Uno degli aspetti più controversi della figura di Donald Trump è stato il suo modo di esprimersi e la sua tendenza a deviare facilmente dal tema principale durante i suoi discorsi. In molte occasioni, ciò che sembrava un tentativo di stabilire un rapporto di fiducia con le forze armate e i servizi di intelligence, si trasformava in una sorta di auto-celebrazione senza filtro. Un esempio emblematico è il discorso alla Central Intelligence Agency nei primi giorni della sua presidenza, dove affermò senza mezzi termini: "So molto su West Point, sono una persona che crede fermamente nell'importanza degli studi. Ogni volta che dico che avevo uno zio che è stato un grande professore al MIT per 35 anni, che ha fatto un lavoro fantastico in tanti modi, mi chiedono: Donald Trump è un intellettuale? Fidatevi, sono una persona intelligente". L'autopromozione era uno degli elementi ricorrenti nel suo discorso, che riguardava non solo la sua intelligenza, ma anche le sue caratteristiche fisiche e i suoi successi. "Mi voterebbero sicuramente. Perché? Forse perché sono così bello." E ancora, "Sono molto intelligente. Alcuni direbbero che sono davvero, davvero intelligente."

Queste dichiarazioni non erano casuali, ma facevano parte di una strategia più ampia di costruzione dell'immagine, dove il narcisismo diventava un motore per la sua comunicazione. Le sue dichiarazioni sulla bellezza e sulla sua presunta superiorità mentale facevano parte di un tentativo di legittimarsi attraverso la creazione di un personaggio pubblico che si percepiva come un modello di successo, forza e competenza. "In realtà, nel corso della mia vita, i miei due più grandi punti di forza sono stati la stabilità mentale e l’essere, come dire, davvero intelligente. Sono passato da un uomo d'affari di grande successo a una star della TV per poi diventare presidente degli Stati Uniti (al primo tentativo). Penso che questo qualifichi come non solo intelligente, ma un vero e proprio genio… e un genio molto stabile!"

Il suo uso di Twitter come mezzo di comunicazione ha permesso a Trump di diffondere il suo messaggio in modo diretto e senza filtri, creando una forma di connessione immediata con i suoi sostenitori. Ma cosa c'era dietro a questa apparente "dittatura dei social media"? Un'analisi delle sue abitudini di scrittura su Twitter ha rivelato che Trump utilizzava con una frequenza straordinaria termini legati all'autorità, come "comando", "rispetto", "dovere", "obbedienza", che lo collocano all'interno della teoria delle "fondazioni morali". Secondo gli studi condotti dal politologo Gregg R. Murray, Trump privilegiava il linguaggio che rifletteva una visione autoritaria della politica. Questo modo di esprimersi sottolineava la sua posizione di potere e il suo disprezzo per chi osava sfidare l’autorità. In confronto, la sua rivale Hillary Clinton utilizzava un linguaggio più orientato verso la cura e il benessere collettivo, tipico della fondazione morale della "cura/danno".

Il fascino di Trump per le masse, tuttavia, non può essere ridotto alla semplice espressione di un ego smisurato. Anzi, la sua ascesa politica è stata il risultato di una straordinaria capacità di unire, in modo non convenzionale, segmenti disaffezionati della società americana. Mentre i politici tradizionali sottovalutavano la sua base di supporto, Trump ha saputo orchestrare una coalizione sorprendente di elettori bianchi a basso e medio reddito, molti dei quali non avevano un titolo universitario. Questi cittadini si sentivano abbandonati dalle élite politiche, un sentimento che è stato acuito dalla vittoria di Barack Obama nel 2008 e dalla nomina di Hillary Clinton nel 2016, una donna candidata alla presidenza. La vittoria di Trump rappresentava per loro un ritorno a un ordine percepito come minacciato: la riaffermazione di un predominio culturale bianco e l'opposizione a un sistema che sembrava ormai favorire le minoranze.

Dal punto di vista economico, Trump ha fatto leva su un malcontento diffuso riguardo il declino delle opportunità lavorative nelle comunità che si sentivano emarginate, in particolare a causa della globalizzazione e dei cambiamenti strutturali nell'economia americana. In un periodo in cui i posti di lavoro nel settore manifatturiero erano in drastica diminuzione, Trump è riuscito a conquistare i voti di una parte significativa della popolazione che percepiva il governo come un nemico che si preoccupava più delle minoranze che delle loro necessità.

Per comprendere appieno la sua elezione, è fondamentale non solo analizzare le sue parole, ma anche il contesto storico e socio-politico che ha creato un terreno fertile per il suo messaggio. Trump ha saputo dare voce a una frustrazione accumulata da anni, utilizzando il linguaggio della protesta e dell'autorità come strumento di mobilitazione. La sua capacità di manipolare le percezioni e di porsi come l'antitesi di Obama, rappresentando la risposta alle "forze" della multiculturalità e dell'inclusione, gli ha permesso di costruire un legame diretto con milioni di americani che si sentivano emarginati dal progresso e dal cambiamento.

Perché la morte di John McCain ha rivelato la natura di Trump: Un confronto di valori e onore

Nel 2018, dopo una lunga malattia, John McCain morì a causa di un cancro al cervello, ma non prima di aver visto una serie di eventi pubblici che riflettevano la profonda divisione che attraversava la politica americana sotto la presidenza di Donald Trump. McCain, simbolo di un altro tipo di politica, richiese che fossero i suoi ex colleghi presidenti, George W. Bush e Barack Obama, a pronunciarsi in suo onore, chiedendo che Trump e Sarah Palin non partecipassero ai suoi funerali. Le sue scelte non furono casuali, ma segnavano un netto distacco dall'attuale presidente, con cui aveva rotto i legami già dopo le famose dichiarazioni di Trump su un video in cui vantava il suo comportamento nei confronti delle donne. La morte di McCain fu quindi anche un momento di confronto pubblico e di rivendicazione di un diverso tipo di grandezza.

Subito dopo la sua morte, la Casa Bianca si trovò a dover rispondere alla morte di un eroe di guerra che, pur non essendo stato presidente, aveva incarnato un’idea di servizio e di sacrificio che il paese sembrava aver dimenticato. Trump, inizialmente reticente a esprimere condoglianze e con una gestione controversa della bandiera americana, fu costretto dalla pressione popolare a rendere omaggio a McCain. Molti governatori statali, democratici e repubblicani, avevano deciso di abbassare le bandiere in segno di lutto, mentre i leader del Senato, Mitch McConnell e Chuck Schumer, chiesero che i monumenti nazionali seguissero lo stesso esempio. Nonostante tutto, Trump continuò a fare dichiarazioni critiche nei confronti di McCain, un uomo che aveva osato sfidarlo, soprattutto dopo la decisione di McCain di opporsi al suo progetto di abrogazione dell'Obamacare e di denunciare le sue presunte connessioni con la Russia.

Ma ciò che colpì di più fu l'elegia pronunciata da Meghan McCain, la figlia del senatore defunto, che esplicitamente si distaccò dalle parole di Trump, definendo la sua America “già grande” e non bisognosa di essere "resa di nuovo grande", come sosteneva il motto di Trump. Questa dichiarazione non solo sottolineò la distanza tra i due, ma rappresentò un attacco diretto alla retorica populista che stava caratterizzando la politica di Trump. La sua parole risuonarono con il pubblico in una chiesa solenne, provocando applausi, un gesto raro in un'occasione così formale. La contrastante visione tra McCain e l'amministrazione Trump divenne ancora più evidente quando gli attacchi del presidente contro McCain continuarono anche mesi dopo la sua morte, dimostrando una costante aggressività nei confronti di chi aveva messo in discussione la sua autorità.

Le critiche di Trump, anche se ostentatamente sgarbate, non passarono inosservate, nemmeno tra i suoi sostenitori. Molti militari, veterani e politici esprimevano la loro indignazione per la mancanza di rispetto verso un uomo che aveva servito il paese con onore. Personaggi come il senatore Lindsey Graham e l'ex generale Mark Hertling denunciarono apertamente l'atteggiamento del presidente, chiedendo che fosse messo un freno alla sua politica di attacchi personali. Le parole di Trump, pertanto, non solo dimostravano la sua natura vendicativa, ma rivelavano anche una profonda mancanza di riconoscimento per il sacrificio e l'onore che McCain rappresentava.

Ciò che emerge con chiarezza è che la morte di McCain non segnò solo la fine di una carriera politica, ma diventò il simbolo di una lotta più grande tra due concezioni diametralmente opposte di onore e servizio pubblico. McCain rappresentava il valore del sacrificio personale per il bene del paese, un ideale che si rifletteva non solo nella sua carriera di soldato e senatore, ma anche nel suo impegno per la democrazia e i diritti umani. Trump, al contrario, incarnava un tipo di politica basata sulla vendetta personale e sull’attacco agli avversari, un comportamento che veniva amplificato dai suoi follower, ma che allo stesso tempo metteva in luce le profonde carenze morali e etiche del suo approccio al potere.

In un paese diviso, McCain divenne un simbolo di quelle virtù che sembravano in via di estinzione: la lealtà, l’onore e la dignità. Mentre il presidente si concentrava sulla sua agenda personale e sulla lotta contro chi lo criticava, McCain rappresentava una figura di integrità che non dipendeva dalla visibilità o dal consenso popolare. La sua morte segnò una frattura definitiva, non solo tra due visioni politiche, ma anche tra due concezioni di ciò che significa servire il paese con onore.

È fondamentale notare che il disprezzo di Trump verso McCain non fu mai solo una questione personale, ma rifletteva la più ampia visione del mondo che l’attuale presidente cercava di imporre all’America. Il comportamento di Trump nei confronti di McCain mostra come la politica possa essere facilmente trasformata in un’arena di attacchi personali, riducendo il dibattito pubblico e la qualità della leadership. La morte di McCain, quindi, non fu solo una triste conclusione per un uomo che aveva dato tanto al suo paese, ma anche un avvertimento sulle sfide morali e civiche che l’America avrebbe dovuto affrontare negli anni a venire.

Come gestire il caos alla Casa Bianca: Le sfide di John Kelly, H.R. McMaster e James Mattis

John Kelly, consapevole delle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare, si era preparato ad affrontare la confusione che regnava alla Casa Bianca. Aveva già criticato l'anarchia all'interno dell'amministrazione Trump, dichiarando che pensava di poter mettere ordine. Tuttavia, si trovò subito in una situazione più complessa di quanto immaginato. Il suo primo compito fu licenziare Anthony Scaramucci, il direttore della comunicazione che, sebbene fosse stato nominato su pressione di Jared Kushner e Ivanka Trump, si era rivelato una figura troppo divisiva. Scaramucci, infatti, aveva rilasciato un’intervista velenosa alla rivista New Yorker, criticando aspramente la politica interna della Casa Bianca, ma la sua permanenza fu breve, durando solo undici giorni.

Nonostante questo, Kelly si trovò di fronte a sfide ben più difficili. Steve Bannon, stratega capo e figura di spicco della campagna presidenziale, era una minaccia significativa, ma il vero problema risiedeva nella famiglia del presidente. Jared e Ivanka, con il loro accesso privilegiato a Trump, formavano un nucleo di potere rivale all'interno dell'ala Ovest, complicando ulteriormente la gestione del presidente. La loro influenza su Donald Trump era innegabile, tanto che Kelly, pur cercando di chiarire i ruoli e stabilire un ordine, si trovò di fronte a un presidente che non solo rifiutava di riconoscere il problema, ma sembrava addirittura compiacersi della situazione. Trump era convinto che Kushner potesse essere addirittura un futuro Segretario di Stato. Nonostante i tentativi di Kelly di limitare l'accesso al presidente, la sua influenza si ridusse progressivamente, come emerse dai numerosi pettegolezzi interni alla Casa Bianca.

A meno di un anno dal suo incarico, Kelly si trovò a dover fare i conti con il suo insuccesso nel riuscire a domare l’amministrazione Trump. A dicembre 2018, il presidente annunciò il suo allontanamento. Nonostante la sua rispettabilità militare, Kelly si era rassegnato all'impossibilità di controllare Trump, limitandosi a coesistere con lui e lamentandosi con i colleghi della sua frustrazione. Fu sostituito da Mick Mulvaney, il direttore del bilancio, ma il suo mandato segnò il fallimento di un esperimento che aveva visto l’ingresso di un "uomo di ferro" nella Casa Bianca.

Anche H.R. McMaster, che succedette a Michael Flynn come consigliere per la sicurezza nazionale, non fu in grado di trovare una posizione stabile nell'amministrazione. McMaster, rispettato per il suo approccio intellettuale e per la sua carriera militare, si scontrò fin dall’inizio con un presidente che guardava con sospetto la competenza e l’esperienza. Le sue posizioni forti in politica estera e la sua inclinazione a rispettare la gerarchia e l’ordine non erano in sintonia con il caos che regnava alla Casa Bianca. McMaster cercò di presentare al presidente una risposta ponderata all’attacco chimico in Siria nel 2017, ma Trump si mostrò irritato dal carico di informazioni e dettagli che gli venivano forniti. La sua frustrazione culminò in un’ostilità crescente, con McMaster che veniva costantemente umiliato in pubblico. Le sue divergenze con Trump su questioni come la Russia, la Siria e l'Iran non fecero altro che peggiorare la situazione. Quando si dimise nel marzo del 2018, McMaster aveva compreso che il suo ruolo era ormai insostenibile. A sostituirlo fu John Bolton, il quale avrebbe dovuto affrontare sfide simili.

James Mattis, nominato Segretario alla Difesa, rappresentava un altro tentativo di Trump di circoscrivere il caos con una figura di grande prestigio. Mattis, soprannominato "Mad Dog", era ammirato per il suo passato militare e la sua leadership durante le guerre in Afghanistan e Iraq. La sua nomina era vista come un atto rassicurante per le forze armate e l’establishment della difesa nazionale. Tuttavia, Trump non cercava solo competenza, ma anche l’apparenza di competenza. Il generale Mattis, con la sua imponente presenza, divenne un simbolo di ordine, ma la sua permanenza alla guida del Pentagono fu segnata da frequenti disaccordi con Trump. La sua visione più tradizionale della guerra e della diplomazia, basata su prudenza e analisi strategica, mal si adattava alla politica estera "ad hoc" di Trump. Sebbene Mattis fosse rispettato a livello internazionale, le sue divergenze con il presidente si intensificarono rapidamente, e la sua frustrazione con la mancanza di una visione coerente della politica estera lo portò infine alle dimissioni, a gennaio del 2019.

Questi tre uomini, Kelly, McMaster e Mattis, rappresentano l'incapacità di instaurare una gestione ordinata e coerente nella Casa Bianca di Trump, nonostante le loro credenziali di alto livello. Tutti e tre erano uomini di esperienza e competenza, ma si trovarono a operare in un contesto in cui il caos, la disorganizzazione e la mancanza di una visione coerente del governo regnavano sovrani. La lezione più importante da trarre è che, per operare con successo in un’amministrazione come quella di Trump, non bastava la competenza: era necessaria una disposizione a subire l’umiliazione, l’incapacità di imporre l’ordine e una tolleranza per la costante incertezza.

La Fragilità delle Istituzioni e il Potere del Presidente: Una Riflessione sulla Politica Americana

L'esperienza e l'incapacità di apprendere inviarono segnali di allarme forti e chiari agli esponenti più anziani del governo, incaricati di operare e proteggere le istituzioni chiave su cui si fonda il governo e lo stato di diritto. Questi uomini e donne, il cui compito era quello di parlare la verità al potere, fecero un profondo respiro collettivo, preparandosi all'azione. Avevano ogni motivo per essere fiduciosi che avrebbero prevalso contro il neofita, come scrisse George Packer su The Atlantic: "Il nuovo presidente era impetuoso, profondamente ignorante, quasi chimicamente disattento, mentre i burocrati erano esperti, astuti, protettivi verso se stessi e le loro istituzioni. Sapevano dove si trovavano le leve del potere e come usarle, o come impedire al presidente di farlo". La Casa Bianca di Trump era caotica e crudele, diversa da qualsiasi cosa nella storia americana, ma ciò non importava finché gli "adulti" erano lì per sopportare gli impulsi del presidente, deviare le sue idee peggiori e raccogliere discreti ordini distruttivi lasciati sulla sua scrivania.

James Baker, l'ex consigliere legale dell'FBI, raccontò a Packer che molti ufficiali governativi, compreso lui stesso, si erano avventurati nell'amministrazione convinti di essere più intelligenti del presidente, di poter resistere a lui, o di poter proteggere l'istituzione perché comprendevano le regole e come doveva funzionare il sistema. Speravano di poter difendere l'istituzione che amavano o servivano contro quelli che percepivano come "gli atti inappropriati del presidente". Ma si sbagliavano. Baker aggiunse: "E credo che stiano ingannando se stessi. Stanno ingannando se stessi. Lui è di anni luce più avanti di loro". Gli "adulti" erano completamente incapaci di comprendere quelli che Packer descrisse come i talenti politici speciali di Trump: "il suo istinto per la debolezza di ogni avversario, la sua devozione fanatica a se stesso, la sua capacità di imporre la sua volontà, la sua forza di resistenza". Non avevano capito nemmeno che facevano parte della "classe politica" odiata, su cui si concentrava l'ira populista di Trump; facevano parte di quello "stagno" che doveva essere drenato. Inoltre, non avevano colto la prontezza di una larga fetta di americani di accettare, persino apprezzare, il disprezzo di Trump per le norme democratiche e la decenza di base.

Arrivato un leader di tale calibro, si è rivelato quanto molte cose che sembravano incise nella pietra si fondassero invece su norme fragili, e quanto queste norme dipendessero dall'opinione pubblica. La loro scomparsa ha messo a nudo il vero potere della presidenza. Il precedente legale poteva essere cancellato con una semplice pressione su un tasto; l'indipendenza delle forze dell'ordine dalla Casa Bianca era facoltativa; la separazione dei poteri si rivelava essere un accordo tra gentiluomini; le bugie trasparenti erano più potenti dei fatti solidi. Nulla di tutto ciò era chiaro alla classe politica fino a quando Trump divenne presidente. Poi fu esposto ogni giorno, nella corte del Re Donald. Trump non riusciva a nascondere il suo disprezzo per coloro che vedeva come ostacoli e per le istituzioni create per bilanciare il potere assoluto. Distruggerebbe chiunque o qualsiasi cosa si mettesse sulla sua strada. Qualcosa di prezioso era stato dato per scontato; ora era scomparso.

L'analisi del fenomeno Trump dimostra una lezione fondamentale: quanto, in un sistema politico, dipenda la solidità delle istituzioni dalla qualità delle persone che le abitano. Un leader, ancorché impreparato, può minare i pilastri di un sistema se le regole sono viste solo come una forma di "gentiluomini" e non come difese reali contro il potere assoluto. La capacità di una leadership di utilizzare le risorse del potere, piegare le opinioni pubbliche a proprio favore, riscrivere la verità a proprio piacimento è un rischio costante in un mondo in cui le istituzioni, purtroppo, si rivelano più vulnerabili di quanto si pensasse.

Nella politica moderna, dove la realtà viene continuamente "negoziata", l'importanza di un'educazione politica forte e di una comprensione delle regole è cruciale. Non basta essere esperti di procedure per poter difendere le istituzioni. La consapevolezza che le leggi e le pratiche possano essere infrante con facilità, il disprezzo per la trasparenza e l'etica pubblica, la mobilitazione di ampie fasce di elettorato attraverso la manipolazione della verità — tutti questi fattori sono parte di un cambiamento radicale nelle dinamiche politiche. Chiunque possa dominare la narrativa ha il potere di cambiare il corso degli eventi, specialmente se le forze democratiche non sono abbastanza robuste da contrastare simili minacce.

Come il Potere e la Perdita di Influenza Dentro la Casa Bianca di Trump Hanno Condizionato la Politica degli Stati Uniti

Le dinamiche interne della Casa Bianca durante la presidenza di Donald Trump sono state segnate da una continua lotta per il potere, dove il ruolo di ogni singolo membro dell'amministrazione oscillava tra l'influenza diretta e l'umiliazione pubblica. L'affaire Reince Priebus rappresenta uno degli esempi più emblematici di come il presidente e il suo cerchio ristretto abbiano gestito e, in molti casi, minato l'autorità dei loro collaboratori.

Reince Priebus, nominato capo di gabinetto, si trovò immediatamente in una posizione di svantaggio. La sua esperienza come presidente del Partito Repubblicano non fu sufficiente a proteggerlo dalle manovre interne, né dalla continua interferenza di figure come Steve Bannon e Jared Kushner. La Casa Bianca, fin dai primi giorni dell'amministrazione, si caratterizzò per una gestione disorganizzata e una costante rimozione di figure chiave, creando un clima di insicurezza e incertezza. L'improvviso potere di Bannon, ad esempio, contrastava fortemente con il ruolo ufficiale di Priebus, portando a una frattura che fu difficile da riparare.

Al centro di questo caos c'era la figura di Trump stesso, un leader che sfidava le convenzioni politiche tradizionali e che esercitava il suo potere con metodi imprevedibili. La gestione delle risorse umane nella sua amministrazione era segnata dall’incapacità di stabilire relazioni di fiducia a lungo termine, e, di fatto, da una costante rotazione dei membri del suo team. Questo non solo alimentò il disordine, ma dimostrò anche l'approccio individualista e autoritario di Trump nel condurre gli affari pubblici.

L'umiliazione pubblica di Priebus fu solo uno dei tanti episodi che evidenziarono la fragilità della sua posizione. Le tensioni all'interno della Casa Bianca si manifestavano in episodi pubblici di conflitto, come i continui screzi tra i consiglieri di Trump e l'assenza di una visione condivisa. I media, in particolare, alimentavano queste frizioni, dando ampio spazio alle voci interne che descrivevano una Casa Bianca come un campo di battaglia, dove la lealtà a Trump sembrava essere l'unico requisito per la sopravvivenza politica.

Lo stesso Trump, pur avendo stabilito un legame indissolubile con alcuni dei suoi più stretti collaboratori, non esitava a tradire le alleanze appena queste non gli fossero più utili. Le dimissioni forzate di Priebus furono quindi una chiara manifestazione di come il potere, nell'amministrazione Trump, fosse altamente instabile, pronto a cambiare direzione in qualsiasi momento.

Il tema del potere e della perdita di influenza dentro la Casa Bianca diventa particolarmente rilevante quando si esaminano i ruoli degli altri protagonisti di quel periodo. La figura di John Kelly, ad esempio, che succedette a Priebus come capo di gabinetto, dimostrò come la permanenza in un ruolo di alto livello non fosse mai garantita, nemmeno per i più esperti nel sistema politico. La sua esperienza fu segnata dal progressivo indebolimento della sua influenza con Trump, fino alla sua dimissione nel 2019.

La vicenda di Priebus e di altri membri dell'amministrazione Trump offre spunti fondamentali per comprendere come l'equilibrio del potere sia determinato non solo dalla posizione ufficiale, ma anche dalle alleanze politiche, dalla visibilità mediatica e dalla capacità di mantenere il favore di un presidente imprevedibile e autoritario. La gestione di Trump dei suoi collaboratori sembra essere stata improntata più sul controllo della narrativa e sulla fedeltà, piuttosto che sulla costruzione di una leadership collettiva e coesa.

Inoltre, il clima di costante paura e incertezza nella Casa Bianca di Trump non deve essere sottovalutato. I membri dell'amministrazione vivevano sotto la pressione della continua minaccia di licenziamenti o umiliazioni pubbliche, una condizione che, sebbene esacerbata dal carattere del presidente, rifletteva anche la crescente polarizzazione politica e sociale negli Stati Uniti.

È importante anche considerare come queste dinamiche abbiano avuto un impatto non solo sulle persone direttamente coinvolte, ma anche sull'intero sistema politico. La costante instabilità della Casa Bianca e la rotazione del personale hanno indebolito la capacità del governo di agire in modo efficace, creando una frattura tra l'esecutivo e le altre istituzioni del paese. Questo fenomeno non è limitato a una sola amministrazione, ma potrebbe rappresentare un modello che si estende oltre i confini dell'era Trump, come testimoniano le successive sfide politiche che hanno coinvolto il paese.