L'attivismo in supporto agli immigrati senza documenti è caratterizzato da azioni che mirano a coinvolgere lo stato, facendo appello ai diritti e richiedendo interventi per correggere le ingiustizie e le disuguaglianze. Un esempio emblematico di cittadinanza insorgente è rappresentato dalla creazione del programma DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) nel 2012. Gli attivisti immigrati, frustrati dall'incapacità del Congresso di creare un percorso verso la cittadinanza, riuscirono a convincere l'amministrazione Obama a creare uno status giuridico provvisorio attraverso un'azione esecutiva, che sarebbe durato fino a quando l'amministrazione Trump non lo avesse annullato.

Il programma DACA ha conferito a numerosi giovani immigrati senza documenti due diritti fondamentali. In primo luogo, un'ordinanza di sospensione dell'espulsione, che ha ridotto la paura di essere deportati per motivi non legati a crimini. In secondo luogo, i beneficiari di DACA hanno ricevuto l'autorizzazione legale al lavoro, permettendo loro di passare da lavori sottopagati e informali a occupazioni più stabili e remunerate. Un diritto accessorio, ma significativo, è stato la possibilità di ottenere un numero di previdenza sociale grazie all'autorizzazione lavorativa, che ha anche aperto la possibilità di guidare legalmente.

Le ricerche sui beneficiari di DACA mostrano i risultati positivi di questo programma: ad esempio, il 96% di 326 intervistati erano iscritti a scuola o erano impiegati, e il salario orario medio dei beneficiari di DACA è aumentato del 78%. Inoltre, il 62% dei rispondenti ha acquistato la propria prima auto, un segno tangibile di una maggiore stabilità economica. Tuttavia, nonostante questi progressi, l'amministrazione Obama non riuscì a estendere il programma come inizialmente previsto. Nel 2014, Obama cercò di espandere DACA e introdurre un programma simile per i genitori di cittadini americani e residenti permanenti legali (DAPA), ma quest'ultimo non vide mai la luce a causa delle numerose cause legali.

Il 2017 segnò un punto di svolta con la revoca di DACA da parte dell'amministrazione Trump, alimentando un clima di incertezza tra i beneficiari. Per molti, la revoca significava perdere l'autorizzazione al lavoro, il numero di previdenza sociale e la possibilità di ottenere una patente di guida. Il ritorno all'ombra e la paura crescente di essere deportati hanno avuto gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. La precarietà vissuta dai giovani senza documenti negli Stati Uniti è quindi anche un fenomeno di natura psicologica, che impedisce loro di "anticipare il futuro", come evidenziato da Anderson nel 2010.

La precarietà è strettamente legata alle condizioni socio-economiche in cui vivono questi immigrati. La possibilità di lavorare legalmente per i beneficiari di DACA ha rappresentato una forma di protezione economica, ma i rischi associati alla precarietà non sono limitati al lavoro. Gli immigrati senza documenti, anche quando riescono a ottenere impieghi, sono più soggetti a condizioni di lavoro substandard, a sfruttamento da parte dei datori di lavoro, a salari più bassi e orari di lavoro irregolari. Inoltre, sono maggiormente esposti a pericoli professionali che possono avere ripercussioni sulla salute mentale ed emotiva a lungo termine.

La precarietà varia a seconda dello spazio e del tempo, con alcuni Stati, come la California, che offrono maggiori protezioni agli immigrati senza documenti. In questi Stati, i giovani immigrati si sentono relativamente al sicuro, mentre in altri, come quelli che si trovano ai margini della comunità immigrata, la situazione è più incerta. Con la revoca di DACA nel 2017, la precarietà dei beneficiari è aumentata notevolmente. La possibilità di perdere lo status protetto ha avuto effetti devastanti non solo sull'economia, ma anche sul benessere psicologico di molti giovani, che si sono trovati a vivere nell'incertezza, in un limbo giuridico e sociale.

L'amministrazione Trump ha ulteriormente intensificato questo clima di precarietà, alimentando la paura degli immigrati attraverso discorsi che dipingevano l'immigrazione come una minaccia per il "Sogno Americano". La sua promessa di annullare DACA è stata mantenuta nei primi mesi del suo mandato, con conseguenze devastanti per circa 700.000 giovani beneficiari, molti dei quali sono stati esclusi dalle possibilità di rinnovare la protezione. Nonostante numerosi tentativi di azione legale da parte degli Stati che sostenevano DACA, la situazione è rimasta incerta.

Le risposte degli Stati alla fine di DACA sono state varie. Mentre Stati come la California, il Colorado e il New York hanno sostenuto i diritti dei beneficiari di DACA, molti altri Stati hanno partecipato a cause legali contro la revoca del programma, cercando di tutelare i diritti di coloro che erano stati coinvolti in DACA.

Nel contesto attuale, la precarietà degli immigrati senza documenti, specialmente quelli sotto DACA, rimane un tema cruciale. La continua lotta per la protezione dei diritti di questi individui evidenzia la necessità di politiche migratorie più inclusive e di una riflessione su come la società possa garantire pari opportunità a tutti, indipendentemente dal loro status giuridico.

La comprensione della precarietà di questi giovani non si limita alla semplice visione dei diritti legali o economici. È fondamentale riconoscere anche gli effetti emotivi e psicologici di vivere in uno stato di continua incertezza. La paura della deportazione, la difficoltà di pianificare il futuro e le barriere sociali sono elementi che contribuiscono significativamente al trauma quotidiano che molti immigrati senza documenti devono affrontare.

Come il revanchismo razziale e l'urbanesimo neoliberale trasformano gli spazi pubblici nelle periferie

Il "revanchismo" urbano non è un fenomeno isolato, ma una manifestazione locale di una più ampia politica razziale che si inserisce nelle crisi del neoliberismo. Secondo Gordon MacLeod (2002), la politica violenta del revanchismo è una delle "deviazioni" più sinistre del neoliberismo urbano. In un contesto di crescente competizione interurbana per investimenti, turisti e residenti benestanti, le città si vedono costrette a creare un'immagine idealizzata di sé, un'immagine che, come sostiene MacLeod, non deve essere compromessa dalla visibile presenza di gruppi marginalizzati. Laddove il declino urbano viene attribuito alla presenza di corpi razzializzati, la soluzione per molti amministratori diventa quella di "purificare" lo spazio urbano, rimuovendo quei corpi. Questo processo di identificazione, espulsione e sostituzione degli "artefici del declino urbano" è alla base degli obiettivi del revanchismo.

Nel contesto delle politiche neoliberali, il revanchismo si configura come una risposta locale a una crisi più ampia. Considerato un progetto razziale, il revanchismo in azione può essere letto come una forma di politica nazionalista bianca, una reazione postfascista a livello locale. Smith (1998), tuttavia, limita l'uso del termine "pulizia sociale" per descrivere politiche di tolleranza zero. Noi argomentiamo che l'attuale situazione richiede una visione più ampia, che includa tutte quelle azioni statali che stigmatizzano e espellono i residenti marginalizzati, come quelle visibili nelle periferie delle grandi città.

Un esempio illuminante di questo fenomeno si trova nei sobborghi di Atlanta, in particolare a Marietta, Georgia. Nel 2013, la città ha approvato un referendum per finanziare un piano di riqualificazione urbana da 68 milioni di dollari. La maggior parte dei fondi sarebbe stata destinata alla demolizione di una serie di appartamenti obsoleti lungo Franklin Road, un'area che, seppur non avendo progetti concreti per il suo futuro, veniva vista come una "minaccia" per il rilancio dell'economia urbana. L'operazione ha portato alla demolizione di 1.134 unità abitative, con il conseguente spostamento di circa 1.700 residenti, di cui la maggior parte appartenenti alle comunità afroamericana e ispanica. L'idea che la distruzione fisica di queste abitazioni avrebbe favorito l'ingresso di sviluppatori privati si è rivelata corretta, e da quel momento in poi l'area ha visto l'apertura di nuovi centri commerciali, alberghi, uffici e strutture per il calcio, con un'impennata dei prezzi degli affitti.

La narrazione che ha alimentato questo processo è stata quella di un "ritorno all'ordine", che ha visto il passato di Marietta come una sorta di età dell'oro, quando la zona era fiorente e dominata da una comunità bianca di professionisti. Quando l'area ha iniziato a diventare a maggioranza minoritaria negli anni '90, è stato percepito come un declino inesorabile. Così, il progetto di riqualificazione è stato presentato come un'opera di "palingenesi", un ritorno a quella che era ritenuta la giusta composizione etnica e sociale del quartiere. La retorica utilizzata per giustificare la "pulizia" dell'area riflette un'inquietante nostalgia per un passato razzialmente omogeneo e una visione di salvezza urbana attraverso l'espulsione dei gruppi emarginati.

La "pulizia sociale" che si è realizzata a Marietta va letta attraverso una lente più ampia, che non si limita a un semplice atto di gentrificazione. La retorica che ha accompagnato questi interventi è impregnato di un’ansia razziale profonda, che riflette il tipo di postfascismo che oggi si sta diffondendo in molte città americane. In un contesto di crescente precarietà economica e sociale, il revanchismo diventa un potente strumento politico per ripristinare un ordine percepito come minacciato, con l'espulsione fisica e simbolica delle comunità marginalizzate come elemento centrale del processo.

Il caso di Marietta non è un'eccezione, ma un riflesso di una tendenza più ampia, che si sta verificando in molte altre aree urbane. Le politiche di gentrificazione, che in apparenza potrebbero sembrare semplici interventi economici, nascondono dietro di sé una forte componente ideologica. La lotta per il controllo dello spazio urbano, in particolare nelle aree periferiche, non riguarda solo la gestione dell'immagine urbana, ma anche la gestione della composizione sociale di quei luoghi. La "pulizia sociale" non è solo un fenomeno fisico, ma anche un processo simbolico, che cerca di ridisegnare la città secondo logiche escludenti, improntate al dominio delle classi medie e alte bianche.

In questo contesto, è fondamentale non solo analizzare i cambiamenti fisici nelle città, ma anche interrogarsi su come tali trasformazioni siano accompagnate da politiche che cercano di omogeneizzare etnicamente e socialmente gli spazi urbani. Questo tipo di riorganizzazione urbana non riguarda solo il miglioramento economico, ma anche il controllo sociale e razziale, e si inserisce in un quadro più ampio di polarizzazione sociale e politica che caratterizza molte metropoli moderne.

Come il Sistema Statale Modellato dalla Macchina da Guerra: Una Riflessione su Trump e le Dinamiche di Potere

Secondo Deleuze e Guattari (2013, pp. 409-410), l’uomo dello Stato è definito da due teste: quella del mago-re e quella del giurista-sacerdote, figure archetipiche che operano in un gioco binario. Questa dualità è visibile nelle figure politiche più recenti, come quella di George W. Bush e Barack Obama. Bush, il mago-re o "despota", incarnava l’autorità suprema e la guerra come strumento di dominio. Obama, il giurista-sacerdote o "organizzatore", rappresentava un potere razionale e organizzato, ma altrettanto vincolato dalle strutture dello Stato. Tuttavia, quando si esamina Donald Trump, emerge una figura differente. Trump non si inserisce facilmente in queste categorie tradizionali. Piuttosto, come sottolineano Deleuze e Guattari (2013, p. 412), appare come una figura deformata, folle, illegittima, usurpatrice, e peccaminosa, avvolta in una nebbia di contraddizioni. Questo non solo da un punto di vista ideologico, ma anche per come è stato trattato dai media e dalla società in generale.

Nonostante Trump non abbia vinto il voto popolare, è diventato legittimamente presidente degli Stati Uniti grazie al sistema elettorale del Collegio Elettorale. Questo aspetto mette in evidenza uno dei problemi fondamentali del sistema elettorale statunitense: una democrazia non sempre si traduce in una rappresentanza fedele della volontà popolare. Seppur il suo voto sia stato legittimato, la sua presidenza è vista da molti come un'anomalia, tanto che continua ad essere tra i presidenti più impopolari della storia. Ciò solleva importanti questioni riguardo la legittimità non solo del processo elettorale, ma anche della sua connessione con forze esterne, come l’interferenza della Russia nelle elezioni. La sua vittoria, pur legittima secondo i meccanismi dello Stato, pone interrogativi sulla salute e sull’integrità della democrazia e sul ruolo che le strutture statali svolgono nella sua ascesa.

La macchina da guerra, come concetto, si riferisce a una struttura capace di azione diretta, di guerra, di lotta senza l’ossessione di una legge o di un ordine. Ma senza il supporto e la legittimazione dello Stato, la macchina da guerra non ha nulla su cui agire o resistere. In fondo, Trump, pur essendo una figura controversa, è stato legittimato dal sistema statale e ha trovato la sua forza nei meccanismi statali stessi. L’interazione tra la macchina da guerra e lo Stato è tutt’altro che pacifica. Lo Stato, pur appropriandosi della macchina da guerra, cerca costantemente di mantenere il proprio ordine interno. La contraddizione di fondo è che la macchina da guerra, sebbene entri a far parte della macchina statale, non può mai essere completamente integrata, senza che lo Stato stesso subisca un cambiamento, anche se minimo.

L’ascesa di Trump può essere interpretata come il frutto di una fusione tra una macchina da guerra, che incarna il potere caotico e imprevedibile, e lo Stato, che cerca di controllare e canalizzare tale potenza. Trump, grazie al suo stile provocatorio e alla sua retorica da guerra culturale, ha dato una nuova linfa alla destra americana, alimentando la convinzione che la macchina statale potesse essere utilizzata come strumento di potere. Tuttavia, questa relazione non è mai stata priva di tensioni. Trump e la sua amministrazione hanno tentato di utilizzare la macchina statale per consolidare il proprio potere, ma allo stesso tempo si sono trovati ad affrontare le resistenze intrinseche a un sistema che cerca di preservare l’ordine e la stabilità.

Nel momento in cui un leader come Trump cerca di riformare lo Stato secondo il suo volere, emerge il conflitto tra l'energia caotica della macchina da guerra e le strutture consolidate dello Stato. Le difficoltà che Trump ha incontrato nel cercare di implementare le sue politiche non sono quindi solo il frutto di una resistenza popolare, ma anche della difficoltà di armonizzare il suo approccio irrazionale e imprevedibile con l’apparato statale che si sforza di mantenere un equilibrio.

L’importanza di comprendere questa dinamica tra la macchina da guerra e lo Stato risiede nel fatto che essa non solo ci aiuta a spiegare l’ascesa di figure politiche come Trump, ma anche a capire le contraddizioni intrinseche al potere. La macchina da guerra, pur essendo potentemente distruttiva, non può mai essere completamente integrata nel sistema statale senza che l'intero meccanismo subisca un cambiamento significativo. La tensione tra questi due poteri non è solo una questione di strategia politica, ma un conflitto ontologico tra ordine e caos, stabilità e destabilizzazione.

In questa luce, diventa evidente che la macchina da guerra, anche se apparentemente al servizio dello Stato, è destinata a generare un costante conflitto interno. La sua presenza all’interno del sistema statale non fa altro che accentuare le contraddizioni esistenti, creando una spirale di conflitto che non può essere facilmente risolta. Questo scenario non è limitato solo alla politica americana, ma si applica a molte altre situazioni politiche e storiche, dove la macchina da guerra ha cercato di penetrare nel sistema statale, modificando le strutture di potere in modi imprevedibili e spesso disastrosi.

La correlazione tra l'entusiasmo per il wrestling e il voto a Trump nelle elezioni del 2016: Un'analisi delle aree metropolitane

L'analisi del voto nelle elezioni presidenziali del 2016, in relazione alla partecipazione a eventi di wrestling WWE, offre uno spunto interessante per comprendere le dinamiche sociali e politiche che hanno caratterizzato quel periodo. In particolare, abbiamo aggregato il voto per i candidati Democratico e Repubblicano a livello di aree metropolitane CBSA (Core-Based Statistical Area), sommando il totale dei voti nei vari conteggi delle contee all'interno di ogni area metropolitana. Questo approccio ci ha permesso di esaminare una relazione tra la passione per il wrestling e l'affluenza alle urne, considerando come queste due variabili possano essere correlate nelle diverse aree geografiche.

Nel caso di Minneapolis-Saint Paul, ad esempio, abbiamo utilizzato la partecipazione agli eventi WWE e la popolazione di 16 contee metropolitane per costruire un rapporto di affluenza, il che ha reso possibile osservare un fenomeno di supporto a Trump in specifiche regioni dove il wrestling ha una forte presa sul pubblico. Sebbene la relazione tra il tasso di partecipazione e il voto a favore di Trump non sia di tipo causale diretto, i dati suggeriscono una connessione interessante, sebbene con una varianza relativamente modesta.

Il nostro modello di regressione bivariata ha mostrato che, nelle aree metropolitane che hanno ospitato eventi WWE, l'entusiasmo per il wrestling e il voto a favore di Trump sembrano essere positivamente correlati. La regressione eseguita per le aree metropolitane del 2016 ha rivelato che il tasso di partecipazione al wrestling spiegava una piccola percentuale della variazione nel voto per Trump, ma il coefficiente risultante è stato statisticamente significativo. Sebbene l'analisi non dimostri che il wrestling abbia determinato direttamente l'esito elettorale, il dato è sufficientemente rilevante da sollevare interrogativi sulla connessione tra il tipo di retorica politica utilizzata da Trump e l'immagine del wrestling, che promuove una narrazione di sfida e polarizzazione.

Il modello, nonostante la sua debolezza complessiva, ha mostrato che nelle aree più piccole e industriali degli Stati Uniti, come nel Midwest e nel Rust Belt, il supporto a Trump era maggiore in quelle regioni dove la partecipazione agli eventi di wrestling era particolarmente alta. Questo suggerisce che il wrestling non solo rifletteva ma forse amplificava sentimenti di insoddisfazione e di lotta contro un sistema che sembra non rispondere più alle esigenze delle classi lavoratrici, una tematica spesso sollevata dalla retorica di Trump.

L'analisi del modello di regressione condotto sulle 54 aree metropolitane meglio predette ha mostrato che, quando applicato in modo più preciso, il modello era in grado di spiegare fino al 30% della varianza nel voto a favore di Trump. Questo rappresenta un miglioramento significativo rispetto alla regressione iniziale, indicando che il fenomeno era meno casuale di quanto inizialmente potesse sembrare.

Tuttavia, è essenziale notare che non è possibile sostenere che i fan del wrestling abbiano in modo decisivo determinato l'esito delle elezioni. Le 65.853.516 persone che hanno votato per Trump erano il risultato di un ampio spettro di fattori, tra cui la disillusione economica e l'incertezza politica. È vero che il wrestling rappresenta una forma di intrattenimento che incarna tematiche di confronto e polarizzazione, ma non possiamo ignorare la profondità e la complessità dei fattori socioeconomici e politici che hanno plasmato i risultati elettorali del 2016.

Questa relazione tra wrestling e politica, tuttavia, ci spinge a riflettere su come le narrazioni politiche possano essere modellate da forme di cultura popolare, e in particolare come l'immagine del wrestling, con la sua enfasi sulla "lotta" e sulla divisione tra "buoni" e "cattivi", possa aver influenzato il modo in cui molti elettori percepivano la campagna elettorale di Trump. Inoltre, la natura spettacolare della politica di Trump, spesso comparata a un match di wrestling, sembra aver trovato un terreno fertile in quelle comunità che apprezzano il wrestling come forma di intrattenimento, spesso legata a valori di resistenza e identità.

In conclusione, pur non essendo un fattore determinante, l'entusiasmo per il wrestling può aver giocato un ruolo nell'influenzare il supporto a Trump, offrendo uno spunto per comprendere come le dinamiche di consumo culturale e l'apprezzamento per certi tipi di spettacolo possano intersecarsi con le scelte politiche. Il modello, pur con i suoi limiti, ci invita a riflettere sulle nuove forme di polarizzazione politica e culturale che continuano a plasmare l'elettorato americano.