Il 6 gennaio 2021, l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti segnò un punto di non ritorno nella politica americana. La risposta fu immediata ma disordinata, con una serie di eventi concatenati che mostrarono la fragilità delle istituzioni nel momento in cui furono messe alla prova. Dopo ore di silenzio, Donald Trump rilasciò un video in cui, pur invitando i manifestanti a tornare a casa “con amore e in pace”, giustificò implicitamente le loro azioni, attribuendole a un’elezione "sacra" rubata con brutalità. Queste parole non furono un tentativo di placare, ma piuttosto un’ulteriore legittimazione del sentimento che aveva condotto all’insurrezione.

Le reazioni all'interno del Congresso furono eterogenee ma significative. La senatrice Kelly Loeffler, che inizialmente intendeva opporsi alla certificazione dei voti elettorali, ritrattò pubblicamente la sua posizione affermando di non poter più "in coscienza" opporsi. La stessa linea fu seguita da altri senatori repubblicani, che fino a quel momento avevano alimentato dubbi sulla legittimità dell’elezione di Joe Biden. Alcuni, come Lindsey Graham, dichiararono che il viaggio condiviso con

La Percezione della Minaccia: Come l'Incertezza Globale Cambia il Gioco Strategico

La paura può essere la più grande alleata di un nemico. In un contesto di incertezze geopolitiche globali, l’esperienza di Mark Milley, un veterano dei conflitti militari e presidente del Comitato di Stato Maggiore, diventa emblematicamente cruciale. Milley, un uomo di esperienza decennale, non si era mai sentito completamente sicuro di quale potesse essere il prossimo passo della Cina. Tuttavia, la sua lunga carriera nell’esercito, caratterizzata da numerosi e sanguinosi tour di combattimento, gli aveva insegnato una verità fondamentale: un avversario è più pericoloso quando teme di essere attaccato e agisce con la convinzione che la propria sopravvivenza sia in gioco.

Nel caso della Cina, una delle potenze in ascesa, tale paura era un motore potentissimo, capace di scatenare l'azione militare. Milley riconosceva che, se la Cina avesse deciso di agire, potrebbe aver scelto di sfruttare un "vantaggio del primo colpo" o un attacco simile a quello di Pearl Harbor. Un attacco improvviso, devastante, mirato a colpire con un impatto che alterasse rapidamente l'equilibrio globale. Le forze armate cinesi, in effetti, stavano investendo ingenti risorse per espandere le proprie capacità militari, arrivando a uno status che si avvicinava sempre più alla superpotenza. La prova tangibile di questo impegno si è manifestata in un impressionante spettacolo di potenza a Pechino, dove il presidente Xi Jinping aveva dichiarato senza mezzi termini che “nessuna forza può fermare il popolo cinese e la nazione cinese nel loro cammino avanti”.

Nel contesto della guerra fredda 2.0, con un’attenzione particolare al potenziale nucleare e alle tecnologie emergenti, la Cina aveva presentato un nuovo e temibile strumento: un missile ipersonico capace di viaggiare a cinque volte la velocità del suono. Questo tipo di avanzamento tecnologico non era solo una vetrina di potere, ma anche una dichiarazione di intenti, pronta a destabilizzare l'ordine mondiale. A ciò si aggiungeva la crescente aggressività nelle manovre militari e il posizionamento di basi in zone contese come il Mar Cinese Meridionale e la vicina Taiwan. Un semplice errore in queste aree avrebbe potuto scatenare conflitti su scala globale, con la sicurezza internazionale in bilico.

Nel frattempo, gli Stati Uniti, sotto la direzione di Milley, stavano attivamente monitorando la situazione. Milley, consapevole che la guerra non è solo una questione di potenza militare ma anche di psicologia strategica, sapeva che anche le mosse più innocenti potevano sembrare provocatorie agli occhi della Cina, e viceversa. Le esercitazioni navali degli Stati Uniti intorno a Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale erano rischiose, e il rischio di incidenti non era mai stato così alto. Quando il comportamento aggressivo delle navi cinesi iniziava a spingere sempre più vicino i limiti della tolleranza internazionale, Milley temeva che una semplice mossa errata potesse innescare una catena di reazioni che avrebbe potuto portare a una guerra su larga scala.

La dinamica era simile a quella vissuta negli anni '80, quando il blocco sovietico aveva interpretato una serie di esercitazioni della NATO come una preparazione per un attacco nucleare preventivo. L’operazione ABLE ARCHER, in quel caso, aveva messo il mondo sull'orlo della guerra. Milley, vivendo una situazione simile, era estremamente preoccupato. Non solo per la Cina, ma per un ambiente geopolitico che si stava rapidamente saturando di tensione. L'11 settembre e la tempesta del 6 gennaio negli Stati Uniti avevano avuto effetti profondi anche sulla percezione globale delle forze politiche americane. La reazione della Cina era prevedibile, ma altre nazioni come la Russia e l'Iran stavano anch'esse monitorando attentamente gli eventi, pronti a reagire di conseguenza.

La Cina non era l'unica preoccupazione per Milley. Con il panorama di minacce che si estendeva su più fronti, dagli attacchi informatici ai lanci di missili, e la crescente tensione nelle acque internazionali, la situazione era diventata insostenibile. Milley, tuttavia, non agiva da solo. Aveva mobilitato tutte le risorse necessarie, monitorando costantemente l'attività spaziale, le operazioni cibernetiche, i movimenti navali e aerei, e le operazioni di intelligence. Il suo compito era quello di garantire la stabilità e la sicurezza, nonostante la crescente incognita rappresentata dalla politica interna degli Stati Uniti.

Il 6 gennaio aveva rappresentato qualcosa di molto più grave di una semplice sommossa. Milley non esitava a definire l’attacco come un tentativo di golpe, con implicazioni ben più profonde. Le sue paure, infatti, non erano infondate. L’assalto al Campidoglio non era solo un'azione violenta, ma potenzialmente l'inizio di qualcosa di più grande, un tentativo sistematico di minare l'ordine costituzionale. Milley era determinato a garantire che la transizione di potere, che stava avvenendo in un momento di incertezze politiche interne e tensioni globali, fosse gestita con la massima sicurezza possibile.

A questo punto, però, la sicurezza nazionale degli Stati Uniti stava vivendo una nuova fase di estrema vigilanza. La mobilitazione della macchina della sicurezza senza che il mondo o il popolo americano ne fossero al corrente era il segno di una nazione che stava vivendo una crisi senza precedenti. Ma questa crisi, sebbene non apertamente visibile, era la chiave per comprendere come il conflitto tra superpotenze potrebbe sfociare in un conflitto globale. Non si trattava più solo di esercizi di forza, ma di una vera e propria partita di equilibri, in cui anche il più piccolo errore poteva segnare l’inizio di una guerra totale.

Per il lettore, è fondamentale capire che le relazioni internazionali non si limitano solo a dichiarazioni di intenti o manifestazioni di potere visibile. La vera battaglia si gioca dietro le quinte, nel gioco invisibile della psicologia, delle percezioni e delle informazioni. Le azioni apparentemente innocue possono avere ripercussioni enormi, e la capacità di anticipare le mosse di un avversario è tanto importante quanto quella di possedere una forza militare superiore.