La malattia celiaca si manifesta con una perdita dell’architettura normale della mucosa duodenale, caratterizzata dall’appiattimento dei villi e dall’iperplasia delle cripte, accompagnata da un aumento significativo dei linfociti intraepiteliali (IEL), soprattutto verso le punte dei villi. Questi IEL, principalmente linfociti T, possono essere evidenziati tramite colorazioni immunoistochimiche specifiche come CD3. La classificazione morfologica più accreditata, i criteri di Marsh e la loro modifica da Oberhuber, suddividono la malattia in diversi stadi a seconda dell’entità dell’atrofia villosa e dell’iperplasia criptica, mentre la classificazione di Corazza semplifica questa valutazione in gradi A, B1 e B2. È importante sottolineare che, anche in caso di trattamento efficace e restitutio ad integrum dell’architettura villosa, i linfociti intraepiteliali rimangono elevati, segno di una persistenza dell’attivazione immunitaria.

L’appiattimento villoso, sebbene tipico della celiachia, può essere riscontrato anche in altre condizioni patologiche, quali allergie alimentari (ad esempio al latte vaccino nei bambini), dermatite erpetiforme, duodenite da FANS, infezioni come la giardiasi o patologie infiammatorie croniche come il morbo di Crohn. Inoltre, condizioni come la malnutrizione severa, la crescita batterica e deficit immunitari possono mimare queste alterazioni istologiche. Per questo motivo, la diagnosi differenziale basata esclusivamente su aspetti morfologici richiede una valutazione clinica e laboratoristica integrata.

Le complicanze associate alla malattia celiaca non controllata o refrattaria sono molteplici e di rilevante gravità. Il collagenous sprue si distingue per un ispessimento marcato della lamina subepiteliale di collagene, associato a grave appiattimento villoso. L’ulcera jejunoileite presenta numerose lesioni ulcerative trasversali principalmente nel digiuno, mentre la neoplasia più temuta è il linfoma T associato all’enteropatia, una forma maligna che colpisce prevalentemente soggetti adulti con celiachia di lunga durata. Infine, è stata documentata un’incidenza aumentata di adenocarcinomi intestinali e carcinomi in sedi extraintestinali quali orofaringe, polmone, mammella e ovaio.

L’enterite infettiva rappresenta un gruppo eterogeneo di condizioni caratterizzate da specifiche alterazioni istologiche e agenti eziologici. La giardiasi è una delle cause più frequenti, con il protozoo Giardia lamblia che colonizza la porzione superiore dell’intestino tenue e si presenta in forme trofozoitiche e cistiche. L’infezione da Mycobacterium avium intracellulare colpisce prevalentemente soggetti immunocompromessi, causando infiltrazione di istiociti nella lamina propria con abbondanti bacilli acido-resistenti evidenziabili con colorazione di Kinyoun, spesso in assenza di granulomi. La malattia di Whipple, causata dal batterio Tropheryma whippelii, si distingue per l’espansione della lamina propria da parte di macrofagi contenenti bacilli resistenti al diastasi e positivi al PAS, associata a dilatazione linfatica secondaria all’ostruzione dei dotti linfatici. Oltre a queste, numerosi altri agenti parassitari e micotici possono causare enteriti, ciascuno con pattern istopatologici peculiari.

Tra le condizioni meno comuni, ma di notevole interesse, vi è la linfangiectasia, spesso primaria nei bambini piccoli, caratterizzata da dilatazione linfatica nella lamina propria superficiale. Può presentarsi anche in forme secondarie, conseguenti a processi infiammatori o neoplastici. L’enterite ischemica si manifesta invece con emorragia nella lamina propria e, in forme più severe, con necrosi e distacco della mucosa. Il quadro istologico della malattia da trapianto contro l’ospite (GVHD) si basa principalmente sulla presenza di apoptosi focale nelle cripte epiteliali, indicativa del danno immunitario acuto.

È cruciale per il lettore comprendere che la complessità delle alterazioni istologiche dell’intestino tenue riflette la molteplicità di meccanismi patologici che possono interessare questa porzione dell’apparato digerente. La diagnosi e la gestione di tali condizioni richiedono una sinergia tra esame istologico, dati clinici e strumenti diagnostici molecolari o immunologici avanzati. L’interazione tra dieta, microbiota intestinale e sistema immunitario rappresenta inoltre un terreno fertile per nuovi approcci terapeutici, specie nelle malattie infiammatorie e autoimmuni intestinali. Il riconoscimento tempestivo delle alterazioni istologiche e la valutazione del contesto clinico sono essenziali per prevenire complicanze severe e migliorare la qualità di vita dei pazienti.

Come modificare la terapia con metotrexato in base ai risultati della biopsia epatica?

La classificazione istopatologica del danno da metotrexato, proposta da Roenigk, include diversi stadi che vanno dall'infiltrazione grassa (stadio 1) fino alla cirrosi (stadio IV). I segni istologici caratteristici di questa tossicità sono l’infiltrazione adiposa, la variabilità nucleare, l'infiammazione e necrosi portale e la fibrosi. Ogni stadio ha una gestione terapeutica specifica.

Per i casi di grado I e II, la raccomandazione è di continuare la terapia e ripetere la biopsia dopo un accumulo di 1,5-2 g della dose cumulativa. Questo approccio riflette una forma di danno epatico relativamente lieve, che non giustifica una sospensione del trattamento immediata, ma piuttosto un monitoraggio attento e continuato. Nel caso di grado IIIa, con lieve fibrosi, la terapia con metotrexato può essere continuata, ma è opportuno ripetere la biopsia dopo sei mesi per monitorare l'evoluzione della condizione epatica. Per i casi più gravi, come nei gradi IIIb e IV, che evidenziano una fibrosi moderata o addirittura una cirrosi, è necessaria l'interruzione immediata della terapia, in quanto il rischio di danno epatico irreversibile è elevato.

Questo approccio permette una gestione dinamica della terapia, bilanciando i benefici del trattamento con il rischio di danno epatico. In contesti clinici complessi, dove l'uso del metotrexato è fondamentale, una valutazione attenta della biopsia epatica diventa cruciale per evitare complicanze gravi.

La comprensione della tossicità da metotrexato richiede quindi una gestione attenta delle dosi cumulative e una vigilanza costante durante il trattamento, al fine di adattare la terapia in base all'evoluzione dei danni epatici. Nonostante la possibilità di proseguire la terapia in stadi iniziali, è fondamentale un monitoraggio rigoroso per prevenire l'insorgere di complicanze più serie.

Il danno epatico indotto da farmaci è un aspetto che richiede particolare attenzione, soprattutto quando si considera la gestione di farmaci che interagiscono con il sistema immunitario, come gli inibitori del checkpoint immunitario (ICI). Gli ICI, pur offrendo significativi benefici terapeutici in oncologia, possono essere responsabili di eventi avversi legati al sistema immunitario, tra cui danni epatici.

Gli ICI come ipilimumab e nivolumab possono causare danno epatico in una percentuale variabile di pazienti. Questi farmaci attivano il sistema immunitario, favorendo una risposta immunitaria contro le cellule tumorali, ma a volte questa attivazione può innescare effetti collaterali infiammatori, tra cui danni al fegato. Sebbene il danno epatico da ICI sia relativamente raro (con incidenze che variano tra l'1% e il 16%), la sua gestione è complessa e richiede un approccio tempestivo e mirato. Nel caso di danno epatico grave (grade 3 o 4), il trattamento con corticosteroidi è la terapia di scelta.

Molti farmaci comuni, oltre agli ICI, sono anche noti per causare danni epatici. Tra questi, alcuni antibiotici come l'amoxicillina-acido clavulanico, il rifampicina e il paracetamolo, possono causare reazioni epatiche variabili che vanno dalla colestasi alla necrosi epatica. Il trattamento dipende dalla gravità del danno e può includere la sospensione del farmaco o l'uso di farmaci steroidei, come nel caso della reazione idiosincratica a determinati antibiotici.

Tra i farmaci che possono causare danno epatico, i steroidi anabolizzanti e i contraccettivi orali sono particolarmente rilevanti in contesti clinici non strettamente medici. L'uso di steroidi anabolizzanti, soprattutto in ambito sportivo, è spesso associato a epatotossicità, e il danno al fegato può variare dalla colestasi alla cirrosi epatica, una condizione potenzialmente pericolosa.

L'uso di farmaci come il paracetamolo, sebbene molto comune, può anche portare a danni epatici se assunto in dosi elevate. Questi danni sono spesso legati a un metabolismo eccessivo del farmaco nel fegato, che porta alla formazione di metaboliti tossici. L'intossicazione da paracetamolo è una delle cause più frequenti di insufficienza epatica acuta e può richiedere un trattamento urgente, come la somministrazione di N-acetilcisteina per contrastare gli effetti tossici.

Infine, è essenziale considerare che il danno epatico indotto da farmaci può manifestarsi con sintomi molto variabili. In alcuni casi, i segni clinici sono lievi, come stanchezza o lieve ittero, ma in altri casi il danno è acuto e può evolvere rapidamente in insufficienza epatica. La diagnosi precoce è cruciale per prevenire complicazioni gravi.

La gestione dei danni epatici indotti da farmaci deve quindi essere altamente individualizzata, considerando sia il tipo di farmaco che la risposta clinica del paziente. Monitorare regolarmente la funzione epatica, sospendere tempestivamente farmaci sospetti e, se necessario, intervenire con terapie specifiche come i corticosteroidi, sono tutte strategie fondamentali per minimizzare il rischio di danni irreversibili al fegato.