose diversamente. Ci imponeva una ricalibrazione. Il virus ci aveva lanciato un messaggio che ignoravamo a nostro rischio e pericolo: siamo molto più connessi di quanto pensiamo. Guardando le mappe dei contagi, vedevo un’enorme rete invisibile che collegava esseri umani di continenti diversi, come fili di un’unica tela. Una consapevolezza che spesso rifiutiamo: non siamo isole.

E allora, anche i rifiuti diventano un messaggio. L’idea stessa di “buttare via” qualcosa è una fantasia collettiva che possiamo permetterci solo fingendo che il pianeta non sia finito, che lo “via” esista davvero. Ma la Terra è rotonda, chiusa, limitata. Non c’è un “altrove” per la nostra immondizia. Esiste solo un “altro luogo”, che magari oggi non è casa tua, ma potrebbe esserlo domani.

Il Pacific Trash Vortex è oggi grande il doppio del Texas. Le isole di plastica negli oceani coprono una superficie maggiore delle terre emerse. E non è solo una questione di paesaggio: è anche una questione biologica. I microplastiche sono ormai ovunque. Nella carne dei pesci, nell’acqua in bottiglia, nell’acqua del rubinetto, nel sale marino, nella birra. Persino nel sangue umano, nei polmoni, nella placenta dei bambini non ancora nati, nel latte materno.

Abbiamo incontrato il nemico, e siamo noi stessi. Ma riconoscerlo significherebbe cambiare tutto: il modo in cui produciamo, consumiamo, viviamo. E il cambiamento radicale è qualcosa che terrorizza. Forse persino più del virus stesso.

Durante la pandemia, le nostre strategie per una vita a basso impatto venivano neutralizzate una dopo l’altra. I contenitori riuti

Dove finiscono veramente le plastiche riciclate e qual è l’impatto reale dei microplastica?

Il riciclo delle plastiche, spesso percepito come un gesto virtuoso e necessario, nasconde realtà molto più complesse e inquietanti. Nonostante l’apparenza di una raccolta efficiente che coinvolge tutti i tipi di plastiche numerate da 1 a 7, solo una minima parte di questi materiali viene effettivamente riciclata. Già in passato, i rifiuti plastici di qualità maggiore – in particolare quelli contrassegnati come RIC 1 e 2 – erano gli unici a giustificare l’impegno per il riciclo, ma ciò che rimaneva invisibile agli occhi del consumatore era il devastante processo di selezione, scarto, incenerimento e abbandono incontrollato dei rifiuti. La testimonianza del giornalista Adam Minter, nella sua opera Junkyard Planet del 2013, dipinge un quadro agghiacciante di Wen’an, centro globale dello smistamento della plastica in Cina, dove enormi quantità di plastica inutilizzabile venivano bruciate nelle strade o sepolte in fosse colme di liquidi tossici. I danni alla salute dei residenti – con sintomi di paralisi, ictus e cicatrici polmonari – furono devastanti, tanto che Wen’an divenne “il luogo più inquinato che abbia mai visitato”.

La politica cinese cambiò nel 2018 con il National Sword, che mise fine all’importazione di rifiuti plastici dall’estero. Tuttavia, la raccolta di plastiche di ogni tipo non diminuì; ciò solleva una domanda cruciale: dove finiscono ora queste plastiche, se non più in Cina? La risposta, spesso ignorata, è che buona parte di esse viene ancora smaltita in modo inadeguato, finendo in discariche, inceneritori o esportata illegalmente verso nazioni più povere, incapaci di gestirla correttamente. Documentari come The Story of Plastic mostrano immagini sconvolgenti di enormi cumuli di rifiuti plastici sparsi in paesi del Sud-Est asiatico come Thailandia, Malaysia e Vietnam, dove la corruzione e la mancanza di infrastrutture consentono il persistere di questa tragedia ambientale. Questi luoghi diventano discariche a cielo aperto di rifiuti occidentali, trasformando in modo tragico il ciclo di vita delle plastiche, che non si dissolve, ma si accumula, contaminando terre, acque e vite umane. Il problema viene spesso attribuito a questi paesi, ma è fondamentale riconoscere che gran parte di questa plastica ha origine nei paesi occidentali, Stati Uniti inclusi, che sono tra i maggiori produttori di rifiuti plastici.

Un dato ancor più sconcertante riguarda la natura stessa della plastica: non si decompone mai veramente. I materiali plastici sono costituiti da polimeri carbonio-carbonio estremamente resistenti alla biodegradazione, e non sono riconosciuti come fonte di cibo dai microrganismi ambientali. Invece di scomparire, la plastica si frammenta in micro e nanoplastiche, particelle minuscole che si disperdono ovunque. Non è corretto chiedersi quanto tempo impiega una busta di plastica a “disintegrarsi” – il processo non si conclude mai – ma piuttosto in quanti frammenti invisibili essa si trasformerà. Queste particelle resistenti viaggiano in tutti gli ambienti: aria, acqua, suolo, entrando nella catena alimentare e contaminando ogni ecosistema.

Negli ultimi anni, le ricerche scientifiche hanno rivelato la presenza di microplastiche non solo negli oceani, ma anche in acqua potabile, alimenti e perfino all’interno del corpo umano. La quantità di plastica che ingeriamo è comparabile a quella di una piccola carta di credito ogni settimana. Microplastiche sono state trovate nel 90% del sale da tavola, nell’acqua imbottigliata e nel 83% dell’acqua del rubinetto. Sono presenti nell’aria che respiriamo in quantità di milioni di particelle all’ora e sono state rilevate nelle feci umane, compresi quelle di neonati. La loro dimensione varia da qualche millimetro fino a particelle così piccole da essere invisibili a occhio nudo, denominate nanoplastiche. Questi frammenti assumono varie forme: fibre, film, sfere e frammenti che possono essere trasportati dal vento, contaminando anche gli ambienti più remoti, come le montagne più alte e l’Artico.

La consapevolezza di questa realtà è essenziale per comprendere la portata della crisi ambientale legata alla plastica. La falsa convinzione che tutte le plastiche vengano riciclate o scompaiano nel nulla è un inganno che alimenta comportamenti di consumo irresponsabili. La plastica non è solo un problema di gestione dei rifiuti, ma un fattore di contaminazione globale persistente, capace di alterare gli ecosistemi e influenzare la salute umana in modi ancora poco compresi. La questione della plastica è dunque anche una questione etica e politica: come società, dobbiamo affrontare la sfida di ridurre drasticamente la produzione e l’uso di materiali plastici, migliorare sistemi di smaltimento realmente sostenibili e responsabilizzare i consumatori e le industrie su ciò che realmente accade alle plastiche dopo il loro utilizzo.

Perché la nostra gestione dei rifiuti sta danneggiando irreparabilmente il pianeta?

La crescente produzione di plastica e la sua gestione inefficace sono tra le principali cause della crisi ambientale che stiamo vivendo. Un dato emblematico è che la plastica non si biodegrada, ma si scompone in frammenti infinitesimali che invadono ogni angolo del nostro ecosistema. Nonostante le politiche di riciclo e i tentativi di ridurre la plastica, l'incapacità di gestire efficacemente i rifiuti plastici porta alla continua accumulazione di questi materiali nelle discariche e negli oceani. Se non cambiamo il nostro approccio, la situazione diventerà irrimediabile.

Un aspetto che merita attenzione è la tendenza al consumo di prodotti usa e getta, che rappresentano una parte significativa del nostro impatto ambientale. Le cosiddette “wipes” o salviette umidificate, che molte persone erroneamente considerano smaltibili nel water, sono un esempio lampante di come la disinformazione possa aggravare il problema. Non solo questi prodotti intasano i sistemi fognari, ma il loro impatto sull'ambiente è devastante, con miliardi di salviette che finiscono nei fiumi e nei mari, spesso non biodegradabili, che minacciano la fauna marina.

Altre fonti di inquinamento che troppo spesso vengono ignorate sono le microplastiche. Questi minuscoli frammenti di plastica, derivanti principalmente dalla degradazione di prodotti più grandi, sono diffusi ovunque: nell'acqua che beviamo, nell'aria che respiriamo, nel nostro cibo. Le microplastiche vengono assorbite dagli organismi marini, e successivamente entrano nella catena alimentare umana, minacciando la nostra salute. Non solo l'inquinamento plastico in sé è pericoloso, ma anche le sostanze chimiche tossiche che le plastiche rilasciamo, come il bisfenolo A (BPA) e altre sostanze simili, sono nocive per la salute umana.

Nel frattempo, la moda continua a contribuire in modo significativo alla produzione di plastica, attraverso il fast fashion e il conseguente inquinamento ambientale. Le industrie tessili producono enormi quantità di abbigliamento che, dopo breve tempo, vengono gettati via. L'industria della moda è una delle più inquinanti del mondo, ma la questione non finisce qui. L'acquisto di vestiti economici è spesso legato alla produzione di materiali sintetici, che, oltre a contribuire alla crescente domanda di petrolio, sono difficili da riciclare e si accumulano rapidamente nelle discariche.

Anche i rifiuti derivanti da attività quotidiane, come i prodotti per l'igiene personale, sono una fonte di inquinamento, ma meno considerata. I contenitori di plastica per alimenti, i tappi e le confezioni di prodotti cosmetici non solo richiedono centinaia di anni per decomporsi, ma liberano anche sostanze chimiche dannose nel nostro ambiente. Per non parlare degli scarti derivanti dall'uso quotidiano di prodotti come dentifricio, deodoranti e articoli simili, che finiscono in mare o nelle discariche, spesso in forma di piccole particelle non visibili ad occhio nudo.

L'incapacità di gestire adeguatamente i rifiuti plastici è anche legata al fatto che molti paesi non possiedono un sistema di riciclo sufficientemente efficiente. Negli Stati Uniti, per esempio, la percentuale di plastica riciclata è inferiore al 6%, una cifra preoccupante che evidenzia la mancanza di strutture adeguate e di consapevolezza tra i consumatori. Anche quando vengono attuati programmi di riciclo, il tasso di successo è limitato dalla difficoltà di separare le diverse tipologie di plastica e da una scarsa infrastruttura che supporti il processo.

Un altro aspetto fondamentale è la crescente quantità di rifiuti che vengono inceneriti. Sebbene l'incenerimento possa ridurre temporaneamente il volume dei rifiuti, non risolve il problema a lungo termine. I gas emessi dai termovalorizzatori possono essere dannosi per la salute umana e per l'ambiente, contribuendo al riscaldamento globale e danneggiando la qualità dell'aria.

La gestione delle discariche, seppur meno visibile, è ugualmente problematica. Molti paesi non adottano misure sufficienti per controllare le perdite dei rifiuti nelle falde acquifere, e quindi il percolato, ossia il liquido che fuoriesce dalle discariche, può contaminare le risorse idriche. Le discariche spesso non sono coperte adeguatamente, e ciò consente al gas metano, un potente gas serra, di fuoriuscire nell'atmosfera.

Ma cosa possiamo fare per fermare questo ciclo distruttivo? La soluzione non risiede solo nell’adozione di politiche di riciclo più efficienti, ma anche in un cambiamento radicale nelle nostre abitudini quotidiane. L’acquisto responsabile, la scelta di prodotti con imballaggi riciclabili o biodegradabili, il miglioramento delle infrastrutture di riciclo e l’educazione alla consapevolezza ecologica sono passi fondamentali.

È necessario anche rivedere l'intero modello economico che ci ha portato a questo punto: un sistema che premia la produzione e il consumo di massa a scapito dell’ambiente. I governi, le imprese e i consumatori devono impegnarsi a ridurre la produzione di plastica e a promuovere l'economia circolare, dove i materiali vengono riutilizzati, riciclati e reinseriti nel ciclo produttivo, anziché finire nei rifiuti. La responsabilità è condivisa e solo una collaborazione globale potrà fermare la deriva che stiamo vivendo.

Come può la vita rurale complicare la sostenibilità quotidiana?

La settimana che una volta richiedeva non più di un’ora si era trasformata in un impegno praticamente di tutta la giornata, e stavo spendendo più soldi sia per la benzina che per il cibo, aumentando al contempo le mie emissioni di carbonio. Mi sono reso conto che, stranamente, vivere in campagna stava diventando un grosso ostacolo per vivere più leggeri sulla Terra. Se abitassi in una zona più urbana, forse non risparmierei denaro, ma probabilmente avrei una minore impronta di carbonio.

Questo pensiero mi ha riportato agli anni universitari, quando ho passato un semestre a studiare a Roma. Rimasi sorpreso da quante botteghe specializzate gli italiani frequentassero abitualmente solo per procurarsi i prodotti base della dispensa: il macellaio, il panettiere, la pastaia, i mercati all’aperto. Una parte di questo deriva da un’attenzione europea per ingredienti freschissimi, di altissima qualità, spesso fatti a mano... qualcosa che noi americani diciamo di volere, ma per cui spesso non siamo disposti a pagare.

Un altro fattore è che molte città e villaggi europei sono, rispetto agli standard americani, incredibilmente antichi e sono quindi stati pensati da sempre per una vita a misura d’uomo, fatta di camminate e spostamenti brevi. Pur essendoci un buon sistema di trasporto pubblico nel mio quartiere romano, per fare la spesa non avevo mai bisogno di usarlo: tutto ciò che mi serviva era a pochi passi. Si dava per scontato che avessi il mio cesto o la mia borsa, e quasi tutti gli acquisti erano avvolti in carta da macellaio e spago, giusto il minimo indispensabile per portarli a casa integri, invece degli imballaggi ultra resistenti che noi americani preferiamo.

Ma sognare di passeggiare per Roma facendo la spesa di pasta fresca non mi avrebbe aiutato. Dovevo essere creativo, e in fretta. Perché anche con questo continuo andare avanti e indietro, la montagna di plastica pulita, asciutta e senza riciclo si accumulava a un ritmo allarmante. La cucina stava lentamente degenerando in un caos. Per settimane, la nostra casa si era trasformata in un luogo disordinato, con pile di materiali da riciclare ovunque: vicino allo scolapiatti, sul bancone, in un angolo su una sedia.

Mi resi conto che un esperimento di zero sprechi era praticamente una macchina per produrre disordine. Tutti quei "non so cosa fare con questo" si accumulavano rapidamente. "Lo cercherò!" divenne la mia frase preferita, anche se in realtà significava "Lo cercherò più tardi". Feci un inventario del caos: sul bancone una ciotola con tappi di sughero, accanto un mucchio di pezzi di cera di formaggio cheddar in attesa di essere riutilizzati. Sul pavimento una molletta teneva una fila di confezioni Mylar di snack da analizzare più avanti. Accanto, una borsa della spesa era piena di altri sacchetti di plastica che pensavo potessero essere gettati in un cassonetto poco segnalato vicino al riciclo delle lattine di alluminio. Pensavo così perché l’avevo letto da qualche parte. Strategia infallibile.

Accanto a tutto questo c’era un contenitore di plastica trasparente con una serie di altri dubbi seri: il piccolo beccuccio di plastica dell’olio d’oliva, il cartellino di plastica attaccato all’elastico di un mazzetto di cipollotti, un elastico per capelli rotto, una bustina minuscola di gel di silice, i coperchi di alluminio delle bottiglie... erano di plastica lucida o di metallo? Piegandoli non sembravano alluminio, sembravano carta... che magia nera era quella?

Avevo anche letto che le aziende di riciclo non gradiscono il tentativo di riciclare le cose piccole: tutto ciò che è più piccolo di due pollici rischia di bloccare i macchinari o perdersi del tutto. Quindi niente riciclo di piccoli pezzi? Oh cielo.

Per affrontare la situazione avevo organizzato quello che chiamavo il "Super Awesome Recycling Center", in realtà una panca di legno di tre piedi nell’angolo della cucina. Sotto, avevo riutilizzato cassetti trasparenti per scarpe e barattoli di vetro per ordinare i rifiuti più difficili, piccoli e strani. Sopra la panca, cesti aperti per gli oggetti più grandi e gli interrogativi più grossi. Tutto rigorosamente lavato e asciugato, ma ancora senza sapere esattamente dove sarebbero finiti quei materiali.

La vita continuava, mentre facevamo finta che il "Super Awesome Recycling Center" non stesse lentamente diventando una montagna di spazzatura molto pulita. Poi una mattina, in un mobiletto nascosto, trovai delle vecchie confezioni scadute di starter per yogurt. Quello che normalmente sarebbe stato un gesto di un secondo — buttarle nella spazzatura — si trasformò in venti minuti di apertura delle singole bustine di alluminio e versamento della polvere nel compost, arrabbiandomi per quel maledetto imballaggio destinato a essere il prossimo problema.

Mentre mi macchiavo i piedi e il pavimento, immaginavo una discussione con l’azienda dello yogurt, urlando agli esperti di packaging: "Esattamente cosa dovremmo fare con questi imballaggi dopo l’uso? Non avete un piano? Questi devono solo accumularsi in montagne in decomponibili per l’eternità?".

Nonostante la rabbia, provavo anche pena per chi produceva lo starter: era un lavoro nobile, che consentiva alle persone di fare yogurt fatto in casa, risparmiando altri imballaggi. Ma in quel momento mi chiesi perché l’industria mondiale del packaging sia autorizzata a produrre materiali per i quali non esiste alcun piano di smaltimento o riciclo dopo l’uso. Questa consapevolezza scoperchiava un’enorme falla invisibile nel sistema produttivo-consumistico, un tema scomodo che nessuno vuole affrontare.

Anche a me non piaceva parlarne. Ogni volta che Steve faceva notare la montagna di rifiuti in cucina, io fingevo di non capire e mi nascondevo nella dispensa. "So che è il progetto di famiglia, ma dobbiamo trovare soluzioni per questa roba," diceva. "Non ho firmato per tenere tutta la nostra spazzatura in cucina per un anno intero." Aveva ragione. Se avessi continuato così, saremmo finiti in un episodio di Hoarders prima dell’estate. Dovevo diventare Sherlock Holmes del riciclo.

Un tempo il riciclo era davvero difficile, quasi ridicolmente complicato. Negli anni ’80, prima di trasferirmi in Vermont, riciclare richiedeva un impegno quasi fanatico: togliere le graffette dai cataloghi, staccare le etichette dalle lattine, ritagliare le finestrelle di plastica dalle buste. Era l’era del riciclo estremo, appannaggio di pochi appassionati della Terra, quelli con gli adesivi “Love Your Mother” sulle auto, che sapevano citare i benefici del succo di erba di grano e scrivevano il peso a vuoto sui barattoli portati da casa. Persone che portavano le loro borse riutilizzabili prima che fosse di moda.

Fino al mio ultimo anno di università, nei primi anni ’90, i miei sforzi per salvare la Terra si limitavano a indossare abiti lunghi e fiorati e sandali Birkenstock. Era un inizio, ma lontano dall’essere sufficiente.

Oltre a tutto questo, è importante riconoscere che la sostenibilità non può limitarsi alle singole scelte personali e alla lotta con il riciclo casalingo. È fondamentale interrogarsi sulle strutture sociali ed economiche che permettono la produzione massiccia di imballaggi non riciclabili e sull’assenza di sistemi efficaci di gestione dei rifiuti. Solo comprendendo la portata sistemica di queste problematiche si può spingere verso un cambiamento reale, che vada oltre la fatica individuale e crei condizioni favorevoli per una convivenza più armoniosa con l’ambiente.