Nel corso della campagna presidenziale del 2008, quando John McCain si trovava in difficoltà, la sua scelta di Sarah Palin come candidata vice-presidente suscitò sia entusiasmo che preoccupazioni. In quel momento, McCain e i suoi consiglieri avevano bisogno di un cambiamento radicale per rianimare la sua corsa alla Casa Bianca. Palin, governatore della piccola e remota Alaska, era praticamente sconosciuta a livello nazionale, ma riuscì a guadagnare l’attenzione dei media e dei conservatori grazie a un mix di carisma, atteggiamenti forti e una forte retorica di destra.

La sua inesperienza in materia di politica estera e sicurezza nazionale non impedì a molti di vederla come una "salvatrice" in grado di scuotere la scena politica americana. La sua candidatura come prima donna sulla ticket repubblicana sembrava essere un punto di rottura, ma l'incapacità di Palin di affrontare domande di politica complessa durante le interviste mediatiche minò rapidamente il suo slancio. I suoi discorsi, inizialmente energici, si trasformarono in una serie di disastri, alimentando ironia e satira sui social media e nei talk show.

Nonostante ciò, durante la convention repubblicana, Palin divenne la vera star. Il suo discorso accese gli animi dei conservatori sociali e della destra religiosa, un gruppo che non aveva particolarmente apprezzato McCain fino a quel momento. La sua retorica aggressiva contro Obama, dipingendolo come un elitista e un nemico della classe media, alimentò il suo appeal tra i suoi sostenitori. La sua figura divenne un simbolo di resistenza alla presunta minaccia rappresentata dalla sinistra e dalla sua visione del paese.

La sua ascesa fu tanto rapida quanto la sua caduta. Dopo aver guadagnato terreno nei sondaggi subito dopo la convention, la situazione cambiò drasticamente quando, a partire dal settembre del 2008, la crisi finanziaria globale iniziò a travolgere il paese. La dichiarazione di McCain che “le fondamenta dell’economia sono solide” divenne uno dei più gravi errori politici della campagna, mentre Barack Obama dimostrò una calma e una capacità di leadership che gli permisero di guadagnare consensi, non solo tra i suoi elettori, ma anche tra quelli che cercavano una guida rassicurante in tempi di incertezze economiche.

A questo punto, la campagna di McCain, e la figura di Palin in particolare, scivolarono sempre più nell’irrilevanza. Mentre i mercati finanziari collassavano e il governo degli Stati Uniti interveniva con un piano di salvataggio, le polemiche sollevate da Palin, inclusi attacchi duri e infondati su Obama, sembravano fuori luogo e contribuivano solo ad alimentare divisioni inutili. L’accusa che Obama fosse un “terrorista” o che avesse legami con gruppi radicali, diffusa dalla stessa Palin, non trovò mai riscontri reali, ma divenne una delle tattiche che la destra americana avrebbe continuato a sfruttare contro Obama anche nei successivi anni.

In realtà, le teorie complottiste riguardanti Obama, come quella che lo dipingeva come un musulmano covert, avevano radici più profonde nella cultura della destra statunitense. Queste idee si erano sviluppate fin dal 2004, quando Obama si candidò per il Senato dell'Illinois. Le voci infondate che lo vedevano come un "musulmano segreto" o un "radicale" crebbero grazie alla diffusione di email anonime e alla crescente popolarità dei media conservatori. La campagna di McCain e Palin non si limitò a dare spazio a queste teorie, ma le amplificò fino a farle diventare parte integrante della narrativa elettorale.

Anche se i legami tra Obama e Bill Ayers, il cofondatore del gruppo radicale Weather Underground, furono minuziosamente analizzati dai media, la realtà è che le accuse di Palin si basavano su una distorsione della verità, come dimostrato da una semplice verifica dei fatti. Nonostante questo, la sua perseveranza nell'insistere su queste accuse senza basi creò un clima di sospetto che divenne difficile da disinnescare. L'incapacità di McCain e Palin di distanziarsi da queste affermazioni contribuì a consolidare l'immagine di una campagna che non riusciva a rispondere adeguatamente alle sfide reali del paese.

Questa strategia di diffondere sospetti e teorie cospirazioniste, unita alla visibile inadeguatezza di Palin nel gestire la complessità della politica nazionale e internazionale, rivelò i limiti di una scelta che inizialmente sembrava audace, ma che in realtà si rivelò fatale per le ambizioni presidenziali di McCain. Alla fine, la figura di Sarah Palin, una delle più controverse dell'elezione del 2008, divenne simbolo della polarizzazione crescente e della frattura tra un'America che cercava soluzioni pratiche alle sue crisi e un'altra che si rifugiava in attacchi emotivi e ideologici.

L'importanza di comprendere questa dinamica è che essa riflette la crescente radicalizzazione del discorso politico negli Stati Uniti, un fenomeno che ha avuto ripercussioni a lungo termine. L'invasività delle fake news e la manipolazione dell'opinione pubblica attraverso l'utilizzo di canali alternativi ai media tradizionali non erano solo un prodotto di quella campagna, ma segnavano un nuovo corso nella politica americana, che avrebbe continuato a evolversi nelle successive elezioni presidenziali.

Come nasce la paura politica e come diventa ideologia

La stagione elettorale che portò Barack Obama alla presidenza rappresentò un punto di svolta non solo per la politica americana, ma per la psicologia collettiva di un partito che, sentendosi minacciato, scelse di trasformare la paura in identità. Le folle che accompagnavano Sarah Palin e John McCain erano animate da una rabbia che non si limitava alla contesa elettorale: si trattava di un sentimento primordiale, alimentato da sospetto e nostalgia per un’America immaginaria, perduta. I manifestanti gridavano contro Obama, accusandolo di comunismo, di legami con il terrorismo, di essere “l’altro”, il diverso. La figura di Palin divenne catalizzatore di questa emozione, una voce che traduceva il malcontento in linguaggio politico.

McCain, a tratti, cercò di resistere a questa spirale. Quando un uomo, in un incontro pubblico nel Minnesota, confessò di avere paura di Obama, McCain rispose con rispetto: “Non dovete temerlo.” Ma la folla reagì con fischi. In quel momento, la linea fra la razionalità e il fanatismo apparve irrimediabilmente incrinata. La paura, divenuta linguaggio politico, non poteva più essere contenuta. Era troppo utile, troppo potente, troppo identitaria.

La macchina repubblicana capì che non poteva vincere sulla base dell’economia, e così decise di vincere sulla base dell’emozione. Il messaggio fu chiaro: non discutere, temere. L’America veniva descritta come sull’orlo di una catastrofe morale e spirituale, dove l’ascesa di Obama avrebbe significato la fine della libertà e la nascita di uno stato secolare ostile al cristianesimo. Le teorie del complotto proliferavano come virus: Obama sarebbe stato un musulmano segreto, manovrato da poteri oscuri; i suoi finanziamenti, frutto di una rete islamista globale; la sua agenda, un piano nascosto per “socializzare” la nazione.

Nell’ultima fase della campagna, Palin abbandonò ogni cautela. Paragonò i programmi economici di Obama ai regimi comunisti, definì la tassazione progressiva un esperimento di socialismo. Era un paradosso quasi ironico: la governatrice di uno stato in cui i cittadini ricevevano annualmente una quota dei profitti petroliferi parlava contro la redistribuzione della ricchezza. Ma la coerenza non era l’obiettivo. L’obiettivo era evocare la paura.

Con la vittoria di Obama, quella paura non scomparve. Al contrario, si consolidò in forma dottrinale. Palin e McCain avevano perso, ma avevano dato forma a un nuovo linguaggio: il Palinismo. Una miscela di populismo emotivo, ostilità verso l’intelletto, sfiducia verso la verità e culto della rabbia. Quella malattia latente nel corpo politico americano —l’anti-intellettualismo, la diffidenza verso i fatti, il sospetto tribale verso il diverso— trovò una nuova legittimità.

Dopo l’elezione, figure repubblicane paragonarono Obama a Hitler e Marx, suggerendo che avrebbe imposto una dittatura comunista. La paranoia divenne sistema, non più deviazione. Il confine tra la destra tradizionale e la sua frangia cospirazionista si dissolse. Internet, i talk radio, i nuovi media conservatori moltiplicarono e normalizzarono quel linguaggio. Il discorso politico americano, da quel momento, non avrebbe più potuto tornare alla sobrietà precedente.

Eppure, nel gelo di Washington il 20 gennaio 2009, Obama parlò di speranza, di fine delle recriminazioni, di unità di scopo. Mentre milioni di persone ascoltavano il suo appello a scegliere la cooperazione sulla paura, un piccolo gruppo di leader repubblicani si riuniva in un ristorante elegante per decidere esattamente l’opposto: bloccare tutto, dire sempre no. Era il gesto simbolico che sanciva la nascita di una politica dell’ostruzione sistematica, dove la distruzione dell’avversario contava più del bene comune.

Ciò che nacque allora non fu solo una nuova opposizione politica, ma una nuova grammatica del potere, costruita sulla sfiducia, sull’emozione e sull’illusione del tradimento permanente. Da quel seme germogliò una cultura che avrebbe trasformato la destra americana nei decenni successivi, fino a confondere la verità con l’identità e la paura con la fede.

Importante comprendere che questo non fu un incidente, ma un processo. La paura non fu creata per caso, ma coltivata. Essa divenne strumento di appartenenza, meccanismo di controllo e forma di linguaggio politico. Per il lettore, il punto essenziale è riconoscere come la paura, quando diventa convinzione collettiva, smette di essere emozione e si trasforma in struttura di potere. Solo comprendendo questo si può capire davvero la nascita del nuovo ciclo politico che avrebbe definito l’America del XXI secolo.

Come ha influenzato Fox News e le teorie del complotto la politica repubblicana contemporanea?

La rete Fox News, sotto la guida di Roger Ailes, ha rappresentato un amplificatore decisivo per le frange più radicali del Partito Repubblicano, dando voce ai personaggi più estremi come Bachmann, King, Gohmert e altri. Questo circuito mediatico non solo ha influenzato l'opinione pubblica, ma ha anche posto un serio problema all’interno del partito, in particolare per figure come il Speaker della Camera John Boehner, che tentava di gestire una situazione ormai fuori controllo. L’intensa popolarità di Fox News generava instabilità politica, poiché il network alimentava e diffondeva idee complottiste e narrazioni infondate, particolarmente attive nell’attaccare figure come Hillary Clinton o l’amministrazione Obama.

Il caso emblematico è rappresentato dall’indagine su Bengasi, che Boehner usò come strumento politico, incaricando una commissione speciale guidata da Trey Gowdy per continuare a mantenere alta l’attenzione su un evento su cui già numerose inchieste avevano dimostrato l’assenza di evidenze per le accuse più gravi. Le teorie complottiste alimentate da Fox e da alcuni esponenti della destra più radicale si spinsero fino a negare ogni sforzo reale per salvare gli americani durante l’attacco, oppure a diffondere voci infondate sul coinvolgimento di Hillary Clinton in attività illecite, come il traffico d’armi attraverso la Libia verso la Siria. Tali accuse, per quanto infondate, divennero un catalizzatore di risentimento e paranoia nel bacino elettorale repubblicano più radicale, consolidando il network come un centro nevralgico per la diffusione di un pensiero politico sempre più polarizzato e aggressivo.

La ricerca di un capro espiatorio ha portato, tra l’altro, alla richiesta delle email di Clinton, rivelando l’uso di un server privato che poi avrebbe avuto un impatto determinante sulle elezioni presidenziali del 2016. Così, la fissazione su complotti inesistenti ha generato un vero scandalo, mutando la percezione pubblica e modificando il corso della politica americana.

Parallelamente, il Partito Repubblicano affrontava una spaccatura interna sempre più evidente, con l’emergere della base Tea Party che contestava l’establishment tradizionale. Casi emblematici come la sfida di Chris McDaniel contro il senatore Thad Cochran in Mississippi o la sconfitta dell’ex leader della Camera Eric Cantor ad opera di Dave Brat testimoniano il peso crescente delle correnti più radicali, spesso legate a retoriche estremiste, teorie complottiste e posizioni sociali reazionarie. Il supporto di personaggi controversi, e talvolta apertamente razzisti o antisemiti, indicava un allontanamento dal tradizionale conservatorismo verso un populismo alimentato dalla paura e dalla sfiducia nelle istituzioni.

Questi sviluppi si inscrivono in un contesto in cui, nonostante alcuni miglioramenti economici e l’implementazione di riforme come l’Obamacare, la frustrazione verso il governo Obama era palpabile, in parte per i blocchi e l’ostruzionismo repubblicano, e in parte per la crescita di minacce come l’ISIS. La polarizzazione politica ha impedito qualsiasi tentativo di mediazione o di ampliamento della base elettorale, lasciando un partito diviso tra un establishment più tradizionale e una base sempre più radicale e legata alle teorie del complotto e all’informazione polarizzata.

Comprendere questa dinamica è essenziale per valutare le trasformazioni del sistema politico statunitense degli ultimi anni, in cui i media diventano non solo canali di informazione, ma anche arene di guerra ideologica e strumenti di controllo delle masse. La manipolazione dell’informazione e la diffusione di false narrazioni hanno alimentato una crisi della democrazia rappresentativa, rendendo indispensabile un’analisi critica della relazione tra politica, media e società.