Nel 1720, la South Sea Company riuscì a ottenere un contratto con il governo britannico che le consentiva di scambiare il debito pubblico con azioni della propria compagnia. La proposta era allettante: la compagnia avrebbe pagato un interesse del 5% per i primi sette anni, per poi passare al 4% successivamente, e avrebbe anche offerto al governo un pagamento iniziale fino a 7,5 milioni di sterline, a seconda della quantità di debito che fosse stato convertito in azioni. La somma complessiva del debito da scambiare era di circa 30 milioni di sterline. Nonostante il valore annuale dell'interesse che la South Sea Company avrebbe ricevuto fosse di soli 1,5 milioni di sterline, la compagnia avrebbe potuto realizzare questo piano solo se le sue azioni fossero state scambiate a un prezzo superiore al valore nominale. E questo era precisamente ciò che John Blunt, il direttore della South Sea Company, aveva in mente.

Nel mese di aprile del 1720, ancor prima di scambiare azioni con debito, la South Sea Company iniziò a vendere azioni al pubblico, fissando un prezzo iniziale di 300 sterline per azione, con un anticipo del 20% e il saldo da pagare in rate. Il valore di mercato delle azioni, che inizialmente era di circa 170 sterline, cominciò a salire rapidamente. Quella che si verificò fu la cosiddetta "prima sottoscrizione monetaria", un evento che passò alla storia come il primo esempio di vendita diretta di azioni per liquidità, piuttosto che scambiare debito. La risposta del pubblico fu entusiastica, con tutte le azioni vendute in sole due ore, e il prezzo di mercato salì rapidamente oltre le 300 sterline.

Pochi giorni dopo, una seconda sottoscrizione ebbe luogo, sempre a 300 sterline per azione, e fu anch'essa esaurita. Tuttavia, la South Sea Company non avrebbe dovuto emettere azioni senza scambiarle immediatamente con debito, poiché ciò era il fondamento dell'accordo con il governo. Ma Blunt aveva trovato una via per aggirare questa restrizione: grazie a pagamenti in azioni della compagnia come tangenti, aveva ottenuto il sostegno di numerosi membri del Parlamento e burocrati governativi. Così, l'azienda riuscì a vendere azioni senza un adeguato corrispettivo di debito, alimentando un clima di euforia che spinse il prezzo delle azioni ancora più in alto.

Nel mese di giugno, le azioni raggiunsero un prezzo di 750 sterline, e Blunt decise di spingere ulteriormente l'operazione. Offrì un'altra serie di azioni a 1000 sterline per azione, con un anticipo ridotto al 10% e il saldo da pagare a distanza di un anno. Il prezzo delle azioni salì a 1050 sterline. Questo era il culmine di un mercato puramente speculativo: la South Sea Company non aveva altri introiti significativi se non gli interessi derivanti dal debito pubblico. La continua salita del prezzo delle azioni non era il risultato di un aumento della redditività dell'azienda, ma piuttosto di un'accurata manipolazione del mercato da parte di Blunt, che aveva incentivato l'acquisto delle azioni a credito.

Tuttavia, l'inflazione del mercato delle azioni non poteva durare a lungo. Blunt aveva alimentato il fuoco speculativo con vendite di azioni a credito e offrendo prestiti agli azionisti, che mettevano le proprie azioni come garanzia. Allo stesso tempo, la compagnia acquistava le proprie azioni sul mercato, finanziando queste operazioni tramite prestiti dalla Sword Blade Company. Questa pratica, alla fine, espose la South Sea Company a una crisi di liquidità che minacciava la sua sopravvivenza.

Nel contesto di questa bolla speculativa, il Parlamento britannico approvò una legge, nota come "Bubble Act", volta a fermare la proliferazione di compagnie azionarie speculative, che in quel periodo stavano invadendo il mercato. La legge chiudeva molte di queste nuove società, ma aveva l'effetto collaterale di aumentare la pressione sugli investitori, che dovettero vendere le azioni della South Sea Company per coprire le perdite derivanti da altre operazioni. Blunt, nel tentativo di sostenere il prezzo delle azioni, tentò nuove mosse disperate, come emettere ulteriori azioni a prezzi sopra il mercato e promettere dividendi altissimi. Tuttavia, ciò portò solo a un peggioramento della situazione.

Nel mese di settembre del 1720, il valore delle azioni della South Sea Company crollò, passando da 770 sterline a 370 sterline, e poi a soli 180 sterline. Milioni di sterline furono perduti, e le persone che avevano acquistato le azioni a credito si trovarono sommerse dai debiti. Il crollo causò indignazione pubblica, e il Parlamento avviò un'inchiesta. Molti degli investitori coinvolti, tra cui membri del Parlamento e funzionari governativi, avevano acquistato azioni a 1000 sterline, finanziandole con prestiti per acquist

Qual è stato l'impatto delle riparazioni sulla Germania e come ha contribuito all'iperinflazione?

Il prezzo effettivo delle riparazioni imposte alla Germania dopo la Prima Guerra Mondiale fu di circa 1,2 trilioni di marchi cartacei. Per mettere in prospettiva questa cifra, l'economista tedesco Carl-Ludwig Holtfrerich stima che il costo delle riparazioni avrebbe rappresentato tra l'11% e il 14% del prodotto interno lordo tedesco ogni anno, un fardello straordinario per qualsiasi economia. Sebbene la Germania non sia riuscita a rispettare appieno questo obbligo, sono stati fatti significativi pagamenti iniziali. Tuttavia, ci sono prove storiche che suggeriscono che il governo tedesco utilizzasse il peso delle riparazioni come scusa per continuare la sua politica di finanziamento inflazionistico interno. Con l'aumento dei prezzi, i cittadini tedeschi necessitavano di più denaro per acquistare beni e servizi di base, costringendo la banca centrale a stampare più moneta.

La realtà era che, mentre la Germania stampava una grande quantità di denaro, solo una parte di essa veniva utilizzata per acquistare valuta estera o carbone nazionale per effettuare i pagamenti delle riparazioni. Nel frattempo, la Germania non dipendeva molto dalle importazioni. Il fallimento apparente del governo tedesco nel comprendere la relazione fondamentale tra denaro e prezzi frustava e sconcertava gli Alleati. Holtfrerich, nel suo libro sull'iperinflazione tedesca, afferma che almeno alcuni membri della Reichsbank attribuivano la colpa della mancanza di disciplina fiscale del governo, che costringeva la banca centrale a stampare denaro, dando avvio a un'inflazione sempre crescente.

I documenti interni della banca centrale mostrano che almeno fino alla metà del 1921, la Reichsbank incoraggiava il governo a raccogliere più denaro attraverso le tasse e a smettere di forzare la banca a finanziare le spese pubbliche. L'economia tedesca, intanto, continuava a fluttuare in una classica spirale inflazionistica dei salari e dei prezzi fino alla metà del 1922. L'inflazione continuava a essere alta e crescente, ma la Germania non era ancora entrata nella zona dell'iperinflazione.

Poi, due eventi cambiarono il corso delle cose in peggio. Il primo fu il rinvio da parte della Commissione Alleata delle riparazioni di un piano per concedere prestiti a lungo termine alla Germania. Questo segnale negativo fece comprendere che gli Alleati non credevano più che il governo tedesco fosse in grado di ripagare prestiti a lungo termine. Questa consapevolezza portò a una perdita generale di fiducia da parte degli investitori internazionali, che cominciarono a vendere le attività tedesche e a rifiutare di prestare denaro ai mutuatari tedeschi. A quel punto, il governo tedesco e le imprese domestiche avevano solo un'opzione per ottenere finanziamenti affidabili: la Reichsbank. Le banche private tedesche avevano perso la volontà e forse anche la capacità di concedere nuovi prestiti, poiché l'alta inflazione riduceva il valore dei pagamenti dei prestiti che le banche avrebbero ricevuto in futuro. Questo fatto portò anche alla perdita di interesse da parte delle persone nel mantenere denaro in banca.

Poiché non c'era un sistema bancario domestico sano, il governo e le imprese cominciarono a offrire promesse di pagamento (IOU) alla banca centrale, che le convertiva in prestiti in contante. Per le imprese, questa era una soluzione ideale, poiché avrebbero restituito i prestiti tre mesi dopo in una moneta fortemente deprezzata. Questo sviluppo fu sufficiente per spingere il tasso di inflazione domestica nell'ambito dell'iperinflazione, superando la soglia del 50% nell'agosto del 1922.

Un secondo evento che contribuì al peggioramento dell'iperinflazione fu l'assassinio di Walther Rathenau, ministro della ricostruzione, avvenuto alla fine di giugno del 1922. Rathenau era il principale sostenitore tedesco del pagamento completo delle riparazioni. La sua morte indebolì gravemente l'impegno già fragile del governo verso il rispetto degli obblighi finanziari. Nel gennaio del 1923, gli Alleati dichiararono che la Germania aveva volontariamente cessato di rispettare gli obblighi e autorizzarono l'occupazione della valle della Ruhr, il cuore industriale del paese, per raccogliere le riparazioni in natura dalle miniere di carbone, dalle acciaierie e dalle altre industrie tedesche. In risposta, i tedeschi praticarono quella che chiamarono "resistenza passiva": gli operai andarono praticamente in sciopero.

Contemporaneamente, il governo estese prestiti alle aziende operanti nella Ruhr e sovvenzionò il pagamento degli stipendi, aumentando enormemente la spesa pubblica, che veniva finanziata con la stampa di denaro. Nel frattempo, mentre la Germania perdeva una quantità significativa di produzione, aumentava enormemente la massa monetaria, aggravando ulteriormente la spirale inflazionistica.

Nel 1923, i numeri inflazionistici raggiunsero livelli sbalorditivi, con il tasso di inflazione che toccò un picco di oltre il 27.000% al mese, rendendo l'iperinflazione tedesca una delle peggiori della storia. In questa fase entrò in gioco una teoria economica conosciuta come la legge di Thier, che si oppone alla più famosa legge di Gresham, secondo cui la moneta cattiva (moneta a basso valore) scaccia la moneta buona (moneta di valore stabile). La legge di Gresham si applica in situazioni di inflazione bassa o media, ma la legge di Thier diventa prevalente quando l'inflazione diventa eccessiva, spingendo le persone a cercare mezzi di scambio migliori e a proteggere il proprio valore da una valuta in continua perdita di valore.

Entro la fine del 1923, la legge di Thier era pienamente operativa. Storie economiche

Perché i modelli VaR hanno improvvisamente fallito durante la crisi finanziaria

Il primo motivo per cui i modelli VaR (Value at Risk) hanno fallito durante la crisi finanziaria del 2008 è legato ai dati utilizzati per costruirli. Per condurre un'analisi VaR, è necessario stimare la distribuzione dei rendimenti di un'attività finanziaria, e per fare ciò, occorre raccogliere dei dati. Normalmente, i dati raccolti provengono dai due anni precedenti per i modelli di VaR basati sui rendimenti giornalieri, e questi dati vengono utilizzati per stimare la distribuzione dei rendimenti. Tuttavia, durante gran parte degli anni 2000, quando i mercati erano in forte crescita, i rendimenti erano significativamente più alti del normale. Il mercato non viveva molte giornate negative, quindi le distribuzioni stimate riflettevano una tendenza rialzista. In sostanza, le distribuzioni stimate si spostavano verso destra, il che faceva diminuire i valori di VaR, portando a una previsione di perdite sempre più contenute.

Ma nel tardo 2008, la distribuzione dei rendimenti di molti asset cambiò improvvisamente verso sinistra, e i trader furono sorpresi da perdite molto più elevate di quanto avessero previsto. La causa di questo fallimento va oltre una semplice sottovalutazione dei rendimenti passati. Un altro aspetto cruciale è la complessità dei portafogli detenuti dai trader. Questi spesso includono decine, se non centinaia, di asset diversi. Per stimare la distribuzione dei rendimenti di un portafoglio complesso, è necessario modellare le correlazioni tra i rendimenti di tutti gli asset inclusi. Si assume che queste correlazioni siano stabili nel tempo, ma quando tali correlazioni cambiano, l'accuratezza delle stime VaR può essere compromessa in modo significativo.

Le stime VaR riflettono i guadagni derivanti dalla diversificazione, laddove i rendimenti degli asset all'interno di un portafoglio non sono perfettamente correlati. Pertanto, un portafoglio ben diversificato dovrebbe presentare un VaR inferiore rispetto a un portafoglio non diversificato di pari dimensioni, a condizione che gli asset dei due portafogli abbiano rischi simili e i loro rendimenti non siano perfettamente correlati. Tuttavia, se le correlazioni tra gli asset aumentano verso il valore di 1, i benefici della diversificazione svaniscono e il VaR di un portafoglio diversificato può aumentare significativamente. È esattamente ciò che accadde durante la crisi finanziaria del 2008, quando i rendimenti degli asset, che in precedenza non erano altamente correlati, cominciarono a muoversi insieme, con tutti gli asset che perdevano valore simultaneamente. Le correlazioni salirono verso 1, aumentando la grandezza del vero VaR.

In questa situazione, la combinazione del cambiamento della distribuzione dei rendimenti e l'aumento delle correlazioni fece sì che i trader si trovassero di fronte a perdite molto più gravi di quelle stimate dai loro modelli VaR. La reazione istintiva fu quella di cercare di liquidare rapidamente le posizioni, un comportamento che drenò liquidità dai mercati e fece crollare i prezzi ancora più velocemente.

Un altro motivo del fallimento dei modelli VaR è legato all'eccessiva fiducia nelle previsioni e nelle assunzioni dei modelli stessi. Questo portò i trader a prepararsi a rischi che non erano in grado di affrontare in modo adeguato.

Un caso significativo di fallimento dei modelli VaR durante la crisi è quello che riguarda la vicenda del "London Whale" nel 2011-2012, un evento in cui un trader, Bruno Iksil, ha accumulato posizioni molto rischiose in contratti di swap su crediti. Iksil, impiegato di JPMorgan Chase & Co., aveva sviluppato una strategia di trading molto complessa, utilizzando swap su crediti che si sono rivelati sottovalutati. La sua strategia si basava sull'acquisto di contratti di swap su crediti che assicuravano più di un'azienda contemporaneamente, nel tentativo di scommettere su un eventuale default di queste aziende.

Ciò che è interessante in questo caso è che Iksil, pur consapevole dei rischi legati a queste operazioni, ha manipolato volontariamente il proprio modello VaR, creando previsioni che consentivano di mascherare i rischi reali delle sue operazioni. Nonostante i modelli di gestione del rischio stabiliti da JPMorgan, che fissavano limiti di VaR giornalieri, il trader riuscì ad aggirare questi limiti creando un nuovo modello VaR per giustificare le sue posizioni. Questa manovra, seppur apparentemente calcolata, ha portato la banca a subire enormi perdite quando le condizioni di mercato si sono rapidamente deteriorate.

Alla luce di questi eventi, è importante comprendere non solo i limiti intrinseci dei modelli VaR, ma anche come la loro affidabilità dipenda fortemente dalla qualità dei dati utilizzati e dalla stabilità delle correlazioni tra gli asset. Il fallimento di questi modelli durante la crisi finanziaria del 2008 e i successivi disastri come quello del London Whale ci insegnano che, sebbene i modelli matematici possano essere strumenti potenti per la gestione del rischio, devono essere utilizzati con molta cautela. La fiducia eccessiva in essi, senza considerare la possibilità di cambiamenti improvvisi nelle condizioni di mercato, può portare a disastri finanziari.

Inoltre, è fondamentale che i modelli di gestione del rischio non diventino uno strumento per giustificare comportamenti rischiosi. La manipolazione consapevole dei modelli, come nel caso del London Whale, evidenzia come la