L'ascesa del "Trumpismo" e le sue implicazioni geopolitiche pongono una sfida significativa per l'Unione Europea, che si trova di fronte alla necessità di rivedere profondamente la propria strategia estera e economica. Nonostante la possibilità di un rinnovamento della politica estera degli Stati Uniti sotto una nuova presidenza, il fenomeno populista che ha preso piede in America sembra destinato a durare a lungo, influenzando la politica globale anche dopo la fine dell'era Trump. Le strutture sociali ed economiche prodotte dal Trumpismo non scompariranno facilmente, creando un contesto difficile per l'Europa, soprattutto in caso di ulteriori conflitti transatlantici che potrebbero spingere l'UE verso l'Asia, con un'attenzione particolare verso l'ASEAN e la Cina.

In questo scenario, l'ASEAN, un blocco di oltre 600 milioni di abitanti, in cui l'Europa è un leader negli investimenti esteri, rischia di diventare un terreno di scontro tra potenze economiche. A causa delle politiche protezionistiche degli Stati Uniti, la Cina è destinata a intensificare la propria influenza sui paesi membri dell'ASEAN, utilizzando queste nazioni come base per esportare prodotti verso gli Stati Uniti e aggirare le misure protezionistiche. In questo modo, pur riducendo il surplus commerciale della Cina con gli USA, il problema principale degli Stati Uniti nei confronti della Cina non scomparirà. L’unico effetto tangibile sarà la perdita di potere e influenza degli Stati Uniti sui paesi ASEAN.

Questa evoluzione porterà a una crescente pressione sugli Stati membri dell'Unione Europea, che dovranno ridefinire le proprie priorità economiche e politiche. A fronte di questa situazione, l’Europa dovrebbe perseguire tre strade principali per contrastare l’ascesa del populismo globale. La prima è la riforma interna, che potrebbe rafforzare la coesione dell'UE e permettere una difesa più solida dei suoi valori democratici e del mercato sociale. La seconda è una competizione transatlantica tra modelli di governance, con l'UE che potrebbe cercare di esportare il modello di economia sociale di mercato come alternativa al populismo crescente. La terza possibilità è quella di formare alleanze globali per la difesa del multilateralismo, un obiettivo che tuttavia presenta sfide significative, soprattutto considerando che la Cina, il maggiore partner economico mondiale, non ha ancora saputo proporre un modello di multilateralismo solido.

L’Europa, in particolare la Germania, che ha una storia complessa legata al nazionalismo e al populismo, si trova a dover fronteggiare una crescente minaccia interna sotto forma del partito Alternative für Deutschland (AfD). Se la Germania dovesse indebolirsi a causa di queste forze populiste, l'Unione Europea rischierebbe di perdere uno dei suoi pilastri principali. In questo contesto, diventa cruciale monitorare le dinamiche interne, specialmente quelle legate alle grandi aziende multinazionali che, pur sostenendo la globalizzazione in pubblico, potrebbero decidere di adattarsi a politiche nazionaliste se le circostanze lo richiedessero.

Il rinnovamento della politica globale, che segna la fine dell’egemonia unipolare americana, sta conducendo a una trasformazione economica e politica senza precedenti. Gli Stati Uniti si trovano in una fase di contraddizione interna, con il populismo che continua a minacciare le basi della democrazia liberale. L’Europa deve prepararsi a fronteggiare non solo le sfide interne derivanti dal populismo, ma anche quelle esterne, in particolare quelle legate alle potenze emergenti come la Cina, che cerca di rimodellare l’ordine mondiale. La capacità dell’Unione Europea di adattarsi a questo nuovo contesto dipenderà dalla sua abilità nel rafforzare la cooperazione con l’Asia, nel promuovere il suo modello di mercato sociale e nel difendere l'ordine internazionale multilaterale. La sfida che l’UE deve affrontare non è solo quella di evitare un ritorno al nazionalismo ottocentesco, ma anche quella di trovare nuovi modi per affermare la propria influenza in un mondo sempre più multipolare e turbolento.

Populismo, povertà e cambiamenti politici: la transizione globale nel contesto delle amministrazioni presidenziali degli Stati Uniti

La povertà universale e l'intolleranza religiosa sono stati fenomeni che hanno segnato in modo indelebile la storia di molte nazioni europee, in particolare durante i secoli XIX e XX. La descrizione di un paesaggio in cui la miseria dilaga, in cui la società sembra completamente priva di una classe media e dove l'economia appare stagnante, non è semplicemente un'istantanea della realtà di allora, ma un riflesso di come la povertà e l'emarginazione abbiano spinto interi popoli verso l'emigrazione, alla ricerca di una vita migliore. Questo è stato un fattore determinante nel fenomeno delle migrazioni verso gli Stati Uniti, che ha avuto un impatto straordinario sull'economia e sulla politica globale. L'osservazione di come la società di Colonia fosse suddivisa, in cui la povertà regnava sovrana e la popolazione protestante era oppressa dalle autorità cattoliche, segna uno degli episodi cruciali di quel periodo.

In questo contesto, emerge la figura di Andrew Jackson, settimo presidente degli Stati Uniti, che si inserisce in un più ampio fenomeno di populismo che avrà un impatto duraturo sulla politica americana. Jackson, emerso da un contesto lontano dalle élite politiche della costa est, si fece portavoce delle istanze delle classi più povere, trasformando la politica degli Stati Uniti in un movimento che avrebbe sfidato le strutture tradizionali del potere. Il populismo, che si presenta come un movimento che promuove i diritti e le necessità delle classi popolari contro l'élite, ha avuto in Jackson una figura che ha saputo unire la protesta popolare con l'esercizio del potere istituzionale.

Nell'analizzare i cambiamenti politici più recenti, in particolare con l'arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, è evidente come questo tipo di approccio populista abbia mutato le dinamiche interne degli Stati Uniti, sia in termini di politica interna che di relazioni internazionali. L'instabilità politica, caratterizzata dai frequenti cambiamenti nel personale di governo e da un approccio autoritario, ha segnato una rottura con il passato. Trump, infatti, ha messo in luce come l'incapacità di scegliere il personale giusto o la sottovalutazione delle conseguenze derivanti da frequenti cambiamenti possa minare la credibilità delle istituzioni governative.

L'atteggiamento di Trump nei confronti delle politiche economiche, e in particolare l'adozione di tariffe sull'acciaio e sull'alluminio, ha sollevato molte perplessità, non solo in ambito economico ma anche in termini di coerenza politica. La decisione di applicare dazi per motivi di sicurezza nazionale, purtroppo, non è stata supportata da una logica economica solida. Questo tipo di approccio, centrato su un’analisi parziale dell’equilibrio economico, ha mostrato chiaramente come le politiche protezionistiche possano non solo essere inefficaci, ma anche dannose a lungo termine.

Inoltre, la crescita del populismo negli Stati Uniti ha segnato una trasformazione anche nelle dinamiche elettorali, dove il focus sui cosiddetti “dimenticati” della società, i lavoratori e i ceti più poveri, ha permesso a Trump di conquistare una parte significativa dell'elettorato. Tuttavia, le elezioni di metà mandato del 2018 hanno fatto emergere segnali che suggeriscono una crescente sfiducia nei confronti di un'agenda politica troppo rischiosa e polarizzante. La polarizzazione politica, accentuata dalla diffusione di fake news e disinformazione, ha contribuito a rafforzare le posizioni più estreme, rendendo il panorama politico più incerto e fragile che mai.

Infine, la crisi finanziaria globale del 2008, seguita dagli eventi dell'11 settembre, ha avuto un impatto devastante sulla fiducia nelle élite politiche ed economiche. La domanda della Regina Elisabetta riguardo al perché nessuno avesse previsto la crisi finanziaria è emblematica del profondo scetticismo che si è diffuso tra la gente comune, un sentimento che ha trovato terreno fertile nei discorsi dei leader populisti. Questo fenomeno di sfiducia, che ha minato le fondamenta stesse del sistema economico globale, è stato un motore importante per l'ascesa di una politica più radicale e meno disposta a dialogare con le élite tradizionali.

Nel contesto odierno, caratterizzato dalla crescente interconnessione globale e dalla centralità degli Stati Uniti nel sistema economico internazionale, è fondamentale comprendere come le scelte politiche e le trasformazioni interne degli Stati Uniti possano avere ripercussioni a livello globale. La politica interna degli Stati Uniti, e in particolare l'adozione di politiche populiste e autoritarie, non solo influisce sull'economia americana ma può determinare equilibri politici internazionali che toccano paesi e regioni molto lontane da Washington.

Il populismo non è semplicemente un fenomeno politico nazionale: esso è un catalizzatore di cambiamenti globali, che agisce sia attraverso l'economia che attraverso la politica, modificando la percezione della democrazia, delle istituzioni internazionali e della governance mondiale. Il futuro delle relazioni internazionali potrebbe essere fortemente influenzato da come gli Stati Uniti decideranno di affrontare il populismo, sia internamente che nelle loro politiche estere.

Qual è l'effetto delle tariffe sulle economie con investimenti esteri diretti in uscita?

Nel contesto della globalizzazione moderna, le politiche commerciali, come l'imposizione di tariffe doganali, sono oggetto di dibattito tra economisti, soprattutto in paesi con elevati flussi di investimenti esteri diretti in uscita, come gli Stati Uniti. La teoria tradizionale suggerisce che un paese può migliorare il proprio benessere attraverso l’imposizione di tariffe sugli importi, riducendo l'importazione di beni esteri e incentivando la produzione domestica. Tuttavia, questa visione non è completamente adeguata se consideriamo la presenza di investimenti esteri diretti (IDE), che modificano profondamente le dinamiche economiche.

Quando un paese come gli Stati Uniti impone una tariffa, la teoria tradizionale suggerisce che si crea una differenza tra il prezzo lordo (a causa della tariffa) pagato dai consumatori nel paese importatore e il prezzo netto ottenuto dai fornitori esteri. Considerando una situazione in cui la produzione avviene esclusivamente all'estero, la curva di offerta si rappresenta come k′∗ (curva di costo marginale estero), mentre la domanda domestica è rappresentata dalla curva DD. In assenza di tariffe, il prezzo di libero scambio è p0, e il benessere del consumatore corrisponde all'area del triangolo AEp0. I profitti dei fornitori esteri sono pari all'area del triangolo BEp0. Se viene introdotta una tariffa, l'importazione si riduce da q0 a q1, e il benessere del consumatore si riduce all'area E′EG. I fornitori esteri perdono i profitti pari al triangolo GEF, mentre il governo incassa le entrate tariffarie pari all'area p′E′1Fp1.

Tuttavia, questa visione cambia quando si considera la presenza di investimenti esteri diretti in uscita. In un sistema globale interconnesso, le perdite di profitto per le imprese estere non vanno perse per il paese che impone la tariffa. Infatti, in alcuni casi, i profitti esteri di una multinazionale possono tornare come reddito per i cittadini del paese importatore. Ad esempio, se un'azienda statunitense ha investimenti diretti in Cina, parte dei profitti provenienti dalle sue filiali cinesi potrebbe essere destinata a risorse economiche negli Stati Uniti. Quindi, l'effetto di una tariffa su un paese con un forte flusso di IDE non è più semplice da analizzare attraverso la consueta teoria delle tariffe.

L'analisi estesa del conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina, considerando i flussi di investimenti esteri diretti, mostra che l'imposizione di una tariffa unilaterale da parte degli Stati Uniti potrebbe non produrre un guadagno netto di benessere. Infatti, se i profitti provenienti dall'estero sono destinati in parte agli Stati Uniti, una riduzione dei profitti per le filiali estere di aziende statunitensi potrebbe ridurre il benessere totale del paese. Pertanto, l'effetto di una tariffa non si limita più alla semplice somma di perdite per i consumatori e guadagni per il governo, ma si intreccia con i flussi internazionali di reddito e i profitti delle imprese multinazionali.

Un altro aspetto da considerare è il ruolo crescente degli intermediari nella catena di produzione globale. Molte delle importazioni di beni intermedi che un paese come gli Stati Uniti importa dalla Cina o da altri paesi sono fondamentali per la produzione domestica di beni finali. Le tariffe che colpiscono questi beni intermedi potrebbero avere effetti a catena sui settori che dipendono da questi input, riducendo l'efficienza produttiva e l'innovazione, a discapito del benessere generale.

Inoltre, in un sistema complesso di investimenti esteri diretti, i profitti delle filiali estere non sono semplicemente "perdite" per le imprese domestiche. Una parte di questi profitti può essere reinvestita nella ricerca e nello sviluppo, nella crescita delle imprese e nell'innovazione tecnologica. Pertanto, una politica tariffaria che limita questi flussi potrebbe danneggiare la competitività a lungo termine di un paese, andando oltre il vantaggio immediato derivante dalle entrate doganali.

Tutto ciò evidenzia come le politiche commerciali moderne, in particolare quelle legate alla protezione tariffaria, debbano essere analizzate in modo più sfumato, considerando non solo gli effetti immediati sul commercio e sulla produzione, ma anche gli impatti a lungo termine sugli investimenti, sull'innovazione e sulla competitività globale. La globalizzazione ha reso questi legami economici molto più complessi, e le politiche economiche tradizionali devono evolversi per riflettere questa nuova realtà interconnessa.