Le strategie imperiali, spesso percepite come moralmente discutibili o addirittura immorali, sono raramente contestate nella loro totalità da chi ne trae vantaggio. Anche il libero scambio, apparentemente la meno offensiva di queste strategie, si traduce in realtà nell’imposizione di politiche su paesi stranieri che causano povertà e privazioni a milioni di persone. La maggior parte di queste pratiche contraddice principi astratti e universali, nati durante l’Illuminismo e oggi ancora fondamentali nei paesi associati all’imperialismo: uguaglianza umana, risoluzione dei conflitti attraverso sistemi giuridici equi, e universalità dei diritti umani. Nonostante ciò, l’imperialismo è stato giustificato e accettato per lunghi periodi, proprio perché la moralità veniva trasferita dal piano dei principi generali a quello dei dettagli specifici di ogni intervento.
La chiave per comprendere questa apparente contraddizione risiede nel modo in cui tali interventi sono stati rappresentati, in particolare nella cultura popolare. La narrazione e le immagini veicolate dalla letteratura, dal cinema e dai media non solo riflettevano ma attivamente costruivano la percezione dell’impero e dei suoi abitanti, legittimando il dominio e la dominazione. Edward Said ha approfondito questo legame tra cultura e imperialismo, spiegando come la rappresentazione mantenesse i popoli colonizzati in uno stato di subordinazione, creando un rapporto dialettico tra immaginario e realtà materiale dell’imperialismo. Attraverso la sua analisi dell’orientalismo, Said ha mostrato come la distinzione spaziale tra Oriente e Occidente venisse costruita culturalmente per giustificare il potere occidentale, mentre nel contempo le narrazioni letterarie e artistiche contribuivano a rendere naturale e inevitabile la presenza e il controllo coloniale.
Un esempio paradigmatico è “Mansfield Park” di Jane Austen, scritto all’alba del periodo di massima espansione britannica. L’opulenza della tenuta inglese, di cui la protagonista Fanny fa parte, trova le sue radici nella ricchezza generata dalle colonie, come la produzione di zucchero nei Caraibi, sebbene questa origine sia tacitamente ignorata nel testo. Austen non racconta né denuncia esplicitamente la schiavitù o lo sfruttamento coloniale, ma attraverso dettagli sottili e una narrazione che lega il progresso personale e nazionale all’espansione e all’organizzazione di spazi più ampi, il romanzo contribuisce a naturalizzare la colonizzazione come via obbligata per il miglioramento e la civiltà. Le tensioni interiori di Fanny, il confronto tra la piccolezza della casa d’origine e la grandezza di Mansfield Park, simboleggiano metaforicamente la necessità di un ordine più vasto e regolato, che coincide con il progetto imperiale.
Nel contesto postbellico, la rappresentazione dell’impero e della Gran Bretagna si sposta anche nel cinema popolare, con la saga di James Bond come esempio emblematico. Questi film, nati in piena Guerra Fredda, riflettono le ansie e le trasformazioni geopolitiche di un Regno Unito in declino e di un’America in ascesa. Attraverso una visione semplificata e caricaturale del “nemico” e degli “esotici” luoghi di azione, la serie di Bond rappresenta sia un tentativo di riaffermare l’identità nazionale britannica sia una testimonianza della complessità del rapporto tra memoria imperiale, cultura pop e realtà politica.
Ciò che emerge è una relazione complessa tra cultura e imperialismo, in cui la rappresentazione non è semplice riflesso della realtà, ma strumento attivo di costruzione del potere e della legittimità. I testi culturali non solo mascherano le ingiustizie dell’imperialismo, ma ne promuovono anche la logica attraverso simboli, narrazioni e immagini che rafforzano le gerarchie e normalizzano l’espansione coloniale. È fondamentale comprendere che queste rappresentazioni hanno un impatto concreto sulle percezioni e sulle politiche, influenzando sia la coscienza collettiva dei paesi imperiali che le vite di chi
Come si è infiltrato il complesso militare-industriale nella nostra vita quotidiana?
Nel suo discorso d’addio alla nazione del 1961, Dwight D. Eisenhower, un generale a cinque stelle divenuto presidente degli Stati Uniti, metteva in guardia contro i pericoli di una nuova alleanza: il complesso militare-industriale. Egli riconosceva la necessità di uno sviluppo militare, ma al tempo stesso ammoniva sulla sua potenziale influenza indebita sulla società, sull’economia e sulle istituzioni democratiche. Eisenhower parlava di una trasformazione sistemica, di una struttura di potere emergente capace di modellare la politica, l’economia e persino la coscienza collettiva.
Quella preoccupazione si è rivelata profetica. Il complesso ha continuato a crescere, superando di gran lunga le proporzioni da lui ipotizzate. Nel 2017, ad esempio, la spesa militare statunitense superava i 610 miliardi di dollari—più di quanto speso da Cina, Russia, Arabia Saudita, India, Francia, Regno Unito e Giappone messi insieme. Il processo decisionale in materia di difesa si è spostato verso una tecnocrazia costituita da ufficiali militari in servizio, ex ufficiali trasformati in lobbisti per i produttori di armi, e accademici inseriti in think tank finanziati dallo stesso settore della difesa.
Il complesso ha saputo normalizzare il proprio ruolo, rendendolo parte integrante della vita americana, al punto da risultare invisibile e, quindi, inamovibile. L’analista James Der Derian definisce questo fenomeno “guerra virtuosa”—una rivoluzione silenziosa negli affari politico-militari che nasconde i costi del militarismo alle popolazioni domestiche. La guerra virtuosa si fonda su una capacità tecnica e su un imperativo etico: minacciare, e se necessario applicare, la violenza a distanza, riducendo al minimo le vittime umane visibili. Ma per ottenere legittimità etica, il complesso ha dovuto inglobare media e industria dell’intrattenimento. Si parla quindi di MIME complex—Military-Industrial-Media-Entertainment Complex.
Questa alleanza ha dato vita a un’infiltrazione sottile ma profonda nella società dei consumi. Tecnologie come il GPS, oggi onnipresente nei nostri smartphone e strumenti di navigazione, hanno origini belliche. Usato per la prima volta in modo sistematico durante la Guerra del Golfo per guidare sistemi d’arma, il GPS è un classico esempio di tecnologia dual-use: concepita per la guerra, adottata poi nella vita civile.
Ma più ancora della tecnologia, è la cultura a essere stata modellata. I nostri immaginari della guerra, del soldato, della violenza statale sono ormai mediatizzati e spettacolarizzati. Roger Stahl ha analizzato come l’intrattenimento abbia assorbito la guerra trasformandola in oggetto di consumo. Il termine “militainment” indica la fusione tra esercito e industria culturale. Tre tropi dominano questo paesaggio: la guerra pulita, il tecno-feticismo e il sostegno incondizionato alle truppe.
La “guerra pulita” è quella rappresentata come chirurgica, asettica, priva di costi umani. La campagna di bombardamenti sulla Serbia del 1999, con zero vittime statunitensi, è diventata emblematica di questa narrativa. Il secondo tropo è il feticismo tecnologico: le armi vengono celebrate come oggetti
Come la guerra plasma la propaganda mediatica e la cultura militare: dall’Olocausto a Hollywood e oltre
La guerra ha da sempre rappresentato un terreno fertile per la propaganda, trasformando le immagini e i messaggi in strumenti potenti di controllo e persuasione. Uno degli esempi più emblematici è il film nazista Il trionfo della volontà, che nel 1934 incarnava la volontà del regime di radicare l’ideologia della supremazia bianca e della forza del Partito Nazionalsocialista, avvalendosi di un budget senza precedenti e di una produzione imponente, con centinaia di tecnici e cameramen. Il film non solo celebrava il congresso del partito a Norimberga, ma serviva come mezzo per diffondere un mito nazista grandioso e inaccessibile, con un’immagine amplificata del potere e della volontà di guerra.
Questa ambivalenza tra realtà bellica e sua rappresentazione mediatica si ritrova anche nelle strategie militari moderne: le campagne militari non si misurano solo sul piano tattico, ma anche su quello dell’impatto visivo e narrativo che esse producono nell’opinione pubblica mondiale. La quantità di bombardamenti durante l’invasione dell’Iraq nel 2003, ad esempio, fu probabilmente tanto un fatto strategico quanto una manifestazione spettacolare del potere americano.
Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’uso del cinema come strumento di propaganda divenne una pratica universale. Hollywood, con registi come John Huston e Frank Capra, si trasformò in un’agenzia di comunicazione bellica. La celebre serie di Capra Why We Fight si poneva come risposta diretta a Il trionfo della volontà, mirata a rafforzare lo spirito combattivo degli americani e giustificare la partecipazione degli Stati Uniti al conflitto. Parallelamente, anche il cinema britannico produsse opere di propaganda, volte a esaltare il dovere militare e a sottolineare l’importanza della riservatezza in tempo di guerra.
Il regime nazista, con il suo Ministero per l’Illuminazione Pubblica e Propaganda, aveva elevato la propaganda a scienza sociale, dedicandosi con particolare fervore alla manipolazione delle masse. Film come L’ebreo eterno (1940) offrivano un ritratto distorto e razzista degli ebrei, strumento chiave per la costruzione dell’odio razziale e l’antisemitismo di Stato, tanto da essere oggi vietato in Germania.
Analogamente, il fascismo italiano strutturò la sua propaganda tramite il Ministero della Cultura Popolare, producendo notiziari e film che diffondevano la visione del regime, contribuendo a modellare l’immaginario collettivo e il consenso.
Oggi, sebbene la propaganda militare appaia più sottile e integrata in un sistema di comunicazione globale dominato da Hollywood e l’industria dell’intrattenimento, il legame tra esercito e media resta solido. L’incontro a Beverly Hills del 2001 tra l’industria dell’intrattenimento e i consulenti presidenziali degli Stati Uniti sottolineò la volontà di usare la cultura popolare per veicolare narrazioni strategiche e rassicurare l’opinione pubblica sull’impegno bellico contro il terrorismo.
La collaborazione tra Dipartimento della Difesa e cinema è divenuta massiccia, coinvolgendo migliaia di film e programmi televisivi. L’accesso a mezzi militari e la consulenza sul contenuto degli script sono concessi a chi accetta di veicolare una rappresentazione favorevole delle forze armate. Film come Battleship (2012), supportato dalla Marina USA, dimostrano come la cooperazione possa fornire realismo visivo e presenza di personale militare. Al contrario, pellicole critiche verso le guerre contemporanee trovano maggiori difficoltà a ottenere tale supporto, configurando una forma indiretta di controllo sui contenuti.
Un ulteriore sviluppo si ha nel rapporto tra industria videoludica e militari. Il caso più noto è America’s Army, un videogioco lanciato dal Dipartimento della Difesa come strumento educativo e di reclutamento. Diversamente dai tradizionali sparatutto, questo gioco obbliga il giocatore a seguire le procedure e le regole di ingaggio dell’esercito statunitense, imponendo una disciplina simulata e un’etica militare virtuale. Questo esempio mostra come la tecnologia del divertimento stia sempre più collaborando con le forze armate per influenzare tanto i militari quanto i civili nella percezione del conflitto.
È importante comprendere che la propaganda bellica, dai tempi di Il trionfo della volontà fino ai media contemporanei, non si limita a raccontare eventi ma costruisce realtà parallele, modella percezioni e supporta strategie politiche e militari. Il rapporto tra media, guerra e potere è intrinsecamente complesso e si manifesta in forme sempre nuove, richiedendo un’attenzione critica verso i messaggi veicolati e un’analisi consapevole della realtà che ci viene proposta.
Come le campagne digitali manipolano le divisioni politiche e culturali negli Stati Uniti?
La strategia adottata dall’Internet Research Agency russa ha sapientemente sfruttato le tensioni preesistenti nel tessuto sociale americano, orchestrando manifestazioni politiche apparentemente opposte ma coesistenti nello spazio urbano e digitale. In New York, nello stesso giorno del novembre 2016, furono organizzati sia un raduno a favore del presidente eletto Donald Trump sia una protesta contro di lui. L’obiettivo era chiaro: esacerbare le polarizzazioni ideologiche e fomentare il conflitto interno. A queste iniziative si aggiunsero raduni come il “March for Trump” e “Down with Hillary”, nonché la messinscena di una Clinton incarcerata in una gabbia, montata su un camion, durante un evento in Florida. Gli stati scelti per queste attività – Florida e Pennsylvania – non erano casuali: si trattava di swing states, decisivi per l’esito elettorale.
L’elezione di Trump, in parte favorita da tali interventi digitali, ha prodotto effetti geopolitici tangibili. Egli ha minato la credibilità di alleanze storiche come la NATO, oscillando nelle sue dichiarazioni, delegittimando membri del proprio gabinetto, e ritirandosi da accordi internazionali come quello di Parigi sul clima o l’intesa nucleare con l’Iran. In questo senso, l’interferenza russa ha sortito un impatto concreto sulla politica estera statunitense, in linea con gli interessi strategici di Mosca. Tali manovre hanno avuto luogo attraverso identità rubate o profili falsi sui social media, un teatro d’azione ideale per influenzare il discorso pubblico e il comportamento politico.
Sebbene l'effetto diretto di queste campagne sull'esito elettorale sia difficile da quantificare, è innegabile l'impatto sull’ecosistema informativo: l’amplificazione delle echo-chambers, la radicalizzazione delle opinioni, e la progressiva frammentazione del dibattito pubblico. Come osserva Bjola, misurare il cambiamento nell’opinione pubblica causato da queste manipolazioni è complesso, poiché si intreccia con una moltitudine di altri fattori comunicativi. Il sé connesso – la soggettività formata attraverso la rete – è un’entità fluida, costantemente modellata da influenze molteplici, difficilmente riconducibili a una singola causa.
Ciò che rende questa strategia particolarmente efficace è il suo radicarsi nelle fratture già esistenti della società americana: tensioni razziali, sessuali, religiose e ideologiche che, anziché essere indotte dall’esterno, vengono sfruttate come leva. Attribuire questi problemi solo all’intervento straniero significherebbe assolvere le responsabilità interne e fingere un’innocenza inesistente.
Questa dinamica si estende anche alla cultura popolare. Franchising come Star Wars, Marvel, o James Bond, nati in contesti dominati da una visione eroica bianca e maschile, oggi affrontano il compito di riflettere una società più eterogenea. L’introduzione di diversità razziale, di genere e di orientamento sessuale in queste narrazioni è spesso percepita come una minaccia dai gruppi suprematisti bianchi, che vedono vacillare la loro egemonia culturale. È in questo contesto che si colloca la reazione violenta a The Last Jedi (2017), film che decostruisce il mito dell’eroismo tradizionale, rivelandone l’irrazionalità e le conseguenze disastrose. Il suo cast diversificato ha solo rafforzato la percezione tra i critici più radicali di un attacco deliberato al loro sistema di valori.
Un’analisi di Morten Bay sui tweet indirizzati al regista Rian Johnson ha evidenziato come tra i detrattori più accaniti si nascondessero numerosi bot e sock puppets, molti dei quali sospettati di essere legati all’apparato propagandistico russo. Di questi account, nessuno pubblicava contenuti positivi sul film. La strumentalizzazione del dibattito culturale si sovrappone quindi a quella politica, facendo del consumo mediale un campo di battaglia per la costruzione dell’identità e del consenso.
Tuttavia, non tutti i critici di The Last Jedi erano animati da motivazioni ideologiche estreme. Molti semplicemente non gradivano la direzione narrativa del film. Ma, nel complesso, una parte rilevante degli utenti negativi esponeva posizioni misogine, razziste o ultraconservatrici. Questo dimostra quanto la cultura popolare, attraverso i social media, sia diventata un vettore fondamentale nel processo di polarizzazione.
Importante comprendere che il potere di queste campagne risiede nella loro capacità di incanalare malcontenti diffusi, di rafforzare identità contrapposte e di dissolvere ogni spazio di mediazione. La rete, invece di fungere da piazza democratica, si trasforma così in un’arena dove le identità vengono radicalizzate, i conflitti alimentati e la realtà deformata da narrazioni manipolative. L’illusione dell’autenticità online, unita alla velocità virale delle emozioni condivise, crea un terreno fertile per l’ingegneria sociale su scala globale. Questo è il nuovo volto della guerra d’informazione: invisibile, frammentato, ma profondamente incisivo.
Come garantire l'affidabilità del multicast nei sistemi wireless tolleranti ai guasti?
Quando bisogna considerare il TIPS nei pazienti con cirrosi e ascite e quali sono le alternative palliative?
Come l'Integrazione dell'Intelligenza Artificiale nella Meccatronica Sta Trasformando le Industrie e la Vita Quotidiana
Come si dimostra il teorema dei numeri primi di Linnik e quali sono le implicazioni della distribuzione degli zeri degli L-funzioni?
Come la Potenza Marittima Romana e Greca ha Influito sulle Strategie Navali Antiche

Deutsch
Francais
Nederlands
Svenska
Norsk
Dansk
Suomi
Espanol
Italiano
Portugues
Magyar
Polski
Cestina
Русский