I trattamenti avanzati delle acque reflue sono sempre più cruciali nella gestione dei contaminanti emergenti, come le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS). Questi composti, estremamente persistenti nell'ambiente, sono noti per la loro capacità di contaminare le acque sotterranee, le superfici acquatiche e, di conseguenza, le risorse idriche potabili. La difficoltà nel rimuovere efficacemente le PFAS dalle acque reflue è dovuta alla loro resistenza alla degradazione naturale e alla loro solubilità in acqua, che facilita la loro dispersione su vasta scala. Le tecniche di trattamento convenzionali, come l'adsorbimento su carbone attivo o l'osmosi inversa, sebbene utili, non sono sempre sufficienti per eliminare completamente queste sostanze, richiedendo quindi lo sviluppo di metodi innovativi.

Tra le tecnologie emergenti, l'uso dei trattamenti al plasma a doppio bagno dielettrico (DBD) e l'ultrasuono stanno mostrando un potenziale significativo. I trattamenti al plasma DBD, che utilizzano scariche ad alta tensione in un gas inerte per generare specie reattive, sono in grado di decomporre efficacemente una vasta gamma di contaminanti organici, inclusi i PFAS. Questi metodi sono considerati promettenti per il trattamento delle acque reflue industriali, in quanto combinano alte efficienze di degradazione con una bassa produzione di sottoprodotti indesiderati.

L’ultrasuono, d'altra parte, impiega onde acustiche ad alta frequenza per generare microbolle che, attraverso un processo di cavitazione, producono elevati livelli di energia termica e pressurizzata, in grado di rompere i legami chimici delle molecole inquinanti. La combinazione dell'ultrasuono con i processi di ossidazione avanzata, come l'uso di perossido di idrogeno o ozono, ha mostrato risultati promettenti nella rimozione dei PFAS, con tempi di reazione più brevi e una riduzione significativa dei contaminanti nelle acque trattate.

Le tecniche di trattamento elettrochimico, come l'uso di elettrodi a diamante drogato di boro, sono un altro campo in espansione nella rimozione dei PFAS dalle acque reflue. Questi elettrodi possono generare specie reattive come i radicali ossidrili, che possono decomporre i PFAS a livelli molecolari. Sebbene questa tecnologia non sia ancora ampiamente implementata, gli sviluppi recenti suggeriscono che potrebbe diventare una parte integrante dei sistemi di trattamento delle acque potabili, in particolare per rimuovere composti ad alta persistenza come il perfluorooctano sulfonato (PFOS).

Inoltre, l’utilizzo di reazioni fotocatalitiche sta emergendo come un approccio interessante per la degradazione dei PFAS. Utilizzando materiali come il Pt/La2Ti2O7, è possibile indurre la defluorizzazione dei composti perfluorati sotto l’influenza di luce UV, un metodo che offre potenzialmente un'alternativa economica ed ecocompatibile per il trattamento delle acque contaminate. L'efficacia di queste tecnologie, tuttavia, dipende da vari fattori, tra cui la composizione chimica dell'acqua e la concentrazione di PFAS, elementi che richiedono un continuo adattamento dei processi di trattamento in base alle condizioni specifiche di ogni sito.

È anche fondamentale considerare la questione della gestione dei rifiuti derivanti dai trattamenti delle acque contaminati da PFAS. L’eliminazione dei PFAS non comporta solo la loro distruzione nell’acqua, ma anche la gestione dei sottoprodotti generati dai processi di trattamento, che devono essere adeguatamente smaltiti per evitare la reintroduzione di questi composti nell’ambiente. Ad esempio, le acque reflue trattate che contengono ancora tracce di PFAS o i materiali adsorbenti saturati di PFAS devono essere trattati ulteriormente o distrutti in modo sicuro.

Un altro aspetto cruciale da tenere a mente riguarda l'efficacia delle tecnologie di trattamento rispetto alla diversa struttura chimica dei PFAS. Le catene lunghe, come il PFOS e il PFOA, sono spesso più difficili da trattare rispetto alle catene corte, che possono essere rimosse più facilmente con tecniche di adsorbimento o di ossidazione. La varietà nella struttura chimica di queste sostanze implica che non esista una soluzione universale e che ogni metodo di trattamento debba essere scelto in funzione della specificità della contaminazione.

Infine, è importante tenere presente che la rimozione completa dei PFAS dalle acque reflue non si limita solo alla distruzione dei composti, ma implica anche una gestione a lungo termine dei rischi sanitari associati. La conoscenza delle concentrazioni residue di PFAS e la loro potenziale migrazione nell'ambiente circostante sono elementi fondamentali per garantire che le acque trattate siano veramente sicure per il consumo umano e animale. Le normative internazionali, che stanno evolvendo rapidamente, richiedono sempre più un controllo rigoroso delle concentrazioni di questi composti nelle acque potabili e negli scarichi industriali, accelerando l'adozione di tecnologie di trattamento avanzate.

Come affrontare i residui di glifosato nell'ambiente: strategie di bonifica e metodi di rimozione

Il glifosato è uno degli erbicidi più ampiamente utilizzati in agricoltura a livello globale, ma anche uno dei più controversi per i suoi impatti potenzialmente dannosi sull'ambiente e sulla salute umana. Nonostante i dibattiti in corso sull'efficacia e sulla sicurezza dell'uso di questo composto, la sua presenza nei suoli e nelle acque continua a destare preoccupazione. L'Unione Europea, fin dal 2010, ha lanciato la "Strategia Tematica sull'Uso Sostenibile dei Pesticidi", per cercare di limitare i rischi derivanti dall'uso indiscriminato di pesticidi, incluso il glifosato (Kudsk e Mathiassen, 2020). Tuttavia, le discussioni politiche sulla sua messa al bando sono continuate, con l'EFSA (Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare) che, nel 2015, ha dichiarato che il glifosato era “poco probabile” che rappresentasse un rischio cancerogeno per l'uomo, basandosi su una valutazione del rischio da parte dell'Istituto Federale Tedesco per la Valutazione del Rischio (BfR) (EFSA, 2015). Nonostante ciò, l'opposizione di paesi come la Francia e l'Italia ha spinto l'Unione Europea a valutazioni ulteriori e a estendere l'autorizzazione dell'uso del glifosato fino al dicembre 2023. La gestione della presenza del glifosato nei suoli e nelle acque è, quindi, una questione di fondamentale importanza per garantire la sicurezza ambientale e la salute pubblica.

Approcci di bonifica per i residui di glifosato

Poiché il glifosato può accumularsi nei suoli e nelle acque, è essenziale adottare metodi efficaci per rimuoverlo dall'ambiente. La prevenzione, ad esempio, l'uso di strisce di vegetazione lungo i campi agricoli e le zone ripariali, è una delle tecniche più utilizzate per ridurre la contaminazione delle risorse idriche (Reichenberger et al., 2007; Liu et al., 2008). Le strisce filtranti di vegetazione, che si trovano nelle vicinanze delle aree agricole, sono fondamentali per limitare il trasporto di contaminanti attraverso il deflusso superficiale delle acque (Schmitt et al., 1999). L'uso di barriere vegetali, come strisce di erba alta e densa, è una soluzione promettente per migliorare la qualità dell'acqua, riducendo al contempo il carico di sedimenti nei corpi idrici (Dosskey, 2001).

Tuttavia, queste tecniche, sebbene utili, non possono eliminare completamente il glifosato e i suoi metaboliti, che sono altamente persistenti nell'ambiente. Pertanto, sono necessari approcci tecnologici avanzati, come metodi fisico-chimici e biologici, per garantire la rimozione efficace di queste sostanze contaminanti. Le metodologie fisico-chimiche includono l'adsorbimento, il processo di ossidazione avanzata, la filtrazione su membrana, la clorazione e l'ozonizzazione (Assalin et al., 2009; Speth, 1993; Mohanty e Das, 2022). Questi trattamenti sono in grado di ridurre significativamente la concentrazione di glifosato nelle acque e nei suoli.

Metodi fisico-chimici per la rimozione del glifosato

L'adsorbimento è uno dei metodi più efficaci per rimuovere il glifosato dall'acqua e dai reflui. In questo processo, le molecole di glifosato si legano ai materiali adsorbenti attraverso interazioni fisiche e chimiche, come le forze molecolari, i legami di idrogeno e le interazioni elettrostatiche (Pereira et al., 2021). La capacità di adsorbimento dipende da diversi fattori, tra cui la superficie specifica del materiale e le sue proprietà chimiche. Materiali come il biochar, il carbone attivo, i residui industriali e le resine sono stati utilizzati per rimuovere il glifosato e i suoi metaboliti dalle acque reflue (Feng et al., 2020). Tra questi, il carbone attivo è stato uno dei primi adsorbenti studiati, ma la sua applicazione su larga scala è limitata dal suo alto costo (Jönsson et al., 2013).

Il biochar, ottenuto da materiale organico attraverso la pirolisi, è un materiale adsorbente molto promettente, grazie al suo costo relativamente basso e alla sua alta capacità di adsorbire contaminanti. Studi recenti hanno dimostrato che il biochar derivato dalla crusca di riso può rimuovere efficacemente il glifosato, con capacità di adsorbimento fino a 123 mg g-1 (Herath et al., 2016). Questo materiale, insieme ad altri come la zeolite e il grafene, offre una soluzione economica ed ecologica per la bonifica dei siti contaminati.

Metodi biologici di rimozione del glifosato

Oltre ai trattamenti fisico-chimici, sono in fase di sviluppo anche metodi biologici per la rimozione del glifosato dall'ambiente. Questi approcci sfruttano organismi viventi, come batteri e funghi, in grado di degradare o trasformare il glifosato in composti meno tossici. La bioremediation, ovvero l'utilizzo di microrganismi per rimuovere o neutralizzare i contaminanti, è una tecnologia che sta guadagnando sempre più attenzione. L'uso di enzimi degradanti il glifosato, come il glifosato ossidasi, è una delle soluzioni biologiche più promettenti per trattare i residui nei suoli e nelle acque (Dinehart et al., 2009; Souza et al., 2013).

Tuttavia, l'efficacia di questi metodi biologici dipende da vari fattori, tra cui la natura del suolo, le condizioni ambientali e la presenza di altri contaminanti. In molte situazioni, una combinazione di approcci fisico-chimici e biologici può risultare la soluzione più efficace.

Impatti del glifosato sull'ambiente e sulla salute umana

Oltre alla necessità di sviluppare tecniche di bonifica, è fondamentale comprendere gli impatti ecologici e sanitari del glifosato. I residui di glifosato nei suoli e nelle acque possono avere effetti devastanti sulla biodiversità, influenzando negativamente la fauna acquatica e i microrganismi del suolo. Inoltre, l'esposizione umana al glifosato è stata associata a una serie di effetti nocivi per la salute, tra cui reazioni allergiche, disturbi respiratori e cardiaci, e alterazioni endocrinologiche (Richard et al., 2005). La crescente resistenza al glifosato tra alcune specie vegetali e la contaminazione delle risorse idriche sono ulteriori motivi di preoccupazione.

La gestione responsabile del glifosato e dei suoi residui non deve limitarsi alla rimozione immediata, ma deve essere accompagnata da una riduzione complessiva dell'uso di erbicidi attraverso pratiche agricole più sostenibili. La promozione di metodi di agricoltura biologica e di controllo biologico delle infestanti potrebbe ridurre la dipendenza da prodotti chimici e contribuire a un ambiente più sano.

Quali sono i trattamenti combinati per rimuovere il glifosato dall'ambiente?

I processi di trattamento combinato utilizzano insieme metodi biologici (microorganismi e piante) e fisico-chimici per trattare l'acqua potabile e le acque piovane. Ad esempio, la tecnica del biofiltro, che combina l'assorbimento e la degradazione microbica, si è rivelata efficace nella rimozione del glifosato (Espinoza-Montero et al., 2020). L'impiego di diverse tipologie di vegetazione in biofiltro o in aree di bio-retention, che impiegano un terreno poroso come media filtrante in bacini poco profondi, è altrettanto efficace nel rimuovere il glifosato dalle acque superficiali (Zhang et al., 2015, Yang et al., 2013). Tra le specie vegetali promettenti si trovano Melaleuca ericifolia, Eupatorium perfoliatum, Tradescantia ohiensis, Veronicastrum virginicum, Eragrostis spectabilis, Sorghastrum nutan, Echinacea purpurea e altre (Zhang et al., 2015, Yang et al., 2013). Le zone umide costruite rappresentano un'altra valida opzione per sfruttare l'assorbimento e l'attività microbica per rimuovere il glifosato (Liang et al., 2020).

In alcuni casi, combinazioni di altri metodi sono state altrettanto efficaci. Nello studio di Zhang et al. (2011), l'assorbimento su nano-metallo/resina è stato combinato con l'ossidazione avanzata (ossidazione di Fenton) per la degradazione di un campione di acque reflue industriali contaminato da 258 mg L−1 di glifosato. I ricercatori hanno ottenuto un'efficienza di degradazione del glifosato pari al 60%. Poiché diversi processi possono essere utilizzati insieme nei metodi combinati, questa tecnologia si sta rivelando promettente per il trattamento del glifosato.

Il glifosato è l'erbicida più utilizzato al mondo e il suo impiego continua a crescere. Si tratta di un erbicida non selettivo unico, il cui meccanismo d'azione è ideale per la gestione della vegetazione sia in ambienti agricoli che non agricoli. Il suo uso è aumentato notevolmente con l'introduzione delle colture transgeniche resistenti al glifosato (GR). Tutti gli effetti fitotossici del glifosato derivano dall'inibizione della sintasi 5-enolpiruvilshikimato-3-fosfato (EPSPS), ma l'inibizione di quest'enzima della via dello shikimato comporta molteplici conseguenze fitotossiche, sia a monte che a valle di EPSPS, inclusa la perdita delle difese delle piante contro i patogeni. Sebbene l'erbicida sia biodegradabile e lasci il suolo "pulito", alla sua degradazione si formano metaboliti più persistenti, tra cui l'AMPA. Di conseguenza, il glifosato residuo e l'AMPA sono stati trovati in suolo e acqua in tutto il mondo. Recentemente, le gravi conseguenze per la salute umana e per l'ambiente sono ben documentate, tanto che l'IARC ha concluso che "probabilmente causa il cancro nell'uomo".

Diversi studi hanno anche dimostrato che le formulazioni di glifosato contenenti POEA sono più tossiche del glifosato puro. Il problema è che molte autorità di regolamentazione hanno le proprie regole e ipotesi riguardo alla sua tossicità e ai livelli di esposizione sicuri. Considerato che si tratta di un importante inquinante, diverse tecniche si sono dimostrate efficaci per rimuovere questo pesticida dall'ambiente, sia dal suolo che dalle acque. La potenziale tossicità dell'esposizione al glifosato e la necessità di precauzione nel maneggiarlo e utilizzarlo sono evidenti. È necessario condurre ulteriori ricerche per determinare l'entità dei rischi per la salute umana associati al glifosato e ai suoi metaboliti. Per ridurre i potenziali pericoli per la salute e produrre dati coerenti e accordi normativi/legislativi, dovrebbe essere avviata una collaborazione tra ricercatori, funzionari governativi e lavoratori in tutti i settori, non solo a livello locale, nazionale e regionale, ma anche a livello globale. Una maggiore consapevolezza tra i professionisti della salute è fondamentale per il rapido riconoscimento e la gestione appropriata della tossicità da glifosato. Sarà necessario disporre di banche dati condivise in cui i nuovi problemi vengano evidenziati, al fine di identificare possibili soluzioni e risolverli collaborativamente, fornendo le informazioni necessarie per collegare i rischi posti dalle formulazioni a base di glifosato.

Come affrontare i composti aromatici alogenati: effetti, rischi e strategie di bonifica

I composti aromatici alogenati (HACs) rappresentano una delle principali categorie di inquinanti ambientali, noti per la loro persistente resistenza alla degradazione, la capacità di bioaccumularsi e i loro effetti dannosi sulla salute umana e sugli ecosistemi. Tra i composti più noti rientrano i dibenzodiossine policlorurate (PCDDs), i dibenzofurani (PCDFs), i bifenili policlorurati (PCBs) e gli eteri diphenilici policlorurati (PCDEs). In particolare, le PCDDs e le PCDFs, comunemente note come diossine, sono composti altamente tossici e persistenti che costituiscono una delle principali categorie di contaminanti del suolo. La loro elevata stabilità termica e la bassa solubilità in acqua ne favoriscono la persistenza nell'ambiente, rendendo difficile il loro smaltimento e trattamento.

I composti aromatici alogenati, essendo non polari e idrofobici, presentano una forte affinità per le particelle del suolo grazie ai loro elevati coefficienti di partizione octanolo/acqua, il che rende ulteriormente complicato il processo di bonifica. Questi inquinanti sono prevalentemente di origine antropogenica, prodotti come sottoprodotti di vari processi industriali. Ad esempio, la combustione incompleta di materiali organici, in particolare quelli contenenti cloro, può generare PCDDs e PCDFs. I PCBs, un tempo ampiamente utilizzati in apparecchiature elettriche, trasformatori e fluidi idraulici, continuano a costituire un grave rischio ambientale, nonostante il loro divieto in molte regioni. Inoltre, la produzione di pesticidi e composti organici clorurati può generare inavvertitamente questi inquinanti.

Le principali fonti di emissione di PCDD/F includono attività industriali come la fusione di metalli ferrosi e non ferrosi, la produzione di carta e cellulosa e la combustione di combustibili. In particolare, le emissioni di PCDD/F dalle fornaci a ossigeno sono state rilevate essere superiori rispetto a quelle delle fornaci ad anodo. In alcune caldaie a biomassa industriali, le emissioni di PCDD/F possono variare tra 0,0491 e 12,7 ng Nm−3 (11% O2), evidenziando il doppio ruolo della biomassa come fonte di energia sostenibile e come potenziale fonte di emissioni inquinanti.

Questi composti aromatici alogenati sono stati rilevati in tutto il mondo in campioni di suolo, sedimenti e acqua. In Vietnam del Nord, ad esempio, sono state trovate PCDD/F in campioni di suolo e sedimenti provenienti da villaggi secondari di rame e alluminio, con concentrazioni di 0,37 ± 0,29 ng TEQ/kg di peso secco. In altre regioni, come il delta del fiume Yangtze, i congenere OCDD/F e 1234678-HpCDD/F sono stati identificati come i principali inquinanti in vari ambienti. Inoltre, in Turchia, sono stati rilevati livelli di PCDD/F e PCB in campioni di aria e suolo raccolti vicino all’impianto di incenerimento dei rifiuti IZAYDAS.

L'ampia diffusione di questi composti è legata alla loro persistente stabilità e alla loro capacità di essere trasportati a lunghe distanze attraverso l'aria e l'acqua. Non sorprende che siano stati rilevati in regioni remote come l'Artico, dove il trasporto atmosferico a lunga distanza è evidente. La persistenza e le proprietà fisico-chimiche di questi composti contribuiscono ai loro effetti tossicologici sulla salute umana e sugli ecosistemi. L'esposizione a lungo termine a questi inquinanti è stata associata a una serie di effetti nocivi, tra cui disfunzioni ormonali, danni al sistema nervoso, effetti cancerogeni e alterazioni immunologiche.

Per mitigare i rischi e le conseguenze derivanti dai composti aromatici alogenati, sono state sviluppate diverse strategie di bonifica, che comprendono la bioremediazione, il trattamento termico, la fitoremediazione e l'uso di carboni attivi. La bioremediazione sfrutta i microorganismi per degradare o immobilizzare gli inquinanti, mentre il trattamento termico prevede il riscaldamento a elevate temperature per distruggere i composti. La fitoremediazione utilizza piante per assorbire o degradare i contaminanti nel suolo o nell'acqua, mentre i carboni attivi sono utilizzati per adsorbire i composti tossici.

Tuttavia, oltre a queste tecnologie, è cruciale che vengano adottati rigorosi quadri normativi e politici per affrontare il problema dei composti aromatici alogenati. La regolamentazione internazionale, come la Convenzione di Stoccolma, e le normative nazionali mirano a limitare la produzione e l'emissione di questi composti, ma la loro efficacia dipende dall’implementazione e dal monitoraggio costante. A livello globale, si osserva un continuo progresso nel miglioramento delle tecnologie di bonifica e nella gestione dei rischi legati ai HACs, ma il loro trattamento rimane una sfida complessa e costosa.

L’approccio combinato tra strategie di bonifica e politiche di regolamentazione è fondamentale per ridurre l’impatto dei composti aromatici alogenati sull’ambiente e sulla salute pubblica. Non solo le soluzioni tecnologiche devono essere potenziate, ma è necessaria anche una maggiore consapevolezza e collaborazione a livello globale per affrontare questa minaccia persistente e diffusa.

L'impatto degli Inquinanti Organici Persistenti (OCP) sulla Salute Umana, Animale e sull'Ambiente

Gli inquinanti organici persistenti (OCP) sono sostanze chimiche che, a causa della loro stabilità e capacità di accumularsi negli organismi viventi e nell'ambiente, rappresentano una minaccia per la salute e per l'ecosistema. Questi composti, tra cui DDT, lindano, aldrin e clordano, sono utilizzati principalmente in pesticidi e altre sostanze chimiche industriali, ma la loro persistenza nel tempo e la loro capacità di accumularsi attraverso la catena alimentare sollevano preoccupazioni significative per gli esseri umani, gli animali e l'ambiente.

Studi epidemiologici hanno evidenziato numerosi effetti negativi associati all'esposizione prolungata agli OCP. Tra le malattie più comuni si annoverano disfunzioni endoteliali, leucemia, malattie neurologiche, problemi respiratori, squilibri ormonali, malattie della tiroide, diabete e obesità. I dati suggeriscono anche una correlazione tra l'esposizione a questi composti e la comparsa della malattia di Parkinson (Genuis et al., 2016), nonché l'insorgenza di patologie come l'ipertensione, il cancro e il morbo di Alzheimer. Inoltre, gli OCP sono associati a disfunzioni riproduttive nelle donne, inclusi aborti spontanei, gravidanze premature e problemi ovarici (Hood et al., 2022).

Un aspetto particolarmente allarmante riguarda l'effetto degli OCP sul sistema nervoso. Sostanze come il dieldrin, ad esempio, sono state collegate alla comparsa di disordini neuroendocrini che influenzano l'attività cerebrale, disturbando il funzionamento del sistema immunitario, la respirazione mitocondriale e il metabolismo (Cowie et al., 2017). Il DDT, un OCP noto per le sue proprietà neurotossiche, cancerogene e di disturbo endocrino, ha effetti dannosi sul metabolismo, sul sistema immunitario e sul sistema neurologico a lungo termine (Burgos-Aceves et al., 2021). Esso ha anche un impatto devastante sulla salute umana, aumentando il rischio di sviluppare il cancro al seno e altre forme di tumori (Chang et al., 2018).

Un altro aspetto significativo riguarda l'accumulo di OCP nel corpo attraverso la catena alimentare. Il DDE, metabolita del DDT, è noto per biomagnificarsi nei pesci e concentrarsi nei tessuti adiposi. Quando queste sostanze vengono ingerite da animali marini e terrestri, possono entrare nella catena alimentare e minacciare non solo la salute degli esseri viventi ma anche quella degli esseri umani (Faggio et al., 2018).

Lindane, un altro noto neurotossico, ha effetti devastanti sul sistema ormonale umano. In casi estremi, il suo avvelenamento può risultare fatale, ma generalmente provoca difficoltà respiratorie, spasmi e salivazione eccessiva (Kumar et al., 2018). La sua resistenza all'acqua lo rende un problema ambientale persistente, poiché è difficile da rimuovere e continua a inquinare gli ecosistemi acquatici (Grondona et al., 2019). Allo stesso modo, dicofol, un altro OCP, è altamente tossico per la fauna acquatica e può causare danni al fegato negli esseri umani, alterando il comportamento e la riproduzione di numerosi animali marini (Vitcheva et al., 2012).

L'inquinamento da OCP non si limita agli effetti sulle specie terrestri, ma ha un impatto devastante anche sugli ecosistemi marini. Gli OCP, grazie alla loro persistenza, compromettono l'equilibrio ecologico marino, interferendo con le funzioni biologiche e con l'attività degli enzimi chiave necessari per rispondere allo stress causato dagli xenobiotici (Gonçalves et al., 2021). L'ingestione di OCP da parte degli organismi acquatici, combinata con il deposito dei contaminanti sul fondo dei sedimenti, accelera il processo di biomagnificazione, minacciando le specie marine e, di conseguenza, l'intero ecosistema (Kamalesh et al., 2023). Le specie marine più sensibili, come i pesci e i mammiferi marini, subiscono una riduzione numerica significativa a causa dell'accumulo di questi contaminanti nei loro corpi, con effetti devastanti sulla biodiversità.

Il rischio derivante dall'esposizione agli OCP non è limitato al periodo immediato, ma si estende nel tempo, compromettendo la salute a lungo termine e danneggiando irreparabilmente interi ecosistemi. Gli OCP, a causa della loro alta stabilità e solubilità nei grassi, continuano a persistere negli ambienti acquatici e terrestri, presentando una minaccia costante alla biodiversità e al benessere umano.

Per affrontare questa problematica, è fondamentale una gestione consapevole e mirata dei rischi legati agli OCP, a partire dalla regolamentazione dell'uso di pesticidi e altre sostanze chimiche, fino a strategie per il recupero degli ecosistemi marini e terrestri contaminati. È essenziale monitorare costantemente i livelli di inquinamento da OCP, soprattutto nelle zone marine e acquatiche, per garantire la protezione delle specie vulnerabili e promuovere una maggiore sostenibilità ambientale.