La città è un luogo vivo, un organismo che pulsa con una luce incessante e una vitalità che non conosce tregua. Le sue luci brillano intensamente, illuminando le strade come stelle artificiali che rifiutano l’oscurità. Ogni angolo, ogni finestra, ogni scaffale racconta una storia che si accumula più di quanto una biblioteca possa contenere o un cantastorie possa narrare. Il canto dei musicisti sui marciapiedi si mescola al rumore incessante delle auto e al vociare delle lingue di tutto il mondo. Non c’è mai un momento di solitudine o di silenzio assoluto, perché la città vive perennemente sotto un cielo illuminato da lampioni, insegne e vetrine scintillanti.
Gli edifici, alti e maestosi, sembrano quasi animati: i grattacieli si ergono con orgoglio verso il cielo, ma si può immaginare che a volte provino la stanchezza di sostenere il proprio peso, o la solitudine di dominare dall’alto un mondo in continuo movimento. Queste costruzioni non sono solo strutture di cemento e vetro, ma simboli di una vita urbana che non si ferma mai, di una società che si muove e cambia ininterrottamente.
Il viaggio nella città si fa su treni e metropolitane, che rimbombano nelle viscere della terra come tuoni lontani, portando i pendolari nel cuore dell’attività notturna o verso l’alba di una nuova giornata. Il ritmo dei treni è una musica fatta di clic, clac, e rumori metallici, una sinfonia che accompagna la città nelle sue ore più tarde. Il loro passaggio è quasi onirico, come in un sogno in cui si viaggia senza meta, attraversando la notte fino al sorgere del sole, per poi tornare a casa ancora immersi in una luce incerta, tra sogno e realtà.
Il contrasto con la campagna è netto: lì il cielo notturno si apre alle stelle, alla tranquillità e al silenzio che la città non può offrire. Tuttavia, chi vive in città sente un legame profondo con le sue costruzioni, con il rumore delle macchine, con le mille luci che brillano incessantemente. Anche quando si allontana, il cuore ritorna sempre a quel panorama di luci, a quel tessuto vibrante di suoni e movimenti che è la vera anima del vivere urbano.
Oltre all’aspetto materiale, è fondamentale percepire come la città rappresenti un crocevia di culture e storie, dove ogni lingua si intreccia con l’altra, creando un mosaico complesso e affascinante. La convivenza di tante identità in uno spazio ristretto dà vita a un tessuto sociale che non si ferma mai, dove il movimento e l’interazione umana sono continui, quasi rituali. Questa energia notturna, questo ritmo incessante, sono ciò che distingue la città dagli spazi rurali, e definiscono la sua identità.
Comprendere la città significa anche riconoscere che il suo incessante movimento è alimentato da esigenze, sogni, passioni e necessità di chi la abita. Dietro ogni luce accesa, ogni finestra illuminata, si nasconde una storia personale, un vissuto che contribuisce a rendere la città un organismo collettivo, pulsante e ricco di vita. La città non è solo un luogo fisico, ma un’entità fatta di esperienze umane, un teatro dove si recita ogni notte la continua rappresentazione della vita contemporanea.
È importante notare come questa dinamicità urbana sia anche fonte di contrasti: tra il bisogno di quiete e la realtà di un ambiente sempre attivo, tra il desiderio di isolamento e la realtà di una costante socialità, tra il fascino della modernità e il richiamo della natura. Per chi osserva la città, è fondamentale saper riconoscere questi equilibri e tensioni, poiché sono proprio essi a dare forma e profondità al tessuto urbano.
Che cosa rende speciale l'infanzia?
L'infanzia è quel tempo sospeso, fatto di percezioni che sfuggono alla logica adulta. Nella poesia “My Shadow” di Robert Louis Stevenson, l’ombra diventa un doppio misterioso, un compagno inseparabile, ma incomprensibile. Cresce a scatti, scompare quando più la si cerca, imita senza comprendere. È un’idea poetica che riflette l’identità in formazione, quella tensione tra il sé e il riflesso di sé che affascina il bambino ma anche lo spaventa. La realtà non è ancora vincolata dalle leggi fisiche o morali, ma si muove secondo una logica onirica e capricciosa.
Il tono cambia nella poesia “A Circle of Sun” di Rebecca Kai Dotlich, dove l’io lirico danza con gioia nel mondo. L’infanzia è movimento, colore, voce, carne viva. La percezione dell’identità si espande: “sono i molti colori della Terra, sono il mattino e la notte.” Il corpo del bambino è un’estensione della natura, e la natura è uno specchio della sua energia vitale. Il bambino è sia soggetto che mondo, sia gesto che luce.
Douglas Florian, in “What I Love About Summer”, offre un inventario lirico della stagione, ma non è solo un elenco di cose: ogni immagine, dal gelato alle passeggiate nella natura, è una porta sensoriale. Il bambino si costruisce attraverso ciò che tocca, mangia, osserva, annusa. L’estate non è solo un tempo, è un'esperienza di identità. Il contatto con la natura è parte del crescere, e la poesia diventa una mappa emozionale del mondo.
Nel gioco linguistico di Kenn Nesbitt (“Speak When This Way Talk Do I”), il linguaggio si ribalta. L’inversione sintattica trasforma la lingua in gioco, e il gioco in forma di pensiero. Parlare “al contrario” non è solo un divertimento: è un’esplorazione del codice, un mettere alla prova le regole per sentirle proprie. Il bambino diventa autore delle sue parole, anche se faticano a essere comprese. L’identità si afferma nel disordine controllato.
Kate Coombs, con “The House of This Minute”, introduce un tempo altro: l’eterno presente dell’infanzia. Ogni minuto è pieno, assoluto, concreto. Non esiste il “dopo” né il “prima”; il gioco, la corsa, la pioggia, il sole — tutto è “adesso”. Vivere nel presente non è un atto filosofico, è la condizione originaria del bambino. Il tempo dell’adulto, cronologico e frammentato, è assente. Esiste solo la presenza integrale all’istante.
Jack Prelutsky ribalta questa energia nel paradosso: “I’m Much Too Tired to Play Tonight”. La stanchezza del bambino è tanto intensa da cancellare ogni desiderio… tranne quello di evitare il letto. È una dichiarazione d’identità travestita da lamento. La stanchezza è esagerata, teatrale. Ma il rifiuto del sonno è un atto d’indipendenza. Il sonno è imposto, ma il bambino rivendica la sua voce fino all’ultimo minuto.
Tony Langham, con “I Can...”, elenca abilità conquistate. Ogni frase è una dichiarazione di potere. Contare, leggere, nuotare, usare il computer, annodare le scarpe. Sono gesti semplici, ma simbolici: costruiscono l’autonomia. Il bambino si definisce non per ciò che sente, ma per ciò che è capace di fare. L’identità è una somma di conquiste, e ogni conquista è uno scalino verso l’autodefinizione.
In “Nobody’s Birthday” di Marilyn Singer e “unBIRTHDAY” di Vikram Madan, l’infanzia diventa festa continua. Si celebra il nulla, l’ordinario, l’inesistente. Il compleanno perde il suo valore di evento unico per diventare un’occasione quotidiana di gioia. Il mondo è degno di festa per il solo fatto di esistere. Questo spirito sovverte la logica adulta della ricorrenza e della pianificazione. Il bambino crea significato dove non c’è, e questo atto di creazione è la forma più pura di poesia.
L’elemento comune che attraversa tutte queste poesie è il modo in cui l’infanzia percepisce il mondo come specchio della propria interiorità. Le leggi fisiche, il linguaggio, il tempo e le relazioni si piegano a una logica emotiva. Ogni poesia è un atto di autodefinizione attraverso il gioco, il corpo, la natura, il linguaggio. L’io del bambino è liquido, in formazione, ma non meno potente. Anzi, è proprio nella sua mutevolezza che si nasconde la forza creativa dell’identità.
Oltre alla lettura immediata dei versi, è essenziale comprendere che questi testi non parlano solo dell’infanzia, ma parlano come l’infanzia. Il linguaggio è semplice solo in apparenza: è invece carico di significati simbolici e di tensioni identitarie. Il bambino non è mai passivo. È soggetto esploratore, inventore di realtà, manipolatore del tempo e dello spazio. Queste poesie sono finestre su una mente che costruisce il mondo giocando con esso.

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