Quando si pensa al ruolo della scienza e del giornalismo nella rappresentazione della realtà, spesso si tende a stabilire delle analogie tra questi due ambiti. Tuttavia, una riflessione più attenta mette in evidenza come le pratiche scientifiche e quelle giornalistiche, pur avendo obiettivi che a prima vista sembrano simili, si differenziano in modo fondamentale. In particolare, la scienza si fonda su principi di ripetibilità e oggettività, che non sono requisiti del tutto applicabili al giornalismo. Questa distinzione è cruciale per comprendere le modalità con cui entrambe le discipline contribuiscono alla nostra conoscenza del mondo.
Un esempio classico che aiuta a comprendere questa differenza è il processo scientifico descritto da Bruno Latour, che racconta di un esperimento in cui un ricercatore dimostra come il farmaco naloxone annulli gli effetti della morfina. In questo esperimento, il ricercatore mostra con chiarezza, attraverso i segni lasciati da un grafico, che il naloxone è un "antagonista" della morfina. Questo approccio, che si basa sull’osservazione di risultati ripetibili, è un marchio distintivo della scienza naturale, la quale cerca di provare le sue teorie attraverso esperimenti che possono essere riprodotti da altri ricercatori in contesti simili. La scienza, dunque, punta a stabilire leggi universali e previsioni accurate, senza lasciar spazio all'interpretazione soggettiva.
Nel giornalismo, però, la situazione è diversa. Pur cercando anch'esso di rappresentare la realtà in modo il più possibile preciso e veritiero, il giornalismo non ha lo stesso obiettivo di ripetibilità. Un giornalista non può, ad esempio, ripetere un'intervista con la stessa persona per verificare che le risposte siano costanti nel tempo, né tantomeno può aspettarsi che un fatto riportato oggi possa essere esattamente ripetuto in futuro. Il giornalismo si occupa della notizia, cioè dell'evento unico, irripetibile, che nasce e muore nel momento in cui viene raccontato. La sua funzione è quella di documentare ciò che accade, cercando di interpretarlo nel miglior modo possibile, ma non ha la pretesa di provare una verità universale o ripetibile.
Inoltre, mentre la scienza è strettamente legata all'idea di oggettività, il giornalismo è inevitabilmente influenzato dalla soggettività. Ogni reporter, anche nel suo tentativo di "oggettivizzare" la notizia, porta con sé una propria visione del mondo, influenzata dalla propria cultura, dal proprio background, dalle proprie convinzioni. Le storie che racconta non sono mai completamente neutrali: sono sempre mediati dall’interpretazione del giornalista e dal contesto in cui vengono riportate. Questo non significa che il giornalista sia meno scrupoloso o che non si impegni a documentare accuratamente i fatti, ma significa che la sua pratica è legata a un’interpretazione della realtà che non può essere completamente separata dall’esperienza soggettiva.
La distinzione tra scienza e giornalismo diventa ancora più evidente quando si confrontano i metodi di lavoro delle due discipline. La scienza si fonda su protocolli rigorosi e standardizzati, che richiedono la ripetizione degli esperimenti per confermare i risultati. Questo processo di verifica, che è centrale nella pratica scientifica, assicura che le conclusioni siano il più possibile indipendenti dalle percezioni individuali. Al contrario, il giornalista, pur tentando di fornire una rappresentazione fedele dei fatti, non ha la possibilità di ripetere l'evento che sta raccontando, né può garantire che ogni report sarà invariabile o uguale a quello di un altro giornalista.
Inoltre, la scienza è orientata alla produzione di conoscenza che può essere applicata in modo universale. Le leggi scientifiche non dipendono da chi le scopre o dal contesto in cui vengono enunciate: sono valide in ogni tempo e luogo. Il giornalismo, al contrario, è temporaneo e situato. Le storie che racconta sono spesso legate al momento storico in cui vengono prodotte e, seppur possano avere un impatto duraturo, sono sempre frutto di una lettura del presente. L'evento raccontato da un giornalista può essere riscritto o reinterpretato nel tempo, ma non può essere "ripetuto" come accade nelle esperimentazioni scientifiche.
La critica al giornalismo come una forma di "scienza" impone una riflessione su come vengono trattati i fatti e sulla loro interpretazione. Se la scienza mira a scoprire leggi universali attraverso la verifica e la ripetibilità, il giornalismo deve fare i conti con la variabilità delle esperienze umane e l'interpretazione soggettiva di ciascun individuo. Questa differenza fondamentale implica che, sebbene entrambe le discipline abbiano la funzione di contribuire alla nostra comprensione della realtà, lo fanno in modi che non sono intercambiabili.
È inoltre importante notare che la scienza e il giornalismo operano in contesti molto diversi. Mentre la scienza può svilupparsi in ambienti relativamente controllati, dove le condizioni sono ripetibili e dove si può cercare una verità oggettiva, il giornalismo opera in un ambiente in cui la variabilità delle fonti e la fluidità degli eventi non permettono la stessa precisione. Il giornalista non si prefigge di ottenere una verità immutabile, ma piuttosto di raccontare una verità parziale, che sarà sempre soggetta a nuovi sviluppi e a nuove letture.
La psicologia di Freud: la mente, la cura e l'analisi culturale
Sigmund Freud è stato un medico “onorato” – un neurologo – ma le sue tecniche per curare i disturbi mentali non richiedevano qualifiche scientifiche formali. Oggi, una laurea in psicologia è spesso un requisito per ottenere una licenza statale, ma chi pratica la “cura tramite il discorso” non è generalmente un medico. La premessa di Freud era che le cause della malattia mentale si trovano sepolte nell'inconscio e che la psicoanalisi, portando i conflitti repressi alla consapevolezza, aiuta il paziente a confrontarsi e a combattere meglio i problemi che lo disturbano. Nel corso della seduta, gli analisti minimizzano il loro ruolo, limitandosi a stimolare il paziente a fare associazioni libere (anche se non tutte le tradizioni della psicoterapia basata sul discorso applicano uniformemente questo principio). Questo approccio apre la possibilità di una catarsi e di una cura.
Freud, inoltre, elaborò una teoria topografica della mente, mappando i vari livelli di coscienza e inconscio, etichettando le diverse caratteristiche di ciascuna. Nonostante il rifiuto da parte di Popper che considerava questa teoria non scientifica per la sua resistenza alla falsificazione, la visione di Freud è comunque profondamente radicata nel pensiero occidentale. Dall'”io” al “neurastene”, dalla “libido” alla “denial”, dalla “repressione” alla “catarsi”; da “lapsus freudiano” a “personalità analitica”, usiamo i suoi concetti e termini per parlare di noi stessi e degli altri. Per il poeta, Freud è stato una figura cruciale per comprendere la condizione umana, e la sua morte ha rappresentato la fine di una voce razionale. Su una tomba, l’impulso piange la sua perdita.
Se la psicoanalisi, scientifica o meno che fosse, si avvicina alla pratica giornalistica solo nel fatto che entrambi parlano con le persone per conoscerle, cercare di trarre conclusioni su di esse, sarebbe però errato considerare tale somiglianza come significativa. L’intervista giornalistica non è un affare aperto, né il suo contenuto deve restare segreto. Lo scopo del giornalista è quasi sempre estrarre informazioni utili per la produzione di notizie, e spesso tralascia risposte che non si allineano con le sue linee investigative predefinite. Così, dopo catastrofi e orrori, naturali o antropici, i giornalisti si avvicinano ai sopravvissuti e ai testimoni con pochissime indicazioni che conoscano le intuizioni della psicologia. Non adattano il loro modo di fare domande in base a tecniche come la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma (CBT) o qualsiasi altro metodo usato per trattare il disturbo da stress post-traumatico. Non è nel loro compito. In realtà, i giornalisti non sono come i terapeuti, anche se parlano con le persone per conoscerle, così come non sono etologi, anche se anch'essi documentano il comportamento. Non sono come gli sperimentatori, anche se occasionalmente creano circostanze artificiali per registrare i risultati (come negli “inchieste sotto copertura”). Fondamentalmente, anche se cercano di osservare e registrare per scoprire fatti sconosciuti del mondo, i giornalisti non sono scienziati, soprattutto scienziati “duri”. I protocolli giornalistici si avvicinano più a quelli delle scienze sociali descrittive, come l’antropologia e la sociologia (e le loro sotto-discipline). La natura scientifica di queste discipline si fonda sul concetto di positivismo del tardo XVIII secolo, che vede la produzione di “fatti” come radicata nella percezione e spiegata dalla ragione e dalla logica in stile baconiano. Questo atteggiamento positivista è stato proposto come un approccio alternativo e fruttuoso per comprendere la società, contrastando la metafisica o la teologia.
Il fatto è che le osservazioni “oggettive” e apparentemente invariabili delle scienze dure non si applicano facilmente alle scienze sociali “soft”, nemmeno quando queste tentano di seguire rigorosamente protocolli di osservazione simili a quelli delle scienze dure. L’antropologia sociale, ad esempio, è una forma di ricerca etologica che studia il comportamento umano e la natura delle società. La produzione di significato culturale è il compito dell’antropologia culturale, mentre l’antropologia linguistica si concentra sull’impatto del linguaggio nella vita sociale. L’antropologia si distingue per la sua richiesta di “descrizione densa” (thick description), termine introdotto da Clifford Geertz per indicare il suo metodo principale di lavoro: il “campo”, ovvero l’osservazione e la registrazione meticolosa degli eventi e dei comportamenti in un determinato contesto sociale. Questo, a ben vedere, è ciò che fanno anche i giornalisti, ma fare una descrizione “densa” è un lusso che spesso non si concedono per via dei limiti di tempo e di contesto. Il classico esempio di Geertz per spiegare il concetto di descrizione densa è il suo racconto del combattimento di galli in Bali, che non è solo un esempio di sport, ma anche di “gioco profondo”, un concetto di Jeremy Bentham che Geertz utilizza per spiegare come l’intensità e il rischio di perdita, sia di denaro che di status, rendano il gioco particolarmente significativo e complesso nella sua dinamica sociale.
Il comportamento in questi contesti non è mai solo superficiale: ogni gesto, ogni scelta, ogni decisione è carica di significato culturale e sociale, che trascende il semplice atto fisico. La comprensione di questi fenomeni richiede una lente più attenta, una visione che va oltre la superficie degli eventi e cerca di cogliere la loro complessità profonda. Così, l'analisi antropologica, pur non essendo una scienza “dura”, si distingue per la sua capacità di rivelare e contestualizzare quei significati che spesso sfuggono ai metodi più riduttivi.
La scienza, l'oggettività e i limiti della verità: un esame critico delle pratiche giornalistiche e scientifiche
La visione bacconiana della scienza sosteneva che "i prodotti della scienza non sono contaminati dai desideri, obiettivi, capacità o esperienze umane … Non dipendono dai valori sociali e morali contingenti, né dal pregiudizio individuale di un scienziato." Questa concezione ha dominato la filosofia della scienza per secoli, ma oggi possiamo affermare che non è più del tutto valida. Le ricerche approfondite che i filosofi della scienza hanno condotto negli ultimi cinquant'anni dimostrano infatti che le possibilità di una scienza che fornisca una visione non prospettica, un punto di vista neutrale da "nessun luogo", o di procedere senza l'influenza di obiettivi umani e valori, sono estremamente ridotte.
In particolare, un tema centrale in questa discussione riguarda la natura stessa della verità scientifica e la possibilità che essa possa essere separata dai contesti culturali, sociali ed etici in cui viene prodotta. La scienza, per quanto possa cercare di essere oggettiva, è inevitabilmente informata dal contesto umano, dalle sue leggi, ma anche dalle sue contraddizioni. La ricerca scientifica, pur perseguendo la verità, è intrinsecamente legata alla prospettiva e alle interpretazioni del ricercatore, così come ai valori e agli scopi della società in cui essa si sviluppa.
Tuttavia, tale problematica non riguarda esclusivamente la scienza. Un aspetto fondamentale da considerare riguarda il giornalismo, che spesso si propone come "oggettivo" e "neutrale", ma che, in realtà, si trova a operare su un piano completamente diverso. La stampa, a differenza della scienza, non segue protocolli rigorosi che le permettano di avvicinarsi a una "verità" universale. L'accuratezza delle sue rappresentazioni è di un ordine completamente diverso. Il giornalismo non è vincolato agli stessi standard metodologici, eppure si propone come arbitro di una verità che è spesso fluida e contestuale. Questo non implica una minore importanza della stampa; piuttosto, suggerisce che le sue funzioni cruciali vanno oltre la pretesa di una verità assoluta.
Le ambizioni giornalistiche di assumere un ruolo scientifico, come quelle che si potrebbero riscontrare in alcune rivendicazioni di "oggettività" professionale, sembrano quindi destinate a svanire. Una simile pretesa rischia di spostare l'attenzione dalle reali funzioni del giornalismo, che possono essere esercitate senza bisogno di alcuna "eticetta" di status professionale. Rivelare il legame tra scienza e giornalismo significa, in effetti, aprire un vaso di Pandora, con il rischio di essere inghiottiti dalle stesse contraddizioni che si desidera comprendere e gestire.
La crescente accusa di "fake news" è un esempio lampante di come queste tensioni si manifestano nella pratica giornalistica contemporanea. Il tentativo di aderire a standard scientifici di verità rischia non solo di minare la credibilità del giornalismo, ma di confondere ulteriormente i confini tra scienza e comunicazione. Tuttavia, è importante ricordare che il giornalismo, pur non avendo l'ambizione di aderire agli stessi criteri della scienza, può svolgere una funzione altrettanto cruciale nella società, facendo luce su verità parziali, frammentarie e soggettive che, pur non essendo assolute, sono fondamentali per la costruzione di un quadro complesso della realtà.
Infine, è fondamentale comprendere che la pretesa di oggettività non è solo un problema accademico, ma ha impatti pratici nella società e nella vita quotidiana. La ricerca di una verità "neutrale" spesso porta a un fraintendimento della scienza e della sua applicazione. Ciò che ci interessa, piuttosto, è come le scienze possano contribuire alla società, pur rimanendo consapevoli delle proprie limitazioni. La verità scientifica non è mai assoluta e la sua applicazione è sempre influenzata da valori culturali, sociali e politici. Pertanto, è essenziale che ci avviciniamo alla scienza e al giornalismo con una mente critica, pronta a riconoscere i limiti di ciascun campo e a comprendere le sfumature che li contraddistinguono.
Qual è il ruolo dell'etica nel giornalismo e come influenza la nostra comprensione della verità?
Nonostante la sua disconoscenza delle preoccupazioni epistemologiche, e ciò che i detrattori (spesso di parte) asseriscono, il giornalismo non trascura lo studio dell'etica e della moralità: è evidente che la fede nell'oggettività nel giornalismo non sia solo una dichiarazione su che tipo di conoscenza sia affidabile. È anche una filosofia morale, una dichiarazione su che tipo di pensiero si dovrebbe adottare nel prendere decisioni morali. Le scuole di giornalismo universitarie hanno reso comuni i corsi di etica, e molti giornalisti meritano elogi per affrontare seriamente le questioni morali. Tuttavia, questa non è semplicemente, o nemmeno principalmente, una questione di dire la verità (come che questa verità venga definita), perché raccontare la verità è sempre stato, fin dalle prime pubblicazioni giornalistiche, facoltativo, una strategia di marketing, e non una qualità sostanziale. Certo, la stampa è stata servita dalla veridicità, ma altrettanto spesso è stata servita semplicemente offrendo ciò che vende, ciò che cattura l'attenzione. Afferrare la verità per i primi stampatori di giornali era il punto di forza del loro nuovo prodotto, e adottarla come punto di vendita non significava sempre – o nemmeno frequentemente – dire la verità (o qualcosa che le somigliasse). Il trattare la verità come un marchio è la radice più profonda e duratura delle cosiddette "fake news".
Affermare la verità, quindi, storicamente, significa che i giornalisti hanno sempre, nella pratica, tenduto più verso il cinismo di Ponzio Pilato che verso l'incapacità di mentire di George Washington. Al minimo, la consapevolezza dell'effetto potenzialmente paralizzante di un eccesso di verifica sui contenuti è probabilmente destinata a condizionare la condotta e il contenuto stesso. Eticamente, è facile condannare tale menzogna o, più comunemente, la flessibilità nel riportare fatti verificabili esternamente, ma in pratica ciò indebolisce la capacità della stampa di svolgere le sue funzioni sociali positive. Inoltre, anche se la verità fosse chiaramente definita, non potrebbe essere insistito su di essa senza un apparato repressivo per far rispettare l'obbedienza. Una stampa libera non può tollerare ciò.
In ambito anglosassone, almeno, la propensione del giornalismo per l'aspetto pratico implica che la moralità si basi sulla posizione etica utilitaristica fondamentale, ossia il "Non fare del male". Rispetto alla ricerca della verità, questo principio è relativamente semplice, ma le implicazioni legate alla radice della falsità rendono questa visione complessa. Come sottolineato in precedenza, l'esercizio del diritto alla libertà di espressione, unico tra i diritti umani delle Nazioni Unite, può essere considerato un crimine. La libertà presenta un "antinomy", una contraddizione che offusca le possibili dimensioni etiche del problema, come illustrato, ad esempio, dall'incidente di "La guerra dei mondi". I sociologi che scrissero il loro studio pionieristico sull'impatto di questo programma, che aveva causato panico diffuso, avevano bisogno di un progetto drammatico per ottenere finanziamenti per la ricerca dai trasmettitori. Inoltre, altre parti coinvolte, come la rete, la stampa e Welles stesso, avevano un interesse comune nel promuovere l'impatto del programma. Ma le conclusioni sugli effetti dei mass media (inclusa la stampa) sono rimaste elusive.
Nel corso di mezzo secolo, il modello della "siringa ipodermica" è stato affinato in un concetto di "Flusso a due passi", suggerendo che, piuttosto che un impatto diretto sugli individui, le persone sono influenzate da "leader d'opinione", ossia da familiari, amici o colleghi visti come esperti in qualche campo, come sport, politica, ecc. L'impatto dei mass media doveva essere misurato rispetto a questo gruppo, poiché erano i formatori di opinione ad assorbire e a essere influenzati dai media direttamente. Certamente, gli studi hanno dimostrato che le persone ascoltano i loro compagni in questo modo, ma questo lasciava comunque aperta la questione dell'effetto dei media sui loro interlocutori "informati". Tuttavia, anche questa prospettiva non è riuscita a produrre una comprensione condivisa sull'influenza dei media, e alla fine è emersa l'ipotesi dei "Nulli effetti" o la "Teoria della rinforzo", che sostanzialmente ha abbandonato l'idea di dimostrare scientificamente l'impatto. Invece, si è messo l'accento sull'autonomia del ricevente, che può resistere ai significati dei messaggi mediatici dominanti, come suggerisce il modello "Uso e gratificazioni". Negli anni '80, un "Processo di coltivazione" ha limitato questa visione alternativa sostenendo che c'erano "utenti intensivi" tra i destinatari, in particolare nelle classi inferiori, che erano suscettibili a iniezioni di comprensione e opinioni dai media.
Le teorie si sono moltiplicate, ma le prove restano così incerte che nel 1996 una ricercatrice britannica di rilievo, Sonia Livingstone, poteva concludere che "nonostante il volume della ricerca, il dibattito sugli effetti dei media rimane irrisolto". E lo è ancora oggi, perché abbiamo cercato di misurare qualcosa che non abbiamo definito adeguatamente. Ovviamente, partiamo dal presupposto che stiamo trattando l'influenza, l'influenza che i media hanno sulla società; ma "influenza" ha un doppio aspetto. Essa è sia "il potere di avere un effetto sulle persone o sulle cose, o una persona o cosa che è in grado di farlo", ma l'effetto deve essere mappato sul processo di comunicazione. Il produttore del messaggio mediatico ha due linee di influenza nel modello di comunicazione messaggio-media-ricevente. Una di queste linee di influenza è, in effetti, a doppio senso, tra il produttore e il soggetto. L'altra, usualmente a senso unico nonostante l'introduzione recente di una misura di "interattività", corre essenzialmente dal produttore al ricevente. E questa, la strada a senso unico, è quella su cui si è concentrata la ricerca sugli effetti dei media. L'impatto può essere registrato internamente dal ricevente o può produrre una risposta esternamente verificabile, ma non siamo riusciti a mappare questa differenza nella natura della loro reazione.
La panico mediatico può essere tanto radicato in ciò che le persone raccontano ai ricercatori quanto in ciò che i ricercatori vedono le persone fare. Il nostro linguaggio tecnicista esacerba il problema: per esempio, descrivere i "click" come "coinvolgimento" e misurarli come significativi è ingenuo. Analizzare le segnalazioni di distress, rabbia, empatia o altre emozioni da parte del pubblico svela solo uno degli aspetti tra molti nel determinare gli stati d'animo. Ad esempio, le attività civiche online comprendono la firma di petizioni online, la condivisione, l'upload di commenti, ma l'azione diretta (partecipare a una manifestazione, inviare una donazione) non è visibile. Questo è il motivo per cui prendiamo una posizione che ridimensiona il potere dei media. Non si tratta di sminuire l'importanza cruciale dell'influenza, ma piuttosto di suggerire che, quando si tratta di determinare e regolare quel potere, gli impatti dovrebbero riguardare principalmente quelli che producono effetti tangibili nel mondo.
Un esempio evidente di danno causato dai media riguarda la copertura dei suicidi. Gli psicologi hanno raccolto dati per dimostrare l'effetto "Werther", una correlazione tra la copertura mediatica dei suicidi e l'aumento dei tassi di suicidio. Il "copycatting" – l'imitazione di suicidi dopo la diffusione di notizie, soprattutto in circostanze specifiche – ha raggiunto un punto tale che in diversi paesi esistono linee guida per i giornalisti su come riportare queste notizie al fine di ridurre al minimo le probabilità di effetti imitativi.
La Verità sulla Manipolazione dei Media: Come i "Fake News" Influenzano le Elezioni e la Società
Veles, una città di circa 44.000 abitanti nella Repubblica della Macedonia del Nord, è diventata un simbolo sorprendente nell’analisi della disinformazione digitale. Durante le elezioni presidenziali americane del 2016, una notevole quantità di notizie false, principalmente pro-Trump, proveniva da operatori apolitici di Veles. Questi individui pubblicavano contenuti sensazionalistici per generare clic e guadagnare entrate pubblicitarie tramite piattaforme come Facebook e Google. In un’area economicamente depressa, dove il salario medio non superava i 350 euro al mese, si diceva che alcuni di questi "mercanti di fake news" guadagnassero migliaia di euro al giorno. La testimonianza di un adolescente che dichiarava di non sentirsi minimamente in colpa per l'influenza politica che la sua attività potesse esercitare sulle elezioni americane è indicativa della mentalità diffusa tra i giovani locali: "Ci interessa solo fare soldi, comprare vestiti costosi e bere al bar".
Il fenomeno della disinformazione non si limita a piccole città, ma ha avuto un impatto enorme sulle elezioni politiche a livello globale. Un altro esempio emblematico è quello della società di consulenza politica Cambridge Analytica, che ha sfruttato Facebook per raccogliere milioni di profili utente attraverso un'app e un sondaggio apparentemente "accademico", al fine di profilare elettori e indirizzare pubblicità politica mirata. Questo ha sollevato enormi preoccupazioni riguardo alla protezione dei dati e ha portato a gravi conseguenze legali per Facebook. Sebbene l'uso di questi dati per influenzare le elezioni, come nel caso di Trump e del referendum sulla Brexit, sia stato ampiamente discusso, resta un interrogativo fondamentale: quanto di questo fenomeno è effettivamente riuscito a manipolare l'opinione pubblica?
Micah Sifry, un attivista politico, sostiene che non dobbiamo sopravvalutare l’effetto di questi strumenti. Non c'è alcuna prova concreta che la manipolazione dei dati attraverso le piattaforme digitali abbia avuto un impatto significativo sulle elezioni. Se la disinformazione fosse davvero un'arma potente per cambiare l'orientamento politico degli elettori, non si spiegherebbero i successi recenti di sinistra in paesi come il Messico o la vittoria di Ekrem İmamoğlu nelle elezioni di Istanbul. Come osserva Sifry, la vera causa delle sconfitte elettorali non è l'influenza delle fake news, ma la difficoltà di connessione tra il messaggio politico e gli elettori. La tesi che le campagne politiche siano facilmente manipolabili da una disinformazione ben orchestrata sembra quindi poco fondata, soprattutto alla luce degli esperimenti condotti da Joshua Kalla e David Broockman, che hanno dimostrato che le campagne elettorali tradizionali hanno un impatto molto ridotto sui risultati finali.
L'incapacità di fornire prove concrete sul legame diretto tra la disinformazione e l'influenza sui voti è uno degli aspetti critici da comprendere. Nonostante i media continuino a dipingere il fenomeno come una minaccia imminente alla democrazia, l'evidenza empirica non supporta questa visione. La paura mediatica di fronte alla disinformazione e alla manipolazione dei dati somiglia molto a quella che Stanley Cohen definisce "panico morale". In tale contesto, i media ingigantiscono un problema, spesso alimentato da incidenti isolati, che viene poi presentato come una minaccia esistenziale per i valori sociali.
Le rivelazioni su Cambridge Analytica e sul modo in cui Facebook ha gestito i dati degli utenti sono state certamente preoccupanti, ma è importante non cadere nella trappola di attribuire troppo potere a questi strumenti. Le campagne elettorali moderne, infatti, sono ben più complesse di quanto possa sembrare, e l'efficacia di una campagna politica dipende principalmente dalla qualità del messaggio e dalla capacità di un partito o di un candidato di connettersi con gli elettori, non dall’ingegneria della disinformazione.
Se da un lato l'emergere della disinformazione online ha portato a nuove sfide per la politica e la società, dall'altro è fondamentale non perdere di vista che gli elettori, nella loro maggior parte, sono in grado di discernere le informazioni e fare scelte consapevoli. La sfida non è tanto quella di combattere le fake news, quanto di migliorare il dialogo politico, l'accesso alle informazioni verificate e l’educazione civica. Queste sono le vere leve per costruire una democrazia sana e resiliente, in grado di fronteggiare le manipolazioni mediatiche senza cedere alla paura o all'illusionismo dei "cattivi" media.
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