Rousseau ci offre una riflessione profonda sulla natura umana, che si distacca da quella di ogni altro pensatore precedente. Per lui, l’uomo non ha una “natura” fissa, ma una “storia” in continua evoluzione. L’umanità non possiede caratteristiche naturali stabili come, ad esempio, la sociabilità che i pensatori della legge naturale moderna attribuiscono all’individuo. Infatti, secondo Rousseau, l’unico aspetto naturale che permane nell’essere umano, nonostante le trasformazioni indotte dal contesto sociale, è la tendenza alla preservazione di sé e un certo sentimento di repulsione verso la sofferenza degli altri esseri sensibili. Questi due principi, che precedono la ragione, sono alla base dei diritti naturali, ma non costituiscono la vera sociabilità. La coscienza umana, che si sviluppa nel confronto con gli altri, non è quindi una caratteristica innata, ma una costruzione sociale.
In questa prospettiva, Rousseau presenta un’immagine radicalmente cosmopolita dell’uomo. Per lui, l’individuo è, in principio, una creatura che può esistere al di fuori di qualsiasi contesto sociale particolare. È, in altre parole, un cosmopolita per natura. Questa idea diventa evidente nel Discorso sull'ineguaglianza, dove Rousseau invita il lettore a mettere in discussione le narrazioni storiche costruite dagli uomini, spesso false, per affidarsi a una lettura della natura che non inganna mai. Tuttavia, nel momento in cui Rousseau espone la propria visione del “cosmopolitismo”, emerge una contraddizione: questa visione radicale dell’uomo come essere naturale si rivela impraticabile.
Nel Rêveries du promeneur solitaire (Le Rovine del camminatore solitario), Rousseau si presenta come l’uomo oltre ogni legame sociale. In questo lavoro, l’autore si isola dalla società, cercando di tornare alla sua essenza naturale. "Sono solo sulla Terra, non ho più nessun fratello, nessun vicino, nessun amico o società se non me stesso", scrive. In questo isolamento, egli ha l’opportunità di esaminare la propria anima, come un ricercatore che osserva la natura. La solitudine gli permette di provare l’esperienza della sua esistenza pura, priva di qualsiasi influsso esterno. Tuttavia, questa condizione di solitudine e introspezione non è duratura. L’uomo, pur avendo raggiunto uno stato di distacco, non può fare a meno delle sue passioni e dei suoi legami sociali, che sono il prodotto della sua educazione e delle sue esperienze. L’esperienza di Rousseau in questo stato sembra ricondurre a un’idea dell’uomo naturale, ma solo per un breve periodo. La sua natura, sviluppata in società, non può essere separata da essa.
L’altra versione di cosmopolitismo proposta da Rousseau è incarnata nel personaggio di Émile, protagonista del trattato pedagogico Émile, o dell'educazione. In questo lavoro, Rousseau traccia la figura di un uomo che, pur appartenendo alla natura, è destinato a vivere in una società. Non si tratta più di un uomo “selvaggio” che vive fuori dalla civiltà, ma di un uomo che, pur preservando una certa autenticità naturale, è formata dalle sue relazioni sociali. Émile non è, quindi, un cosmopolita nel senso stretto del termine, poiché la sua esistenza è inevitabilmente legata a legami personali e affettivi. L’amore romantico che Émile prova per Sophie, ad esempio, lo ancorerà a un particolare individuo, rendendo difficile concepirlo come un cosmopolita universale.
Rousseau ci mostra così che, sebbene l’uomo sia radicalmente cosmopolita nel suo principio naturale, la sua concreta esperienza di vita lo radica inevitabilmente in un contesto sociale e affettivo. Nonostante la sua visione cosmopolita, Rousseau si rende conto che l’individuo, per quanto possa cercare di sfuggire alle limitazioni della società, è sempre costretto a fare i conti con esse. In questo modo, il suo cosmopolitismo rimane una teoria non realizzabile in pratica, poiché l’individuo non può separarsi completamente dai legami che lo definiscono come membro di una particolare società.
Il rifiuto del cosmopolitismo pratico da parte di Rousseau non implica un’avversione verso l’idea di una comunità universale, ma piuttosto un’osservazione della realtà umana: l’individuo, sebbene naturale in principio, è inesorabilmente plasmato dalla sua esperienza sociale. La coscienza sociale e le emozioni legate all’affetto e al desiderio non possono essere eliminate. Tuttavia, questa consapevolezza non deve spingerci a rigettare ogni idea di cosmopolitismo, ma a riflettere su di esso in modo più complesso.
In sostanza, il pensiero di Rousseau invita a una riflessione sul nostro posto nel mondo: l’individuo è per natura capace di vivere al di fuori di qualsiasi legame sociale, ma non può fare a meno della comunità, della società e delle relazioni che ne derivano. Questo dualismo tra libertà individuale e legami sociali è un tema centrale non solo per Rousseau, ma per la comprensione di ogni possibile forma di cosmopolitismo. La vera sfida, quindi, è trovare un equilibrio tra il bisogno di indipendenza dell’individuo e la necessità di essere parte di una società che ne modella l’identità e il destino.
Il diritto cosmopolita di Kant: Immigrazione, legge e apertura verso il mondo
Kant non avrebbe alcun problema con le manifestazioni pacifiche, purché si svolgano nel rispetto della legge. Tuttavia, egli avrebbe visto l'immigrazione irregolare come un problema, in quanto i migranti senza documenti violano la legge nazionale eludendo i porti di ingresso designati. Questo comportamento mina il governo repubblicano, poiché mina la capacità di una nazione di determinare il proprio destino politico. Sostenere i diritti di tali individui, come ad esempio attraverso leggi che conferiscano diritti di voto o benefici educativi ai migranti senza documenti, perpetuerebbe ulteriormente la violazione del governo repubblicano. Secondo Kant, il rispetto per l'autodeterminazione politica di uno stato implica il rispetto delle leggi di immigrazione e la gestione equa dei flussi migratori.
Tuttavia, Kant non avrebbe mai sostenuto deportazioni di massa o detenzioni arbitrarie di immigrati irregolari. Piuttosto, avrebbe cercato di trattare le loro richieste di ingresso sotto il regno della legge. Questo approccio, seppur rigoroso, si adatta alla visione kantiana della giustizia, in cui le decisioni politiche devono essere prese seguendo procedure legali stabilite, senza cedere alla violenza o all’arbitrarietà. Kant avrebbe probabilmente visto la possibilità di deportazioni di massa, anche se legittimate da processi legali, come una scena simile a quella di un "macello", in quanto tale azione comporterebbe la separazione di famiglie e la distruzione di molte vite, il che minerebbe il fragile equilibrio del diritto.
In un contesto come quello descritto, Kant potrebbe sostenere l'amnistia o un percorso verso la cittadinanza per gli immigrati irregolari, come modo per ristabilire lo stato di diritto. Questi migranti non violano la legge volontariamente, ma spesso si trovano costretti a farlo a causa di circostanze disperate. Kant avrebbe quindi ritenuto che gli stati occidentali avessero ancora molta strada da fare per creare una politica migratoria realmente "a porte aperte", come suggerisce la dottrina cosmopolita di Song. Kant, infatti, sosteneva che gli stati dovessero essere ospitali, ossia avere le porte aperte per chiunque desideri entrare, specialmente in situazioni di emergenza.
Per Kant, avere porte aperte non significa solo accogliere chiunque, ma implica l’esistenza di politiche di immigrazione chiare e procedure rapide e giuste per determinare chi può entrare. Ciò richiede una gestione razionale e non arbitraria dei flussi migratori, evitando la chiusura delle porte a chi è vulnerabile. Nella sua visione, sia le posizioni di destra, che tentano di rafforzare il potere statale sugli immigrati, che quelle di sinistra, che sostengono i diritti degli immigrati irregolari senza considerare la legge, violano entrambe il principio fondamentale dello stato di diritto. La soluzione kantiana per bilanciare i diritti nazionali e cosmopoliti sarebbe di portare tali diritti sotto il dominio della legge.
Tuttavia, Kant non si fermerebbe a una visione puramente giuridica della questione, e sarebbe sensibile alle tragedie umane che emergono da situazioni di immigrazione irregolare. Per affrontare le cause profonde di tali tragedie, Kant suggerirebbe una cooperazione internazionale che affronti i conflitti tra stati e fornisca aiuti a paesi in condizioni di grave privazione materiale, come quelli colpiti da disastri naturali. Questi conflitti e calamità sono, infatti, alla radice di gran parte dei flussi migratori. Secondo Kant, sarebbe quindi preferibile risolvere le cause fondamentali della miseria globale attraverso la cooperazione internazionale piuttosto che limitarsi a trattare i sintomi della crisi migratoria. Affrontando le cause profonde, è possibile combinare autodeterminazione nazionale e diritti umani, evitando di ignorare le sofferenze di coloro che vivono nelle condizioni più precarie.
Un aspetto fondamentale da aggiungere a quanto già discusso riguarda il ruolo delle politiche internazionali nell'affrontare le disuguaglianze globali. Kant non sostiene una visione di cosmopolitismo che annulli le differenze tra stati, ma piuttosto una che riconosca la necessità di collaborazione tra stati sovrani, promuovendo il rispetto reciproco e la solidarietà. La sua visione di un "diritto cosmopolita" non implica una sottomissione degli stati ad una entità superiore, ma la creazione di un sistema di regole condivise che permettano a tutti di vivere dignitosamente, evitando che la povertà e la guerra diventino le principali cause di migrazione forzata.
Inoltre, sebbene il principio di ospitalità cosmopolita sia centrale nel pensiero di Kant, va sottolineato che non implica un'infinita apertura senza limiti. L'accoglienza deve essere gestita in modo da rispettare la dignità di tutti, garantendo che le risorse statali non vengano compromesse e che le leggi di immigrazione non diventino strumenti di esclusione ingiustificata. In ultima analisi, la chiave per comprendere il pensiero di Kant riguardo l'immigrazione è la capacità di trovare un equilibrio tra il rispetto dei diritti degli immigrati e la salvaguardia della stabilità interna degli stati, un compito difficile ma fondamentale in un mondo globalizzato.
La laicità francese può realmente garantire la libertà religiosa?
Il principio della “laicité” nella Repubblica francese è spesso presentato come garanzia di libertà religiosa, ma il suo funzionamento concreto rivela una tensione profonda tra neutralità dello Stato e riconoscimento delle diversità religiose. A differenza del modello americano, che ammette l'obbligo per il datore di lavoro di garantire un’“accomodazione ragionevole” per le pratiche religiose del dipendente, purché ciò non comporti un “onere eccessivo”, la Francia si distingue per un approccio molto più rigido e uniforme.
Nel contesto statunitense, il principio dell'accomodamento ragionevole consente, ad esempio, a un impiegato sabbatariano di non lavorare il sabato per motivi religiosi, purché il datore non debba affrontare costi straordinari o violazioni contrattuali per garantire tale accomodamento. Perfino nei casi di discriminazione indiretta—quando una regola apparentemente neutra impone un onere sproporzionato su individui religiosi—la legge americana interviene per proteggere la libertà religiosa.
Al contrario, in Francia, la concezione legale e culturale della laicità respinge l’idea stessa di discriminazione indiretta. Trattare tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla loro condizione o appartenenza, viene visto come sufficiente per garantire l'eguaglianza. Questo rifiuto dell'accomodamento si manifesta emblematicamente nella legge del 2004 che vieta l’ostentazione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche. Anche se formalmente neutra, essa colpisce in modo sproporzionato le ragazze musulmane che indossano il velo, rendendola, nella pratica, una forma di discriminazione indiretta non riconosciuta come tale dal diritto francese.
Laborde evidenzia che questa posizione nasce non solo da una tradizione giuridica differente, ma da una visione repubblicana della religione come fatto esclusivamente privato. La laicità, in questa ottica, impone non solo allo Stato di non interferire con la religione, ma anche alle religioni di non interferire con lo Stato. Ne deriva una richiesta implicita ma radicale: le religioni devono “laicizzarsi”, adattando dottrine e pratiche per rispettare l’ordine pubblico, la neutralità dello spazio pubblico e la supremazia della legge civile.
Secondo Laborde, questa trasformazione richiede tre passaggi fondamentali: la privatizzazione della fede, l’adattamento delle dottrine religiose alla legge dello Stato e la nazionalizzazione dell’autorità religiosa. Il caso della Chiesa cattolica è illuminante. Dopo un lungo conflitto, essa ha accettato il pluralismo religioso e la separazione tra religione e politica solo dopo il Concilio Vaticano II del 1964. L’Islam, invece, secondo molti repubblicani francesi, non ha ancora intrapreso questo percorso. L’idea di una fede totalizzante, l’assenza di una chiara separazione tra legge religiosa e legge civile, e la centralità dell’Umma come comunità transnazionale, sono visti come ostacoli fondamentali all’integrazione repubblicana.
A ciò si aggiunge l’assenza di un’autorità religiosa islamica centralizzata in grado di dialogare efficacemente con lo Stato. Il Consiglio Francese del Culto Musulmano rappresenta un tentativo istituzionale di creare un “Islam francese”, indipendente da influenze straniere e compatibile con i principi della Repubblica. Ma il progetto rimane fragile, ostacolato da diffidenze reciproche e da una rappresentazione pubblica dell’Islam come portatore di proselitismo, quindi potenzialmente destabilizzante per l’ordine sociale.
La laicità non si limita dunque a un principio di separazione istituzionale, ma si estende all’identità pubblica del cittadino. Essere francese, secondo questo modello, non significa soltanto avere la cittadinanza, ma aderire attivamente ai valori repubblicani, che includono l’uguaglianza, la razionalità, e la neutralità confessionale. Il cittadino laico non è so

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