I per- e polifluoroalchilici (PFAS) sono una classe di composti chimici sintetici ampiamente utilizzata in numerosi prodotti industriali e di consumo. A causa della loro resistenza alla degradazione ambientale, questi composti sono diventati un problema persistente per l’ambiente e la salute pubblica. Sebbene siano state sviluppate diverse tecniche per la rimozione di PFAS, la loro gestione resta una sfida significativa, e le tecnologie emergenti continuano a evolversi.

Una delle tecniche più promettenti per affrontare i PFAS è l’ultrasonificazione, che può essere combinata con altri metodi di trattamento noti come "treni di trattamento". L’ultrasonificazione, utilizzata insieme a tecniche avanzate come ozono, radiazione UV, fotocatalisi, Fenton, e foto-Fenton, offre numerosi vantaggi, tra cui la riduzione dei consumi energetici, l’utilizzo minore di sostanze chimiche e la riduzione dei tempi operativi. L’efficacia di queste tecniche dipende dalla compatibilità con i PFAS e dalle specifiche condizioni operative che richiedono un’attenta analisi dei percorsi di reazione e dei meccanismi di distruzione. La combinazione di frequenze ultrasoniche ad alta e bassa potenza, come nel caso delle soluzioni lavorate con 40 kHz @ 150 W, si è dimostrata efficace nel ridurre la concentrazione di PFAS in diverse condizioni. Tuttavia, l’efficacia di questi trattamenti varia notevolmente a seconda dei parametri operativi, come la temperatura, il pH, la durata e la composizione chimica delle soluzioni di lavoro.

Le tecniche basate sulla fotodegradazione, inclusa la fotocatalisi, rappresentano un’altra area di interesse. La fotodegradazione è efficace nella rimozione di contaminanti nelle acque potabili e nei reflui, compresi i PFAS. La fotodegradazione chimica si avvale di un’illuminazione ad alta energia in presenza di agenti ossidanti o riducenti, mentre i sistemi fotocatalitici dipendono dalla capacità redox dei fotocatalizzatori, come il TiO2 o lo ZnO. Sebbene la fotocatalisi sia promettente, richiede l’impiego di radiazioni UV, un tipo di luce ad alta energia che può comportare rischi per la salute e aumentare i costi operativi.

La bioremediation dei PFAS rappresenta una sfida notevole, in quanto questi composti sono progettati per resistere alla degradazione biologica. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che è possibile degradare composti halogenati, come il clorofenolo e l’1,2-dicloroetano, utilizzando additivi biologici. In modo simile, la dehalogenazione, che ha mostrato promettenti risultati per altri composti, potrebbe rappresentare un percorso per la defluorinazione dei PFAS. Nonostante ciò, i PFAS, essendo composti creati dall’uomo, potrebbero richiedere tempi di adattamento molto più lunghi rispetto ai composti halogenati che sono presenti in natura da millenni.

L’efficacia di strategie di degrado biologico è stata testata in vari studi. Ad esempio, sono stati condotti esperimenti utilizzando Pseudomonas aeruginosa per rimuovere PFOA e PFOS, con una riduzione del 32% di PFOA e del 67% di PFOS rispettivamente in 96 e 48 ore. Tuttavia, la bioremediation è ancora lontana dall’essere una soluzione a larga scala, dato che la capacità microbica di trattare PFAS è ancora in fase di sviluppo. Gli approcci basati sui funghi hanno anche mostrato un certo potenziale, sebbene siano necessarie ulteriori ricerche per valutarne l’efficacia a lungo termine.

Le tecnologie di rimozione dei PFAS sono in continua evoluzione e sebbene i progressi siano promettenti, la sfida maggiore rimane la loro applicazione su larga scala. Le tecnologie emergenti come l'ultrasonificazione combinata con altre tecniche, la fotodegradazione e la bioremediation devono essere ottimizzate per affrontare in modo efficace la complessità e la persistenza dei PFAS nell'ambiente. L’adozione di soluzioni pratiche ed economiche, che possano essere scalate per affrontare i livelli crescenti di contaminazione, è fondamentale per il futuro della gestione ambientale dei PFAS.

Comportamento Ambientale e Degradazione dei Paraffini Clorurati a Catena Corta (SCCPs)

I paraffini clorurati a catena corta (SCCPs) sono composti chimici persistenti che sollevano preoccupazioni ambientali significative a causa della loro stabilità e capacità di bioaccumularsi nei biota. Questi composti, caratterizzati da una catena carboniosa corta e un alto grado di clorurazione, sono resistenti alla degradazione e possono trasportarsi su lunghe distanze attraverso l'aria, l'acqua e il suolo.

I SCCPs si distinguono per le loro proprietà fisiche e chimiche, che influiscono direttamente sul loro comportamento ambientale. La pressione di vapore, il coefficiente di distribuzione ottanolo-acqua (Kow) e la costante di Henry sono parametri cruciali che determinano la loro mobilità e persistente. In generale, con l'aumento della lunghezza della catena carboniosa, il Kow e la lipofilia aumentano, sebbene la clorurazione abbia un effetto meno marcato quando la percentuale di cloro è inferiore al 55%. Al contrario, a livelli più elevati di clorurazione, si osserva un aumento non lineare del Kow.

Nel caso dei SCCPs con una percentuale di cloro tra il 45% e il 61%, la pressione di vapore a 25°C varia tra 0.00014 e 0.028 Pa. Per i SCCPs con oltre il 70% di cloro, la pressione di vapore scende a circa 1.34 × 10⁻⁵ Pa. Tali valori sono indicativi di una bassa volatilizzazione dei composti, che, seppur moderata, potrebbe essere ridotta ulteriormente dalla loro tendenza ad adsorbirsi su sedimenti e particelle sospese in acqua.

Quando i SCCPs vengono rilasciati nell'ambiente acquatico, tendono a legarsi a sedimenti e materie organiche sospese. La loro stabilità contro l'idrolisi e la fotolisi e la moderata volatilizzazione dall'acqua sono fattori che ne favoriscono la persistenza, mentre la degradazione nei sedimenti è minima, specialmente in condizioni anaerobiche. È stato documentato che i SCCPs possono essere rintracciati nei nuclei di sedimenti risalenti agli anni '40, dimostrando così la loro incredibile longevità nell'ambiente (Wang et al., 2023).

In suoli, la mobilità dei SCCPs è generalmente bassa, grazie ai loro valori di log Koc, che indicano una forte tendenza ad essere adsorbiti dalle particelle del suolo. Questo comportamento riduce ulteriormente il rischio di contaminazione attraverso volatilizzazione o trasporto in acqua. Tuttavia, nonostante la bassa mobilità, la bioaccumulazione nei biota rimane un problema rilevante, con fattori di bioconcentrazione che variano tra 1.000 e 50.000 in diverse specie acquatiche e marine. Ad esempio, i valori di bioaccumulo provenienti da campioni prelevati dai Grandi Laghi e da mammiferi marini artici superano un milione (Zhang et al., 2022). Questo conferma che i SCCPs sono in grado di spostarsi attraverso la catena alimentare, accumulandosi in organismi di livello superiore.

Anche se la biotrasformazione dei SCCPs è lenta, è importante notare che questi composti, attraverso il processo di trasporto e accumulo, possono diffondersi globalmente, come evidenziato dalla loro presenza nell'Artico. Il Comitato per la valutazione dei rischi (POPRC) ha riconosciuto che i SCCPs soddisfano i criteri per il trasporto ambientale a lunga distanza, suggerendo una potenziale aggiunta al Protocollo sui POPs (inquinanti organici persistenti) della Convenzione sull'inquinamento atmosferico transfrontaliero a lunga distanza (Ruan et al., 2023).

La degradazione dei SCCPs è influenzata dal loro grado di clorurazione. Più alta è la clorurazione, più lenta risulta la degradazione. Recentemente, sono stati compiuti progressi significativi nell’analisi della degradazione termica di composti clorurati, che hanno contribuito a comprendere meglio il processo di decomposizione delle catene di carbonio. I risultati di queste ricerche sono fondamentali per comprendere meglio l'impatto ambientale e la pericolosità di questi composti.

Sebbene la fotodegradazione dei SCCPs sia un processo significativo, esso è influenzato da numerosi fattori, tra cui la presenza di composti fotosensibilizzanti come l’acetone. Questi studi hanno dimostrato che, in presenza di acetone, la fotodegradazione dei SCCPs accelera notevolmente. La fotodegradazione avviene principalmente tramite l'azione dei radicali idrossilici (•OH), con un'efficienza di degrado che raggiunge il 58%. Gli esperimenti condotti hanno anche suggerito che l'eccitazione tripletto e la presenza di materia organica disciolta (DOM) in ambienti acquatici naturali contribuiscono ulteriormente alla decomposizione dei composti clorurati.

Anche la biodegradazione dei SCCPs è stata oggetto di studio. Metodi innovativi come la declorurazione con dispersione di sodio metallico e il trattamento con ferro a zero valenza sono stati testati per ridurre la persistenza di questi composti nell'ambiente. Sebbene i progressi siano stati notevoli, l'efficacia di tali tecniche rimane variabile e richiede ulteriori approfondimenti.

In conclusione, i SCCPs sono composti particolarmente preoccupanti a causa della loro persistenza ambientale, della capacità di accumularsi negli organismi viventi e del loro trasporto globale. La comprensione delle loro proprietà fisiche e chimiche, insieme allo studio delle loro modalità di degradazione, è essenziale per sviluppare strategie di gestione e mitigazione più efficaci. Tuttavia, è cruciale che gli studi continuino ad approfondire il comportamento di questi composti nelle diverse matrici ambientali e nelle varie condizioni ecologiche per ridurre i rischi associati alla loro presenza nei nostri ecosistemi.

Quali sono le fonti di inquinamento da PAH nei suoli e nei sedimenti globali?

I PAH (idrocarburi policiclici aromatici) sono una delle principali fonti di contaminazione ambientale, con potenzialità di diffusione su larga scala sia atmosferica che oceanica, che permettono loro di arrivare anche in zone remote (Zhang et al., 2023a; Qi et al., 2023). L'inquinamento da PAH nei suoli è un fenomeno che si verifica in modo diffuso, con livelli che variano significativamente tra le diverse regioni del mondo, con l'Europa che mostra i valori più alti, seguita da Nord America, Asia, Oceania, Africa e Sud America (Nam et al., 2009). In particolare, i suoli urbani tendono ad avere concentrazioni di PAH più elevate rispetto ai suoli rurali, mentre i suoli di aree isolate, come quelli montuosi o forestali, presentano le concentrazioni più basse di questi inquinanti (Choi et al., 2009; Abdul Hussain et al., 2019; Wei et al., 2024). Le aree industrializzate, in particolare quelle con una lunga storia di attività industriale, sono le più contaminati da PAH. Un esempio emblematico proviene da un'indagine condotta nel Regno Unito, dove sono state trovate le concentrazioni più alte di PAH nei suoli del Galles, con valori che raggiungono i 186 mg/kg (Creaser et al., 2007), mentre nelle città cinesi si riscontrano livelli che arrivano fino a 18 mg/kg (Zhang et al., 2023b). Questi dati evidenziano come la concentrazione di PAH nei suoli sia fortemente influenzata dalla densità della popolazione e dalla storicità dell'industrializzazione. In generale, i PAH nei suoli provengono principalmente dalla combustione di combustibili fossili e biomassa (Nam et al., 2009), e i paesi con una popolazione maggiore e un'intensiva industrializzazione presentano livelli più elevati di contaminazione da PAH. Tuttavia, gli sforzi globali per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili hanno portato a un graduale abbassamento delle concentrazioni di PAH nei suoli, riflettendo la diversificazione delle fonti di inquinamento (Cui et al., 2020).

Per quanto riguarda i sedimenti, anch'essi fungono da importante serbatoio per i PAH nell'ambiente. Una revisione della letteratura di Xia et al. (2023) ha mostrato che le concentrazioni di PAH nei sedimenti lacustri variano ampiamente: da 38 a 49.392 μg/kg in Nord America, da 73 a 17.272 μg/kg in Europa, e da 11 a 5.279 μg/kg in Asia. I livelli più elevati di PAH sono stati riscontrati nel Lago Hamilton (134 mg/kg) e nel Detroit River (132 mg/kg) in Nord America (Marvin et al., 2021), così come nel fiume Tyne (43,5 mg/kg) nel Regno Unito (Woodhead et al., 1999). Questi dati confermano l'importanza dei sedimenti come deposito di contaminanti e come indicatore della contaminazione ambientale a lungo termine.

Non solo l'intensità industriale, ma anche l'attività portuale e il traffico marittimo contribuiscono alla presenza di PAH nei sedimenti marini. Studi recenti hanno documentato elevati livelli di PAH nei sedimenti costieri, come nel Golfo di Beibu e nel Mar Giallo, attribuendo l'inquinamento soprattutto alle attività industriali e al trasporto marittimo (Wang et al., 2020b). A livello globale, si osserva che le aree più industrializzate e densamente popolate tendono ad avere livelli più alti di PAH nei sedimenti, mentre le zone remote o meno antropizzate presentano concentrazioni significativamente più basse (Xia et al., 2023).

È fondamentale sottolineare che, oltre a essere indicatori della contaminazione passata e presente, i PAH nei suoli e nei sedimenti sono anche un rischio per la salute umana e per gli ecosistemi. La presenza di PAH nei sedimenti può influenzare la biodiversità acquatica, poiché questi composti possono essere bioaccumulati nelle catene alimentari, con effetti dannosi per gli organismi marini e per gli esseri umani che consumano pesce o acqua contaminata.

Infine, per comprendere appieno l'impatto dei PAH sull'ambiente e sulla salute, è cruciale monitorare regolarmente le concentrazioni di questi composti nei suoli e nei sedimenti. I dati relativi alla contaminazione da PAH devono essere continuamente aggiornati per supportare politiche di protezione ambientale sempre più efficaci. Il miglioramento delle tecnologie di monitoraggio, insieme agli sforzi globali per ridurre l'inquinamento industriale e la combustione di combustibili fossili, è essenziale per ridurre il rischio di esposizione a questi inquinanti persistenti.

Come i Materiali di Fonte Influiscono sulla Bioaccessibilità dei PAH nel Suolo

Il comportamento dei poliaromatici idrocarburi (PAH) nel suolo è complesso e dipende da numerosi fattori, tra cui la presenza di materiali carboniosi, noti anche come XOM (materiali carbonacei, come fuliggine, carbone, catrame e pece). Sebbene XOM sia riconosciuto come un importante materiale adsorbente per i PAH, la sua influenza è spesso sottovalutata nella maggior parte degli studi sulla contaminazione del suolo. Infatti, questi materiali sono comunemente considerati come serbatoi di PAH piuttosto che come mere superfici di assorbimento. Nonostante la bassa concentrazione di tali materiali, la loro capacità di dominare l'adsorbimento dei PAH nel suolo è stata documentata da numerosi studi (Jonker e Koelmans, 2002; Cornelissen et al., 2005), evidenziando che anche piccole quantità possono essere sufficienti a determinare il comportamento di questi composti.

Uno dei principali fattori che influenzano la bioaccessibilità dei PAH nel suolo è il coefficiente di partizione solido-liquido (Kd). Studi hanno dimostrato che i Kd per PAH nei materiali carbonacei come la fuliggine e il carbone sono fino a 1000 volte superiori rispetto ai materiali organici naturali (NOM). Questo implica che il rilascio di PAH da questi materiali è estremamente ridotto, il che porta a una significativa diminuzione della loro biodisponibilità (Rust et al., 2004). Tuttavia, anche con valori di Kd superiori, in alcune condizioni, i PAH possono essere più facilmente disponibili per gli organismi se il materiale di origine è, ad esempio, l'olio combustibile, come dimostrato in studi che hanno confrontato la bioaccessibilità di benzo(a)pirene in terreni contaminati con oli combustibili rispetto a terreni contaminati con soluzioni di solventi (Roberts et al., 2016).

Particolarmente interessante è la scoperta che i materiali come il catrame di carbone agiscono come serbatoi dinamici di PAH, rilasciando questi composti in modo continuo attraverso la migrazione nelle strutture porose del suolo. Questo fenomeno porta ad un rilascio progressivo di PAH, che aumenta la frazione rapidamente desorbibile (Frap), un parametro strettamente legato alla bioaccessibilità di questi composti e ai rischi ambientali ad essi associati. Un aspetto fondamentale che emerge da queste ricerche è che i materiali di fonte come il catrame di carbone non devono essere trattati come semplici serbatoi inerti, ma come fonti attive che potrebbero continuare a rilasciare PAH nel tempo, aumentando i rischi per la salute umana e per l'ambiente.

Un altro aspetto cruciale per comprendere la bioaccessibilità dei PAH nel suolo riguarda l'interazione con co-contaminanti. La presenza di alti livelli di altri contaminanti organici, come idrocarburi di origine diversa, può influenzare la velocità di adsorbimento e desorbimento dei PAH, a causa di gradienti di concentrazione più ripidi. Inoltre, la competizione tra diversi contaminanti organici per i siti di adsorbimento nel suolo può aumentare la disponibilità dei PAH. D'altro canto, la presenza di metalli pesanti sembra ridurre la biodisponibilità dei PAH, a causa di modifiche nella composizione della materia organica del suolo (SOM) e dell'effetto di legame catione-π.

Le implicazioni di queste scoperte sono significative. In particolare, la presenza di materiali come il catrame di carbone o l'olio combustibile potrebbe alterare il comportamento a lungo termine dei PAH nel suolo, aumentando o diminuendo la loro biodisponibilità a seconda delle condizioni ambientali e del tipo di materiale presente. L'interpretazione dei dati relativi alla contaminazione del suolo, quindi, deve tenere conto non solo della quantità di PAH presente, ma anche della natura dei materiali di fonte e della loro capacità di rilasciare o sequestrare questi composti nel tempo.

Inoltre, quando si tratta di rischi ambientali legati ai PAH nel suolo, uno degli aspetti più difficili da gestire è la formazione di residui non estraibili (NER). Questi residui rappresentano una parte dei PAH che, a causa della lunga permanenza nel suolo e dei processi di adsorbimento e legame chimico, diventano difficili da rimuovere. I NER si suddividono in tre tipi: la frazione intrappolata nelle strutture porose (Tipo I), quella legata covalentemente al suolo (Tipo II), e quella degradata in prodotti non tossici (Tipo III). I primi due tipi, sebbene più stabili, potrebbero essere rimobilizzati e tornare a rappresentare un rischio per gli organismi, a causa della loro capacità di rilasciare lentamente i PAH nel tempo. Tuttavia, il rischio derivante dai NER è relativamente basso, come evidenziato dai test sulla dannosità per gli organismi, che non hanno mostrato effetti significativi dopo esposizione a PAH sequestrati nel suolo per periodi prolungati.

Infine, quando si affrontano terreni contaminati, è fondamentale considerare le strategie di bonifica. Mentre le tecniche tradizionali come il lavaggio del suolo o l'escavazione seguita dalla discarica o incenerimento possono ridurre la concentrazione di contaminanti, non affrontano sempre il problema a lungo termine legato alla mobilizzazione dei PAH sequestrati. La rimozione di contaminanti non sempre è la soluzione definitiva, e metodi come l'ossidazione chimica potrebbero essere necessari per degradare i PAH persistenti e ridurre il rischio di esposizione.