La maledizione che giunse a Sarnath: La fine di una civiltà
Nel vasto lago di Mnar, che non è alimentato da nessun fiume e da cui nessun corso d’acqua scorre, giaceva un'antica città che esisteva diecimila anni fa: Sarnath. Ma Sarnath non esiste più. Nel periodo immemorabile, quando il mondo era ancora giovane, prima che gli uomini di Sarnath giungessero in questa terra, un’altra città sorgeva sulla riva del lago: la città grigia di Ib, che era vecchia quanto lo stesso lago. Gli esseri che abitavano quella città erano così strani e deformi che apparivano come una parte inquietante di un mondo ancora in formazione. Il loro aspetto era decisamente non umano, con occhi gonfi, labbra flaccide e strane orecchie. Non avevano voce e la loro pelle era verde come il lago e le nebbie che vi si sollevavano.
Si narra che questi esseri provenissero dalla luna, giunti in una nebbia notturna. Si racconta anche che adorassero un idolo di pietra verde, scolpito nella forma di Bokrug, un grande lucertolone acquatico, e che danzassero intorno a lui durante le lune gibbose. Nonostante la loro stranezza, gli esseri di Ib erano in grado di scoprire il fuoco e lo usavano in cerimonie sacre. Ma la loro esistenza rimase sconosciuta a lungo, perché essi appartenevano a un’era così antica che gli uomini sapevano ben poco di loro.
Con il passare dei millenni, un popolo di pastori, provenienti dalle terre vicine, giunse nel paese di Mnar. Essi costruirono le città di Thraa, Ilarnek e Kadatheron lungo il fiume Ai. Alcune tribù più audaci si spinsero fino ai margini del lago e fondarono la città di Sarnath, vicino ai giacimenti di metalli preziosi. Ma, non lontano dalla città di Ib, gli uomini di Sarnath si imbatterono nei suoi abitanti e ne furono tanto sorpresi quanto disgustati. Il loro aspetto suscitava in loro una rabbia profonda, e fu proprio quella rabbia che portò alla fine della città di Ib.
Un giorno, i giovani guerrieri di Sarnath, armati di fionde, lance e archi, marciarono contro Ib. Uccisero tutti gli abitanti e li gettarono nel lago con lunghe lance, rifiutandosi di toccarli. Anche le imponenti colonne di pietra scolpite di Ib furono distrutte e gettate nel lago, e si chiesero come quelle pietre possano essere state trasportate da così lontano. Tuttavia, uno strano oggetto rimase intatto: l’idolo di Bokrug, la lucertola d’acqua, che fu portato a Sarnath come simbolo della vittoria su una civiltà tanto antica quanto bizzarra. Ma il trionfo che gli uomini di Sarnath celebrarono presto si trasformò in un incubo.
La notte stessa in cui l’idolo fu eretto nel tempio, luci strane apparvero sopra il lago, e al mattino il sommo sacerdote Taran-Ish fu trovato morto, vittima di una paura inspiegabile. Prima di morire, Taran-Ish aveva scritto con mano tremante sulla pietra dell’altare un segno: la scritta di DOOM, la rovina. Da quel momento, la città di Sarnath prosperò per molti secoli, ma la memoria di quella maledizione non fu mai cancellata. Il popolo di Sarnath si espanse, divenendo una civiltà ricca e potente, ma quella scritta, che un tempo era stata dimenticata, continuava a risuonare come un monito.
Nel corso dei secoli, Sarnath divenne una città maestosa, con mura di marmo lucido, torri che raggiungevano trecento cubiti di altezza, e strade pavimentate in onice, dove carri, cammelli ed elefanti potevano passare senza ostacoli. Le sue porte di bronzo, scolpite con figure di leoni ed elefanti, erano tra le più grandiose mai viste. I palazzi e i templi, dalle cupole scintillanti, erano un esempio di arte sconosciuta altrove nel mondo di Mnar. La città divenne così potente che le sue armate conquistarono molte terre vicine, e Sarnath divenne il centro di tutte le terre conosciute.
Eppure, la maledizione che aleggiava su quella città non venne mai dimenticata. Un segno di distruzione che sarebbe giunto, inevitabile come la fine di ogni grande civiltà. E così, nonostante tutta la magnificenza di Sarnath, la scritta di Taran-Ish, il messaggio di Doom, continuava a rimanere nel cuore della città, come una verità silenziosa che nessuno osava più affrontare.
A Sarnath, come in tutte le civiltà che si sono credute invincibili, il destino può essere sospeso per un lungo periodo, ma non viene mai davvero eluso. Il grande cerchio della storia è destinato a chiudersi, ed è così che, alla fine, ogni impero si trova di fronte al suo fato, che non può sfuggire.
Qual è il confine tra amore e memoria?
L'amore, quando si intreccia con il passato, diventa un gioco di riflessi e illusioni. Le persone, per quanto vicine, spesso non si conoscono mai davvero. È la stessa idea che anima il dialogo tra i due protagonisti. La donna, che respinge l'avanzata dell'uomo, gli rimprovera la sua incapacità di vederla per ciò che è, di accettarla come lei stessa, non come un ricordo di un'altra. In questa dinamica, il tempo e l'esperienza condivisa non sembrano bastare per un reale incontro. Lei lo rifiuta, non perché non lo conosca, ma perché lo conosce troppo bene; conosce la sua immagine riflessa in un altro amore, un altro "Elizabeth", un altro passato che pesa sull'attualità.
La sua risposta, apparentemente ferma e distaccata, nasconde un'inquietudine profonda: la paura che l'uomo non stia cercando lei, ma un'eco di ciò che è stato. La sua protesta non riguarda solo il desiderio di essere amata, ma anche quello di essere compresa nel proprio contesto, separata dal ricordo, dall'ombra di un altro amore che non ha mai cessato di esistere. Un amore che, purtroppo, non può più corrispondere a chi è diventata nel tempo.
Nel testo si delinea una riflessione sulla natura dell’amore stesso: l’amore come percezione, come proiezione di aspettative su una persona che non coincide mai completamente con l’immagine che la memoria conserva di essa. L’uomo, in questa situazione, non riesce a separare il presente dalla memoria, e questo conflitto tra il ricordo e la realtà genera una distanza incolmabile tra lui e la donna. La sua ricerca non è solo quella di un incontro fisico, ma di un incontro emotivo che la donna non è disposta a concedergli, perché il passato pesa troppo. La donna non respinge l'uomo per una questione di attrazione fisica, ma per il timore che il suo amore per lei sia effettivamente un amore per una versione di lei che non è più reale.
Questo conflitto tra la memoria e l'amore del presente si svela anche nei dettagli delle loro conversazioni: la donna non vuole essere comparata, non vuole essere solo una sostituta di un'altra "Elizabeth". In fondo, sta cercando di far capire che l’amore non è solo un'attrazione fisica o una somiglianza, ma una comprensione profonda e unica dell'altro, che non può essere misurata su base di ricordi o di immagini passate.
In questa discussione si può osservare l'importanza di vivere un amore che si fonda sul presente, su ciò che si è in quel momento. Perché l’amore che si radica nei ricordi, o che cerca di ricreare una versione ideale di ciò che è stato, è destinato a fallire. La donna, nonostante i suoi sentimenti complicati e ambivalenti, è consapevole di questa verità: il ricordo, anche se doloroso, non è mai la realtà.
Nel contesto di questo dialogo, emerge anche il tema della solitudine e dell’indipendenza, temi che spesso si intrecciano con l’amore. La donna, infatti, vive una vita da sola, una condizione che le permette di mantenere una certa autonomia emotiva, ma che, allo stesso tempo, la rende vulnerabile di fronte a chi, come l’uomo, cerca di entrarle nella vita con il peso del passato. La solitudine, dunque, non è solo un rifugio, ma anche una barriera difficile da superare.
Un altro aspetto fondamentale è la percezione che l’uomo ha di se stesso e del suo ruolo in questa relazione. Si percepisce come un intruso in un mondo che non è il suo. L’immagine della città futuristica che visita successivamente, dove le leggi e la tecnologia sembrano inaccessibili e incomprensibili, si fa metafora di una realtà che non può penetrare, un mondo troppo distante da lui per esserne parte. Il conflitto tra il presente e il passato, tra il reale e l’immaginato, si riflette anche nel modo in cui lui si confronta con l’ambiente che lo circonda: estraneo, nonostante i suoi sforzi.
Eppure, c’è un sottile ma potente desiderio di evasione, un bisogno di abbandonarsi a quella visione romantica del mondo che lo spinge ad andare avanti, anche quando la realtà sembra respingerlo. Così come la città futuristica sembra volerlo allontanare, così la donna respinge il suo amore, ma lui, con una sorta di ironia e consapevolezza tragica, si allontana con un sorriso, conscio che la sua ricerca è destinata a rimanere irrealizzata.
Il contrasto tra il ricordo di un amore ideale e la realtà del presente è il fulcro di questo dialogo. La difficoltà di vivere nel presente, di accettare un amore che si disfa delle immagini passate, è un tema che dovrebbe essere ben compreso dal lettore. L’amore non è mai una semplice continuazione di un sentimento che ci è stato imposto dal passato; è qualcosa che deve essere continuamente ricostruito, spesso a partire dalla consapevolezza che il passato non è mai completamente presente.
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