I notiziari cinematografici hanno giocato un ruolo fondamentale nel plasmare la percezione pubblica della realtà, specialmente durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, quando il loro impatto sulla società e sul giornalismo era innegabile. La peculiarità di questo tipo di media risiede nel fatto che pur essendo considerato un mezzo di informazione “oggettivo”, il notiziario cinematografico era, in realtà, intrinsecamente influenzato da una serie di manipolazioni narrative e morali imposte dai commenti che accompagnavano le immagini. Questi commenti, come delle "didascalie" barthesiane, erano utilizzati per conferire un significato alle immagini in movimento, andando ben oltre la semplice spiegazione visiva. Nella maggior parte dei casi, queste narrazioni non venivano alterate dalle immagini stesse, ma agivano come un filtro che conferiva loro una valenza ideologica e culturale, modificando così il significato e l'impatto delle immagini.

Un esempio emblematico di questa manipolazione si trova nella falsa operazione di bandiera che ebbe luogo la notte del 31 agosto 1939, quando i nazisti, travestiti da soldati polacchi, attaccarono e distrussero una stazione radio tedesca a Gleiwitz, in Polonia. Questo atto fu presentato nei notiziari come un'aggressione polacca, un atto di "terrore polacco", costruendo un pretesto per giustificare l'invasione della Polonia. La narrazione delle atrocità contro i tedeschi che vivevano in Polonia era una delle principali linee narrative portate avanti dalla propaganda nazista. Il fatto che la distruzione della stazione radio fosse un inganno era irrilevante; l'importante era la narrazione che ne seguiva, che fu trasmessa senza modifiche sostanziali alle immagini, ma con un commento che rinforzava la versione ufficiale del regime.

In modo simile, le immagini della ritirata dell'Armata Britannica da Dunkerque durante la Seconda Guerra Mondiale furono presentate sotto una luce completamente diversa rispetto alla realtà. Nonostante la ritirata fosse in gran parte un fallimento strategico, la narrazione ufficiale costruita dai notiziari britannici la presentava come un "epico" atto di coraggio e resistenza. I notiziari non alteravano direttamente le immagini, ma il commento narrativo "riempiva" gli spazi lasciati dalle immagini stesse, facendo sembrare l'operazione più una vittoria morale che una ritirata disastrosa.

Questi esempi illustrano come il notiziario cinematografico fosse utilizzato come strumento di manipolazione emotiva e ideologica, non tanto attraverso la falsificazione visiva, ma mediante l'interpretazione narrativa. Con il passare del tempo, la funzione dei notiziari fu progressivamente sostituita dal telegiornale, che divenne il principale mezzo di informazione visiva. Tuttavia, anche in questo contesto, la necessità di fornire una narrazione coerente e comprensibile delle immagini ha continuato a essere una parte cruciale del giornalismo visivo.

L’evoluzione tecnologica, con l'introduzione della telegrafia elettrica e la creazione di agenzie di stampa, ha accelerato il flusso di notizie, ma allo stesso tempo ha aumentato il rischio di errori e distorsioni. La crescente velocità con cui le notizie venivano raccolte e diffuse ha reso i giornalisti più vulnerabili alla pressione del “deadline”, il che spesso portava a una minore attenzione alla verifica delle informazioni. Nonostante l’accesso a una maggiore quantità di dati, l'efficacia del giornalismo nel fornire una rappresentazione accurata della realtà è stata compromessa dalla necessità di competere per l'immediatezza e l'attrattiva.

In definitiva, il passaggio dai notiziari cinematografici ai telegiornali ha segnato una nuova era per i media visivi, ma ha anche reso evidente che l'informazione, seppur arricchita da nuove tecnologie, non è mai stata immune dalla manipolazione ideologica e dalla pressione commerciale. La velocità e l'efficienza nella trasmissione delle notizie sono fondamentali, ma il rischio di semplificare o distorcere la realtà per adattarla alle esigenze narrative è sempre in agguato.

L'effetto Werther e l'influenza dei media sulle emozioni e comportamenti sociali

Un'importante ricerca condotta a Vienna alla fine degli anni '80 ha fornito prove significative a sostegno dell'ipotesi dell'Effetto Werther, secondo la quale la copertura mediatica di determinati eventi tragici può alimentare comportamenti imitativi, come suicidi o altri atti estremi. In seguito a questa scoperta, i giornalisti locali, sotto la pressione psicologica degli esperti, ridussero la copertura di eventi simili, e il monitoraggio successivo delle notizie mostrò una riduzione significativa degli incidenti. Questo studio ha messo in evidenza il ruolo della mediazione mediatica nell'accrescere la vulnerabilità psicologica delle persone già colpite da eventi traumatici, suggerendo che un'appropriata limitazione della copertura possa contribuire a prevenire danni psicologici gravi.

Altre ricerche che esaminano la relazione tra disturbi post-traumatici da stress (PTSD) e la diffusione di notizie riguardanti atrocità o disastri naturali, in particolare attraverso la televisione, non sono state altrettanto convincenti. I risultati, in generale, non hanno sorpreso. Chi è stato direttamente coinvolto in un evento traumatico, come perdere una persona cara o partecipare agli sforzi di soccorso durante eventi catastrofici (ad esempio, l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre), è più propenso a sviluppare sintomi di PTSD. Tuttavia, l’idea che la visione di tali eventi possa causare PTSD in chi non è direttamente coinvolto è stata confutata. In uno studio condotto tra studenti israeliani dopo attacchi terroristici, si sono riscontrati segni di ansia clinica, ma non è chiaro se tali sintomi siano legati esclusivamente alle immagini trasmesse dai media o piuttosto alla paura e alle tensioni politiche legate alla possibilità di essere arruolati o colpiti da un conflitto.

La ricerca condotta negli Stati Uniti dopo l'uragano Sandy nel 2013 ha rivelato che il quarto dei mille intervistati che aveva utilizzato i social media oltre alla televisione per seguire le notizie sull’uragano riportava un livello più alto di disagio psicologico. Sebbene alcuni ricercatori attribuissero l’aumento dell’impatto psicologico all'uso dei social media, è plausibile che coloro che cercavano informazioni sui nuovi mezzi fossero, di per sé, più ansiosi riguardo al fenomeno atmosferico. In questo caso, potrebbe essere il profilo psicologico delle persone, più che l'effettivo effetto dei media, a spiegare il risultato.

L'ipotesi della "susceptibilità" suggerisce che i disturbi psicologici evidenziati in risposta ai media sono più una manifestazione di vulnerabilità preesistente che di un'influenza diretta dei media stessi. Più in generale, la relazione tra i media e i comportamenti psicologici socialmente devianti o patologici appare legata alla predisposizione individuale piuttosto che alla forza persuasiva dei contenuti mediali. Nonostante ciò, la questione della regolamentazione dei media in relazione a danni misurabili, come i suicidi, è aperta al dibattito. Sarebbe forse giustificata una limitazione dell'informazione sulla morte e i metodi suicidari, considerando l'effetto emulativo di notizie troppo dettagliate.

Un altro esempio interessante che si allinea con l'Effetto Werther riguarda la campagna anti-vaccinazione MMR, che ha trovato terreno fertile nei media nei primi anni di questo secolo e continua a propagarsi attraverso siti web di disinformazione. La mancata adesione alla vaccinazione MMR ha portato ad un aumento dei casi di morbillo, malattia che, fino a pochi anni fa, era quasi completamente eradicata in alcune zone del mondo. La disinformazione mediatica ha dunque avuto un effetto diretto sulla salute pubblica, contribuendo a creare una percezione errata tra i genitori più suscettibili e aumentando la paura nei confronti di un trattamento preventivo. Sebbene i fattori socio-politici, come conflitti e difficoltà nell'accesso alle vaccinazioni, abbiano contribuito ad aggravare la situazione in alcune regioni, l'effetto della disinformazione in Occidente è innegabile.

Tuttavia, come dimostrano questi esempi, non è sempre facile tracciare una linea diretta di causa ed effetto tra i media e il comportamento sociale. La maggior parte dei consumatori di notizie non mostra un cambiamento comportamentale significativo a meno che non ci sia una vulnerabilità preesistente. È anche evidente che i messaggi pubblicitari, seppur potenti nell'influenzare scelte di consumo quotidiane, non sempre portano a modifiche comportamentali sociali di grande portata. La pubblicità, seppur universale e massiccia, raramente produce cambiamenti profondi nel comportamento, a meno che non venga accompagnata da politiche o normative che ne rafforzino l'effetto.

Ciò che resta chiaro è che, sebbene i media possiedano un indubbio potere, la loro influenza non è mai universale e spesso dipende da una serie di fattori, tra cui la predisposizione del pubblico, le sue paure e preoccupazioni esistenti, e il contesto sociale e culturale in cui vive. In un mondo dominato dalle tecnologie, ci lasciamo spesso sedurre dall'idea di un'influenza più potente e diretta dei media, ma è essenziale non perdere di vista che il comportamento umano è complesso e, nella maggior parte dei casi, determinato da una molteplicità di fattori ben oltre la semplice esposizione a contenuti mediali.

Come il Giornalismo è Passato da Soggettivo a Obiettivo e Perché Questo Cambiamento è Importante

Nel corso della storia del giornalismo americano, c’è stato un lungo periodo in cui le notizie erano chiaramente partigiane e, per semplificare, funzionavano bene comunque. Questo tipo di stampa ha guadagnato un posto centrale nel mito fondativo della repubblica americana, che ancora oggi influisce sulle alte pretese rivolte al giornalismo. Non è un caso che da Tom Paine a John Carey, l’idea che “il giornalismo è un altro nome per la democrazia” sia ancora in circolazione. Tuttavia, per buona parte del periodo in questione, l’oggettività non era solo irrilevante, ma inesistente.

Negli Stati Uniti, come ha osservato Robert McChesney, nei primi decenni della repubblica l’idea che la stampa dovesse essere imparziale sarebbe stata ritenuta assurda, perfino impensabile. Il giornalismo aveva lo scopo di persuadere tanto quanto informare, e i giornali tendevano ad essere fortemente partigiani. Gerald Baldasty, parlando della stampa dell'era Jacksoniana, descrive come i giornali di quel periodo, apertamente ideologici e politicamente schierati, non avessero paura di adottare posizioni politiche chiare. In quegli anni, il non esprimere un’opinione chiara era visto come segno di debolezza, come se l’editore non avesse coraggio o non avesse idee proprie. Il giornale che non si dichiarava apertamente partigiano non era considerato “imparziale”, ma privo di carattere.

Il concetto di oggettività, che inizia a comparire nel linguaggio giornalistico nel 1803, non viene immediatamente applicato alla stampa. Tuttavia, negli anni '30 dell’Ottocento, la vendita dell’oggettività comincia ad essere una mossa commerciale astuta per i giornalisti, che la utilizzano per conquistare una crescente base di lettori. Dan Schiller sottolinea che l’oggettività veniva presentata come un ideale democratico, un tentativo di garantire che le informazioni fossero accessibili a tutti, non solo a re, baroni o presidenti, ma al popolo stesso. Ma, come Schiller stesso fa notare, questa visione era una menzogna. I giornali di quel periodo, pur essendo considerati “neutrali” a causa della loro attenzione verso argomenti di interesse umano piuttosto che sulle attualità politiche, erano tutt’altro che imparziali. La neutralità, che si diceva fosse il loro punto di forza, era in realtà una facciata che copriva pratiche editoriali di parte.

Nel corso del tempo, l’idea di oggettività è diventata sempre più prevalente, fino a diventare un principio dominante nella giornalistica anglofona, soprattutto durante la Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in poi, il giornalismo “buono” è stato associato all’oggettività. Tuttavia, le voci isolate come quella di Tuchman e più tardi del “New Journalism” hanno messo in dubbio questa visione. Il “New Journalism” ha sfidato l’idea che l’oggettività fosse l’unico modo valido di fare giornalismo, sostenendo invece che un racconto soggettivo fosse più onesto, rivelando in modo più chiaro le dinamiche dietro la notizia, non solo ciò che stava accadendo.

Il giornalismo moderno, dunque, ha subìto un’evoluzione complessa. Se inizialmente la parzialità era la norma, oggi si tende a favorire l’oggettività, ma questo cambiamento non è stato neutrale. In effetti, l’oggettività stessa ha finito per diventare un altro tipo di pregiudizio, un filtro che può nascondere le reali dinamiche di potere dietro la notizia. Anche i media contemporanei che si dichiarano “imparziali” spesso mascherano le loro inclinazioni politiche dietro un’apparente neutralità, come nel caso di Fox News, che ha addirittura registrato il marchio “fair and balanced” pur mantenendo una forte inclinazione conservatrice.

Questo scenario invita a riflettere sul valore dell’oggettività come ideologia giornalistica. È una costruzione che ha avuto senso in un’epoca caratterizzata dalla crescente industrializzazione e urbanizzazione, quando il pubblico cominciava a percepire la stampa come un mezzo per informare la società in modo razionale e imparziale. Tuttavia, con il tempo, la necessità di una visione “oggettiva” della realtà è stata messa in discussione, soprattutto con l’avvento della postmodernità, che ha posto dubbi sulla possibilità di accedere alla realtà in modo puramente oggettivo.

Il ritorno a un giornalismo più partigiano e soggettivo non implica un ritorno al giornalismo del passato, ma una maggiore consapevolezza della natura politica di ogni narrazione. Il giornalismo non è mai stato davvero neutrale, e ignorare questa realtà oggi è un errore. In definitiva, è fondamentale che il giornalismo riprenda la tradizione della trasparenza e dell’onestà intellettuale, dichiarando apertamente le proprie inclinazioni politiche e ideologiche. Questo non significa tornare a un giornalismo di parte, ma piuttosto fare spazio a un dibattito pubblico più vivo, in cui le varie voci possano competere senza nascondersi dietro una pretesa di neutralità che troppo spesso è solo un velo di ipocrisia.