I datori di lavoro detengono un potere considerevole nel determinare i salari all’interno del mercato del lavoro STEM, e spesso scelgono di mantenere i compensi relativamente bassi. Questa scelta ha un effetto paradossale: invece di colmare una presunta carenza di lavoratori STEM, la sottovalutazione economica incentiva molti laureati e professionisti a lasciare questi settori. Il processo di fissazione dei salari non è casuale né completamente aperto alla concorrenza, ma è influenzato da dinamiche di imitazione e inerzia tra le imprese. Questi meccanismi, studiati dal sociologo Jake Rosenfeld, portano a una stabilità dei salari che può essere modificata solo da eventi straordinari, come richieste sindacali o aggiustamenti per equità. Tuttavia, in ultima analisi, è il datore di lavoro che decide quanto pagare, e nel settore privato questa discrezionalità si traduce spesso in una disparità che penalizza i lavoratori STEM rispetto a colleghi di altre aree professionali.
È interessante notare come, anche all’interno della stessa azienda, spesso i lavoratori non STEM percepiscano salari superiori rispetto ai tecnici e agli scienziati. Un esempio emblematico è quello dei manager nel settore tecnologico, che godono mediamente di compensi molto più elevati rispetto agli ingegneri o ai ricercatori. I dati del Congressional Research Service evidenziano come i manager STEM guadagnino quasi il doppio rispetto ai lavoratori tecnici tradizionali, con una crescita salariale più rapida nel corso degli anni recenti. Questo fenomeno svela una struttura interna in cui la gestione e il potere decisionale sono più remunerati delle competenze tecniche, con implicazioni importanti per la motivazione e la fidelizzazione dei professionisti STEM.
Per incrementare i propri salari, i lavoratori STEM hanno alcune strade, ma nessuna è semplice o priva di ostacoli. La prima consiste nel cambiamento di datore di lavoro, approfittando della dinamica del mercato che premia, almeno in parte, la mobilità esterna. Questo però non sempre è possibile o desiderabile, e inoltre la pratica di molte aziende di assumere prevalentemente dall’esterno anziché promuovere internamente limita le opportunità di crescita. Un esempio emblematico di questa limitazione è stato lo scandalo delle grandi aziende della Silicon Valley, che hanno stipulato accordi segreti per non sottrarre dipendenti l’una all’altra, riducendo così la capacità di negoziazione salariale dei lavoratori.
Un altro ostacolo significativo è rappresentato dalle clausole di non concorrenza, ampiamente utilizzate in molti stati americani e che limitano la possibilità di trasferirsi liberamente tra aziende concorrenti, anche in caso di licenziamento. Questa pratica contribuisce a mantenere i salari più bassi, rallentando la mobilità professionale e indebolendo il potere contrattuale individuale. Un report del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha stimato che queste restrizioni hanno contribuito a una riduzione generale dei salari di circa il 20% rispetto a un mercato completamente competitivo.
La seconda via per migliorare la propria retribuzione è la promozione interna. Nel mondo non STEM, la progressione di carriera è spesso associata a un aumento di responsabilità e salario, anche se negli ultimi anni la tendenza verso strutture più piatte ha limitato queste opportunità. Nei lavori STEM, dove la scarsità di personale qualificato è spesso enfatizzata, ci si aspetterebbe che le aziende incentivino la permanenza attraverso percorsi tecnici di crescita e aumento salariale, senza dover passare necessariamente al management. Tuttavia, i dati mostrano che la promozione tecnica raramente si traduce in salari paragonabili a quelli dei manager, spingendo molti lavoratori a scegliere tra la soddisfazione tecnica e il guadagno economico legato a ruoli gestionali.
Questo dilemma rappresenta un nodo cruciale: la gestione di personale tecnico da parte di manager che non sono necessariamente esperti nel loro campo genera spesso insoddisfazione. Alcuni lavoratori STEM hanno preferito passare a lavori contrattuali proprio per evitare una supervisione che percepiscono come inefficace o poco competente. Promuovere dal proprio personale tecnico a ruoli manageriali incentiva dunque un allontanamento dalla pratica tecnica, creando una spaccatura tra chi risolve problemi concreti e chi gestisce risorse e strategie.
È importante considerare che questa struttura salariale e organizzativa riflette scelte strategiche dei datori di lavoro, che vedono i lavoratori principalmente come costi da contenere piuttosto che come investimenti di lungo termine per la produttività e l’innovazione. La conseguenza è una dinamica che contribuisce all’esodo dai lavori STEM e alla perdita di talento in settori chiave per lo sviluppo tecnologico e scientifico. Per il lettore è essenziale comprendere che le problematiche salariali non sono frutto di carenze di competenze o di mercato, ma di decisioni imprenditoriali che influenzano profondamente le condizioni di lavoro, le opportunità di crescita e la sostenibilità delle carriere STEM nel lungo periodo.
La "Cultura Aziendale" come Strumento di Esclusione nel Settore Tecnologico: Un'Analisi Critica
Nel contesto delle aziende tecnologiche, si parla spesso della "cultura aziendale" come elemento distintivo e centrale, una qualità che si ritiene cruciale per il successo e la coesione interna. Tuttavia, quando la cultura aziendale viene utilizzata come criterio di selezione o di valutazione dei dipendenti, può generare dinamiche di esclusione che colpiscono le minoranze, tanto sul piano razziale quanto di genere. In molti casi, il concetto di "cultura aziendale" diventa una maschera sotto cui si nascondono pratiche discriminatorie, escludendo sistematicamente coloro che non si conformano agli standard impliciti di "appartenenza".
Martínez ha descritto come le aziende tecnologiche celebrano le loro culture aziendali "uniche", ma allo stesso tempo applicano queste stesse culture come una sorta di filtro per l'assunzione, che spesso porta a pratiche discriminatorie. L'allineamento con la cultura aziendale, secondo lui, non riguarda solo le competenze tecniche: non basta saper programmare in C++, è necessario essere parte di quella "comunità" mentale e spirituale che definisce l'azienda. Questo approccio, seppur apparentemente innocuo, diventa un meccanismo di esclusione. Un candidato che non partecipa a tutte le attività sociali, come l’happy hour settimanale, può essere etichettato come "non adatto alla cultura". Una donna che non si adatta alla dinamica di gruppo o un ingegnere di origine indiana o cinese che non si comporta secondo il modello aggressivo tipico di molte aziende americane, può essere escluso per non essere visto come parte integrante del team. Questo fenomeno, benché subdolo, è stato riscontrato in molte delle più grandi aziende tecnologiche, come Facebook e Amazon.
In particolare, Facebook ha affrontato critiche per l’uso del criterio di "fit culturale" in modo sistematico ed esclusivo. Rhett Lindsey, un reclutatore afroamericano che ha lavorato per Facebook, ha spiegato che pur non essendo un campo di valutazione esplicito, il "fit culturale" diveniva una barriera invisibile per i candidati di colore. Oscar Veneszee Jr., un manager afroamericano, ha raccontato come l’insistenza su questo concetto ha finito per riprodurre il makeup demografico già presente nell’azienda, dove la cultura aziendale di Facebook non rifletteva quella delle persone di colore. La "riproduzione" della cultura aziendale, quindi, portava a una stagnazione della diversità etnica.
Anche Amazon non è stata esente da simili problematiche. Chanin Kelly-Rae, ex manager della diversità di Amazon, ha lasciato il suo ruolo dopo essere stata ostacolata dai dirigenti nel raccogliere e utilizzare dati demografici riguardanti le promozioni. Le donne afroamericane in Amazon hanno riportato esperienze dolorose di discriminazione, tra cui il trattamento differenziato nelle promozioni, l’imposizione di standard comportamentali come "sorridere di più" o l'insensibilità nei confronti delle difficoltà legate alla maternità o alla perdita di un figlio. In alcuni casi, venivano inserite in posizioni inferiori alle loro qualifiche, alimentando così un ciclo di esclusione che non era soltanto legato alle performance lavorative, ma alla difficoltà di adattarsi alla cultura aziendale dominante.
Uber, anch’essa oggetto di critiche per le sue pratiche discriminatorie, è stata al centro di un caso drammatico. Joseph Thomas, un ingegnere software afroamericano, ha perso la vita dopo aver subito pesanti discriminazioni sul posto di lavoro. La cultura "spietata" di Uber, che escludeva la leadership nera e dava grande valore al "mentoring", ha contribuito a creare un ambiente di lavoro in cui le difficoltà per i dipendenti di colore erano amplificate. Nonostante fosse un'azienda in espansione, Uber ha mostrato poco interesse nell’offrire supporto concreto o opportunità di crescita ai propri dipendenti di origine afroamericana.
Le problematiche di esclusione non riguardano solo le minoranze etniche, ma anche le donne e le persone che non rientrano nei modelli comportamentali tradizionali. Amazon, Uber, Google e altre grandi aziende tecnologiche hanno mostrato una grave mancanza di attenzione nei confronti delle esigenze delle donne, in particolare in relazione alla maternità o ai traumi legati alla gravidanza. In un caso particolarmente eclatante, una donna che aveva vissuto la devastante esperienza di un parto morto è stata trattata in modo cinico, con l'azienda che la monitorava per "assicurarsi che il suo focus rimanesse sul lavoro", nonostante il trauma emotivo che stava affrontando.
Anche nei casi di molestie sessuali, le aziende tecnologiche hanno spesso mostrato una tolleranza preoccupante. Susan Fowler, una ingegnere di Uber, ha raccontato la sua esperienza di molestie sessuali da parte di un superiore, raccontando come l’azienda, pur essendo a conoscenza del comportamento inappropriato, abbia minimizzato la situazione a causa delle performance di alto livello del manager coinvolto. Questo comportamento è diventato un vero e proprio modello in molte aziende tecnologiche, dove la performance lavorativa è spesso messa al di sopra delle necessità umane o delle norme etiche.
Infine, la resistenza alla creazione di una cultura veramente inclusiva nelle aziende tecnologiche non si limita alla resistenza alle donne o alle minoranze etniche, ma si estende anche alla mancanza di trasparenza nelle politiche interne e alla protezione dei privilegi dei dirigenti. Google, ad esempio, ha ricevuto critiche per aver pagato ingenti somme di denaro in pacchetti di uscita a dirigenti accusati di molestie sessuali, alimentando un clima di impunità che ha danneggiato ulteriormente le dinamiche di diversità e inclusione.
La "cultura aziendale" nelle tecnologie può essere quindi uno strumento di esclusione, che riproduce e amplifica le disuguaglianze, tanto sul piano razziale quanto di genere. Le aziende che si autodefiniscono "inclusive" dovrebbero riflettere criticamente su come il concetto di "fit culturale" venga applicato, evitando che si traduca in una prigione di norme invisibili che favoriscono solo un determinato gruppo di persone.
Come le grandi aziende tecnologiche trasformano la forza lavoro attraverso la formazione e la riqualificazione
Le principali aziende tecnologiche, come Amazon, hanno sviluppato programmi innovativi di formazione interna volti a trasformare i propri dipendenti in esperti di software e competenze digitali avanzate. Questi programmi, spesso gratuiti, combinano l'apprendimento guidato da istruttori con progetti pratici, consentendo ai partecipanti di padroneggiare le metodologie più richieste nell’ingegneria del software. Un esempio emblematico è il programma di Amazon, creato dai suoi stessi ingegneri, che offre ai dipendenti la possibilità concreta di passare a ruoli tecnologici all’interno dell’azienda. Successivamente, questa iniziativa è stata estesa a un pubblico più ampio, attraverso la Machine Learning University, e ulteriormente arricchita da programmi di apprendistato riconosciuti dal Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, che combinano formazione in aula e esperienza pratica sul campo.
Il modello adottato si basa su una strategia di crescita del mercato, con un’attenzione particolare allo sviluppo delle competenze cloud tramite la piattaforma AWS, diventata fondamentale sia internamente sia per il mercato globale. Tali strategie hanno inoltre permesso di creare un ponte tra formazione e occupazione, rispondendo alla domanda crescente di figure specializzate in tecnologie emergenti. Tuttavia, un problema ricorrente riguarda la tensione tra la formazione offerta dalle aziende e il desiderio dei lavoratori di mantenere autonomia e motivazione. Alcune imprese richiedono ai dipendenti di restituire i costi della formazione in caso di abbandono anticipato, con il rischio di generare insoddisfazione e un senso di "servitù" moderna, che può minare il clima aziendale.
In parallelo, molte aziende continuano a preferire l’acquisizione di competenze esterne piuttosto che investire nella formazione interna. Questo fenomeno si traduce in un ricorso massiccio a processi di selezione esterni, con una forte attenzione a trovare il candidato "giusto" per la posizione piuttosto che sviluppare le potenzialità del personale già presente. Tale approccio si riflette nella difficoltà delle imprese nel colmare le posizioni STEM rimaste vacanti per tempi più lunghi rispetto ad altri ruoli. La ricerca di talento fuori dall’azienda, seppur efficace a breve termine, può rivelarsi meno sostenibile rispetto a una politica di upskilling e reskilling ben strutturata.
Inoltre, il fenomeno della riqualificazione e della formazione continua si è affermato come condizione imprescindibile nell’epoca dell’automazione e della digitalizzazione crescente. Le capacità tecniche sono soggette a un rapido invecchiamento e i lavoratori devono abbracciare una cultura di apprendimento permanente per mantenersi competitivi. La trasformazione tecnologica, dunque, impone una riorganizzazione profonda delle strategie di sviluppo del capitale umano, in cui la responsabilità della crescita professionale è condivisa tra individuo e impresa. I programmi di formazione devono essere pensati non solo come strumenti per l’acquisizione di nuove competenze tecniche, ma anche come veicoli per l’acquisizione di capacità trasversali e per la creazione di ambienti di lavoro collaborativi e proattivi.
L’esperienza delle grandi aziende tecnologiche dimostra anche l’importanza di un sistema integrato che connetta formazione, lavoro e innovazione. Non si tratta solo di insegnare nozioni tecniche, ma di favorire l’apprendimento attraverso progetti reali che permettano l’applicazione immediata delle competenze acquisite. Questo metodo si rivela cruciale per consolidare il sapere e stimolare la capacità di risolvere problemi complessi in contesti dinamici.
È fondamentale inoltre riconoscere che la formazione interna rappresenta un investimento strategico che va oltre la semplice crescita individuale: costruisce un capitale umano specifico e durevole, capace di adattarsi ai cambiamenti tecnologici e di sostenere la competitività dell’organizzazione nel lungo termine. Per questo motivo, le aziende che puntano a una crescita sostenibile devono superare la dicotomia tra “costruire” o “acquistare” competenze, orientandosi verso modelli ibridi in cui la formazione continua è parte integrante della cultura aziendale.
Le iniziative di upskilling e reskilling richiedono inoltre un’attenzione particolare agli aspetti umani e motivazionali, per evitare che la formazione si trasformi in un obbligo percepito come oneroso. Una cultura aziendale inclusiva e rispettosa delle esigenze dei lavoratori favorisce invece il successo di questi programmi, rendendoli strumenti efficaci per il benessere e la produttività.
In definitiva, il futuro del lavoro nelle aziende tecnologiche si disegna attorno a una sinergia virtuosa tra tecnologia, formazione e gestione delle risorse umane, dove la capacità di adattarsi e apprendere diventa la competenza più preziosa.
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