Il mondo dell’istruzione superiore pubblica negli Stati Uniti, includendo università e college ai livelli undergraduate e graduate, ha visto un aumento sproporzionato di personale burocratico non docente rispetto all’incremento degli studenti e dei professori. Questa espansione massiccia di amministrativi spesso si traduce in un impiego crescente di risorse che potrebbero invece essere destinate all’assunzione di docenti capaci di offrire più corsi e agevolare la regolare laurea degli studenti. Nei campus universitari, come nel mio ateneo statale, esistono numerosi ruoli e dipartimenti amministrativi che risultano non essenziali alla missione accademica primaria. L’effetto di questa proliferazione è duplice: da un lato, una struttura organizzativa sovraccarica e inefficiente; dall’altro, un inevitabile aumento delle tasse universitarie per coprire gli stipendi gonfiati di questi amministratori.
Questa situazione rappresenta soltanto la punta dell’iceberg del cosiddetto “pantano”. Krannawitter evidenzia come, a livello statale, locale e federale, vi sia un’enorme quantità di regolatori, ispettori, funzionari, impiegati e burocrati. Il totale arriva a una cifra compresa tra i 20 e i 25 milioni di americani impiegati nel settore pubblico, cioè circa il doppio degli addetti dell’intero settore manifatturiero. Le statistiche del Bureau of Labor Statistics confermano questa realtà, mostrando come nel 2015 fossero quasi 22 milioni i lavoratori pubblici, contro poco più di 12 milioni nel manifatturiero.
Non solo impiegati diretti, ma anche appaltatori governativi e enti benefici legati allo Stato contribuiscono a questa massa di lavoratori pubblici, spesso finanziati in toto dai contribuenti. Queste organizzazioni spaziano da sviluppatori di armi a enti no-profit esenti da tasse, fino a gruppi politici che ricevono fondi pubblici per sostenere l’espansione burocratica, garantendo così più posti di lavoro e budget maggiori.
Quasi un quinto della forza lavoro americana è, in qualche modo, impiegato dal governo: questo è il cuore del “pantano”, un Leviatano burocratico, come lo definisce Krannawitter. Il termine Leviatano rimanda all’opera di Thomas Hobbes, che descrisse il governo come un’entità gigantesca, capace di mantenere la pace e l’ordine, ma al contempo potenzialmente opprimente, un “mostro” che regola ogni aspetto della vita sociale. Questi numeri, tra l’altro, considerano solo i dipendenti civili, escludendo milioni di militari e personale delle agenzie di intelligence, che aumentano ulteriormente la dimensione di questo “mostro”.
Il “pantano politico” comprende non solo burocrati non eletti ma anche funzionari nominati, lobbisti, diplomatici e staff amministrativi che esercitano un potere di fatto simile a quello legislativo. Questi soggetti, sebbene non eletti, influenzano quotidianamente le operazioni governative. Molti diplomatici, per esempio, sono nomine politiche più che professionali, spesso ricompense per donazioni o supporto elettorale, come il caso di Gordon Sondland, ambasciatore USA presso l’Unione Europea, scelto dopo aver donato un milione di dollari all’inaugurazione presidenziale di Trump. Se la tecnologia facilita la comunicazione tra leader mondiali, il ruolo diplomatico resta comunque cruciale per costruire relazioni durature, comprendere le dinamiche altrui e valutare opportunità di collaborazione o confronto, compiti che richiedono competenze sociologiche e politiche approfondite.
Il fenomeno del “pantano” non è esclusivo degli Stati Uniti; ogni governo nel mondo ospita una massa di funzionari non eletti con poteri amministrativi più o meno estesi. Un indicatore possibile di questo fenomeno è la dimensione “gonfiata” del governo. L’OCSE indica come alcuni Paesi spendano più della metà del loro PIL per la spesa pubblica, con Finlandia, Francia e Danimarca ai primi posti, seguiti da Belgio, Grecia, Austria, e Italia con circa il 50%. Gli USA si collocano al 37,9%, molto meno rispetto a questi esempi europei. Tuttavia, questa percentuale da sola non spiega il livello di inefficienza o la natura del “pantano”. Come sottolinea Dan Mitchell, quando un governo diventa troppo vasto, politici e burocrati si concentrano più sulla redistribuzione di risorse verso gruppi di interesse che sull’esecuzione delle funzioni essenziali del governo. Ad esempio, in Belgio, nonostante un apparato statale tra i più grandi al mondo, quasi ogni detective e ufficiale dell’intelligence militare è impegnato in indagini antiterrorismo, un paradosso che mette in luce l’inefficacia di una macchina pubblica sovradimensionata.
Definire un “governo gonfiato” o identificare esattamente cosa costituisce un “pantano” non è semplice. La questione si intreccia profondamente con la natura stessa del potere politico, con la tensione tra necessità di regolamentazione e il rischio di inefficienza burocratica. Capire questa complessità è fondamentale per chi vuole analizzare o riformare i sistemi governativi moderni, riconoscendo che il problema non è solo la quantità di personale, ma come e perché viene impiegato e quali interessi davvero serva.
Come la gestione politica e le nomine di Trump hanno aggravato la crisi istituzionale americana?
Nel corso dell’amministrazione Trump, la politica statunitense ha visto un peggioramento del clima istituzionale dovuto a scelte discutibili e a nomine controverse che hanno compromesso tanto la reputazione internazionale degli Stati Uniti quanto la fiducia interna nelle istituzioni democratiche. Un esempio emblematico è rappresentato dalla vicenda del procuratore speciale Robert Mueller e dalla pubblicazione del suo rapporto sull’interferenza russa nelle elezioni presidenziali del 2016. Nonostante l’attesa da parte di entrambi i partiti, il rapporto ha fornito elementi insufficienti a confermare una collusione diretta, ma allo stesso tempo ha evidenziato gravi criticità e comportamenti potenzialmente ostacolatori della giustizia da parte di Trump.
Il ministro della Giustizia William Barr, incaricato di riassumere il rapporto, ha prodotto una sintesi riduttiva e controversa che ha fatto apparire Trump come pienamente scagionato, provocando forti critiche da parte dello stesso Mueller e di importanti esponenti democratici come Kamala Harris e Dianne Feinstein, che hanno denunciato la mancanza di trasparenza e di rigore nel processo. La risposta repubblicana, invece, è stata di totale appoggio a Barr, la cui gestione è stata difesa anche quando si è rifiutato di testimoniare davanti al Congresso, aumentando così la tensione politica e la sfiducia nel sistema.
Le nomine di Trump sono state spesso al centro di polemiche per i legami personali e per il passato discutibile di alcuni collaboratori. La figura di R. Alexander Acosta, ex segretario al lavoro, ne è un esempio significativo: la sua gestione del caso Jeffrey Epstein, con un accordo giudiziario troppo indulgente verso un noto criminale sessuale, ha messo in luce i pericoli di scelte politiche che sacrificano la giustizia e l’etica per ragioni di opportunità o interessi personali. Il legame personale di Trump con Epstein ha ulteriormente alimentato sospetti e scandali, mentre William Barr, nominato ministro della Giustizia, si è trovato implicato indirettamente in un intreccio di rapporti e conflitti di interesse difficili da ignorare.
Sul fronte diplomatico, la crisi di fiducia si è estesa anche agli apparati esteri, come testimoniato dalla decisione pubblica di dimettersi di Chuck Park, diplomatico di lungo corso, che ha dichiarato di non poter più sostenere un’amministrazione percepita come incoerente e contraddittoria rispetto ai valori fondamentali americani di libertà e giustizia. Questa emorragia di morale tra i funzionari pubblici sottolinea l’impatto corrosivo dell’attuale gestione sulla credibilità internazionale degli Stati Uniti.
Il danno prodotto dalla politica di Trump non si limita però alla sfera immediata: molte delle sue nomine istituzionali, come quella di Kelly Craft come ambasciatrice alle Nazioni Unite, suggeriscono un futuro incerto per le politiche ambientali e sociali, soprattutto considerando i legami con potenti lobby industriali come quella del carbone. La scelta di figure con interessi diretti nel settore dei combustibili fossili mina le possibilità di affrontare con efficacia il cambiamento climatico, evidenziando come la gestione politica non solo abbia compromesso la qualità delle istituzioni, ma anche quella delle politiche pubbliche fondamentali per la sopravvivenza del pianeta.
È importante comprendere che l’eredità di questo periodo di governo non si esaurisce con il termine della presidenza Trump. Le conseguenze di scelte amministrative imprudenti e spesso motivati da interessi personali possono durare a lungo, incidendo sul funzionamento democratico e sulle dinamiche internazionali. Tuttavia, la possibilità di un cambiamento esiste, e il futuro dipenderà dalla capacità di correggere e riformare le strutture compromesse. Nel frattempo, la consapevolezza critica di questi eventi è fondamentale per non sottovalutare la profondità della crisi istituzionale e politica che ha attraversato gli Stati Uniti, offrendo un monito per la difesa della trasparenza, della responsabilità e dell’etica nella gestione pubblica.
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