Nel dramma di Shakespeare Coriolano, l’autore dipinge una visione tragica dell’umanità, dove i conflitti e l'autodistruzione si ripetono ciclicamente, alimentati da orgoglio, vendetta e pregiudizio. La trama narra la distruzione reciproca di due città italiane in guerra: Roma e Volsci. I Romani, inizialmente vittoriosi, decimano le forze Volsce a Corioli, ma successivamente rivoltano contro il proprio generale, Caius Martius, che, chiamato Coriolano in onore della sua vittoria, si allea con i Volsci. Alla fine, Coriolano guida un attacco vendicativo contro Roma, ma quando viene persuaso a cancellare l'assalto, è ucciso dai Volsci stessi. La trama diventa così un ciclo continuo di violenza e tradimento, dove i Romani distruggono i Volsci e viceversa. Questo gioco di distruzione reciproca sembra non avere fine, un’autodistruzione perpetua che si ripete senza interruzione.

Shakespeare utilizza la metafora del cannibalismo per rappresentare questa tendenza autodistruttiva. All'inizio del dramma, un cittadino affamato si lamenta che le classi superiori stanno accumulando grano, dicendo: “Se le guerre non ci divorano, lo faranno loro” (1.1.77). Martius, il futuro Coriolano, viene descritto come un cannibale, insieme ai plebei che "si nutrono l'uno dell'altro" (1.1.179). L’intera Roma, quando i tribuni chiedono la morte di Coriolano, diventa un cannibale, come lamenta Menenio, suo amico: “Come un padre innaturale / Ora si nutrirà della propria carne!” (3.1.284–85). La scena ritorna più volte su questa immagine di esseri umani che si divorano tra di loro, un simbolo della tendenza autodistruttiva della nostra specie.

Il dramma di Shakespeare si presta a numerosi adattamenti, e uno dei più intriganti è quello di Bannon, che sposta l'ambientazione dalla Roma antica a una violenta e desolata realtà contemporanea. L’adattamento di Bannon rielabora il conflitto tra le due città in una guerra civile all’interno di una sottocultura americana, quella delle bande di Los Angeles. La trama di Coriolano si sviluppa all’interno di un mondo dominato dalla violenza tra bande: i Bloods (i Romani) e i Crips (i Volsci), ma introduce anche un terzo gruppo di personaggi, la società bianca, rappresentata dalla polizia, dai politici e dai media. La rappresentazione di Bannon si distacca radicalmente dal cannibalismo universale del dramma shakespeariano e lo concentra sulla lotta autolesionista all’interno della comunità afroamericana.

Nel film, i minatori sudafricani, come i plebei romani, sono descritti come schiavi moderni che lavorano in condizioni disumane. La scena iniziale del film, con i minatori che scavano nelle profondità della terra in un inferno infernale di fumo e polvere, stabilisce una connessione con l’opera di Dante, portando l’immagine del "nono cerchio dell’Inferno" in un contesto contemporaneo. Questi minatori, in preda alla disperazione e al desiderio di rivendicare una terra perduta, si mescolano con i poveri afroamericani di Los Angeles durante i disordini del 1992. Il conflitto tra i Bloods e i Crips viene così messo in scena come una continua lotta per il potere, con i personaggi che ripetono, nella loro violenza, l’autodistruzione che pervade l’opera shakespeariana.

Una delle scene più potenti dell’adattamento di Bannon è quella in cui Coriolanus, un leader delle bande dei Bloods, rifiuta di scendere a compromessi con il pubblico e i media. In questo rifiuto di partecipare ai giochi di potere e alla politica della compassione, Coriolanus riafferma la sua identità come un "superstar del ghetto", un uomo che non può e non vuole essere altro che ciò che è. Questo rifiuto di adattarsi alla pressione della società bianca, che chiede a Coriolanus di abbandonare la sua autenticità per la mediazione e la politica, si riflette nel dramma shakespeariano, dove il protagonista è costretto a confrontarsi con l'ipocrisia della sua stessa città.

Tuttavia, l’adattamento di Bannon offre una riflessione più amara e cinica: la distruzione reciproca tra i gruppi razziali, simboleggiata dalla guerra tra i Bloods e i Crips, non porta a un ciclo infinito di autodistruzione. Al contrario, suggerisce che la società bianca, rappresentata dai media e dai politici, assiste a questa distruzione, senza intervenire, lasciando che la comunità nera si distrugga da sola. In questo modo, il potere vacante lasciato da una guerra tra bande sembra pronto ad essere colmato da un’America bianca che non partecipa alla distruzione, ma che alla fine ne trarrà vantaggio.

Questo adattamento solleva domande cruciali sulla dinamica razziale e sociale contemporanea, dove le tensioni tra diverse comunità si intrecciano con il desiderio di potere, di identità e di sopravvivenza. Bannon non offre una visione ottimistica del futuro, ma piuttosto una riflessione sulla continua lotta per il controllo e sull’autoalimentazione della violenza. La suggestione di un ciclo infinito di autodistruzione viene quindi sostituita dalla consapevolezza che, mentre un gruppo si autodistrugge, l’altro rimane distaccato, pronto a prendere il sopravvento.

Come Richard III Ci Coinvolge nel Suo Gioco: Vilipendio, Complicità e Potere

In Richard III di Shakespeare, il pubblico non è solo spettatore, ma partecipe attivo nel gioco di intrighi e potere messo in scena dal protagonista. Richard, Duca di Gloucester, è un personaggio che trasforma ogni sua malvagità in un'opera teatrale, dove il pubblico viene consapevolmente arruolato come complice. La sua astuzia e il suo carisma non solo manipolano gli altri personaggi sul palcoscenico, ma coinvolgono anche noi, spettatori, in un atto di complicità che sfida la morale e l'etica.

All'inizio della tragedia, la figura di Richard emerge come un "underdog" di straordinaria ambizione, nato in una famiglia reale, ma in una posizione che lo rende il più lontano possibile dal trono. La monarchia ereditaria dell'Inghilterra fa sì che il regno passasse dal fratello maggiore di Richard, Edward, al suo figlio primogenito, e solo in caso di morte prematura di questi, Richard avrebbe avuto una chance. La probabilità di salire al potere era quindi minima, ma questa consapevolezza non ferma Richard, che inizia un lungo e complesso piano di manipolazioni, inganni e omicidi.

La sua malvagità, tuttavia, non ci porta a disprezzarlo. Al contrario, siamo quasi affascinati dalla sua determinazione, dalla sua capacità di piegare le circostanze alla sua volontà. Richard è consapevole della sua natura malvagia e non cerca mai di mascherarla. Anzi, la espone apertamente al pubblico, facendo di essa uno strumento di attrazione. Egli rivela il suo piano in modo esplicito, facendo in modo che ogni passo della sua ascesa al trono sembri una partita da giocare, un gioco dove la vittoria giustifica ogni azione, anche la più disonesta.

Le sue parole, come quelle con cui confessa le sue intenzioni davanti al pubblico ("Plots have I laid..."), ci coinvolgono in una maniera quasi giocosa. Richard ci parla come se fossimo suoi alleati, come se noi stessi fossimo parte integrante di una strategia più grande. Questo crea una sorta di complicità: non solo guardiamo la sua ascesa, ma ne facciamo parte. La sua abilità nel manipolare gli altri, nel trasformare ogni inganno in un'opportunità per lanciare nuove alleanze o eliminare nemici, ci rende più pronti a giustificare la sua malvagità, per quanto palese. La sua violenza diventa spettacolare, un'azione che, seppur crudele, ci eccita, poiché ci dà la sensazione di partecipare a un gioco le cui regole non sono mai chiaramente definite, ma che ha un'irresistibile attrattiva.

Il vero inganno di Richard non sta solo nel modo in cui riesce a manipolare gli altri personaggi, ma nel modo in cui riesce a manipolare noi, il pubblico. Si presenta come il vincitore predestinato, il maestro del gioco politico, e ci convince a seguirlo senza riflettere troppo sulle implicazioni morali di ciò che sta facendo. Ogni sua azione sembra un atto eroico, persino quando sta uccidendo il proprio fratello o conquistando la vedova di un uomo che ha assassinato. La sua retorica, la sua disinvoltura e il suo coraggio travolgente ci fanno sentire più coinvolti che mai, e questa sensazione ci rende, in qualche modo, complici delle sue azioni.

La relazione tra Richard e il pubblico si sviluppa in modo ancora più profondo quando, dopo aver convinto Lady Anne a sposarlo, la sua sicurezza e il suo carisma diventano ancora più evidenti. Il suo entusiasmo per il suo successo, il suo orgoglio nel conquistare la donna che aveva appena ucciso suo marito, diventa contagioso. "Was ever woman in this humor wooed?" chiede, sfidando le convenzioni morali e coinvolgendo noi nel suo trionfo. La sua fiducia in se stesso ci fa credere che lui sia il vero protagonista, che le sue azioni abbiano una giustificazione intrinseca, anche quando ciò che fa è assolutamente ripugnante.

Questo legame che crea con noi, spettatori, è un aspetto cruciale del suo potere. Non solo ci fa sentire parte di un gioco più grande, ma ci fa desiderare di vincere con lui, di essere parte della sua squadra, in nome di una vittoria che ha molto più valore della virtù. Questo è il vero "gioco" di Richard: un gioco in cui la vittoria è l'unica cosa che conta, e in cui la morale diventa irrilevante.

Il punto cruciale di questa dinamica emerge quando Richard, per rendere più efficace il suo piano, recluta altre persone nel suo gioco. I suoi scagnozzi, come i due assassini che uccidono Clarence, sono consapevoli delle atrocità che stanno per compiere, ma sono pronti a farlo per denaro e per il potere che ne ricaveranno. La loro complicità rende ancora più evidente il potere di Richard: non è solo un manipolatore, ma un creatore di complicità, che trasforma ogni sua vittima in un alleato involontario.

Ciò che rende Richard III un'opera affascinante è la capacità di Shakespeare di farci partecipare attivamente al gioco di potere che si svolge sul palco. La nostra complicità emotiva e intellettuale con Richard non è mai puramente passiva: ci sentiamo coinvolti, anche se sappiamo che ciò che stiamo vedendo è l'incarnazione del male. Eppure, l'energia che Richard emana, la sua determinazione, la sua abilità di trasformare ogni difficoltà in un'opportunità, ci affascinano e ci spingono ad allinearci con lui. È questo che ci rende complice nel suo viaggio oscuro verso il trono.

Quando l'arte diventa un discorso politico?

La produzione di "Giulio Cesare" al Public Theater di New York ha sollevato una serie di interrogativi legali e morali riguardo al confine tra arte e politica, e su come le opere finanziate dallo stato possano influire sul dibattito pubblico. Non è una domanda semplice, poiché coinvolge diverse dimensioni della libertà di espressione, della censura e del finanziamento pubblico delle arti. La questione centrale riguarda il momento in cui l'arte, che tradizionalmente ha avuto la funzione di stimolare il pensiero critico e il dialogo, diventa, agli occhi del pubblico, una forma di discorso politico.

Il Public Theater ha scelto di presentare "Giulio Cesare" in una versione che ricalca le caratteristiche di un satirico ritratto del presidente Donald Trump, portando sul palco una rappresentazione che non solo provocava, ma rischiava anche di urtare sensibilità politiche molto forti. La messa in scena mostrava un Cesare contemporaneo, il cui assassinio risultava inquietantemente simile alla figura del presidente degli Stati Uniti. Nonostante la libertà artistica, che consente agli artisti di esplorare qualsiasi tema, l'opera ha sollevato una reazione pubblica intensa, con numerosi sponsor che si sono ritirati dal sostegno finanziario alla produzione. In parte, la decisione dei finanziatori è stata influenzata dal timore che associarsi a una tale produzione potesse danneggiare la loro reputazione e, conseguentemente, le loro attività economiche.

La causa scatenante di questo ritiro non era tanto la protesta contro il messaggio politico della produzione, quanto l'eco negativa che essa aveva generato. Quando l'opera ha suscitato una discussione accesa, sia sui social media che nei media tradizionali, i sostenitori finanziari hanno preferito disimpegnarsi per evitare la perdita di clienti e la pubblicità negativa. Questo fenomeno non è nuovo nella storia della relazione tra arte e politica, ma in questo caso l’elemento che ha differenziato questa produzione dalle precedenti è stato il contesto politico dell'epoca, con l'odio violento nei confronti del presidente Trump che stava raggiungendo livelli estremi, creando timori concreti su possibili atti di violenza.

Tuttavia, la domanda che emerge in seguito è: fino a che punto l'arte finanziata pubblicamente dovrebbe essere soggetta a restrizioni politiche? Nel contesto degli Stati Uniti, il governo ha storicamente sostenuto le arti, riconoscendo il loro valore culturale e sociale. L'Art and Humanities Act del 1965 ha istituito la National Endowment for the Arts (NEA), una fondazione pubblica che finanzia progetti artistici con fondi federali. Tuttavia, come chiarito dalla Corte Suprema, il governo non è obbligato a finanziare l'arte, e se decide di farlo, può stabilire criteri di selezione. A tal fine, l'NEA ha specificato che i fondi pubblici non possono essere utilizzati per promuovere messaggi politici o discorsi che possano essere considerati offensivi o osceni. In questo contesto, il Public Theater non ha violato le norme della NEA, poiché non ha ricevuto finanziamenti diretti dalla fondazione per questa produzione. Tuttavia, la questione sollevata è se, in caso di frequente accesso a finanziamenti pubblici, un'organizzazione artistica dovrebbe essere limitata nella sua libertà di espressione politica.

Il conflitto tra libertà di espressione e censura si approfondisce quando si riflette sull’interpretazione della Costituzione degli Stati Uniti, che garantisce la libertà di parola, ma lascia aperto il dibattito su cosa accada quando il finanziamento pubblico entra in gioco. La Corte Suprema ha storicamente respinto tentativi di limitare la libertà artistica, soprattutto quando le linee guida dell'NEA per determinare la “decenza” sono state dichiarate incostituzionali, poiché troppo vaghe e potenzialmente oppressive per gli artisti. Tuttavia, l'uso di denaro pubblico per sostenere le arti pone una domanda fondamentale: l'arte deve essere completamente libera da ogni interferenza esterna, anche quella del governo, che può influenzare la produzione di arte in modo indiretto? O dovrebbe esserci una certa responsabilità, data la natura pubblica del finanziamento?

Il dibattito si estende anche al concetto di "discorsi politici" in relazione all'arte. La legge federale americana, tramite l'Hatch Act, limita il coinvolgimento di dipendenti governativi in attività politiche partigiane, ma non si applica alle organizzazioni private come il Public Theater. La produzione di "Giulio Cesare" non ha espressamente preso posizione contro un candidato politico o sostenuto un partito, ma il suo contenuto è stato visto da molti come un atto di resistenza politica, un’espressione che affrontava il contesto attuale degli Stati Uniti. Ciò solleva interrogativi su quando un'arte che intende provocare il pubblico, sfidando le convenzioni sociali e politiche, diventa un discorso politico vero e proprio, e quale impatto ciò abbia sulla libertà artistica e sul finanziamento pubblico delle arti.

Nel considerare questi temi, è essenziale comprendere che l'arte non è solo un mezzo di espressione individuale, ma anche un prodotto sociale che interagisce con le sensibilità collettive. La sua capacità di sfidare lo status quo e di stimolare discussioni politiche può essere vista come un valore in sé, un aspetto che distingue l'arte dalle altre forme di comunicazione. Tuttavia, questo non significa che ogni atto di provocazione artistica debba essere esente da considerazioni legali o etiche, soprattutto quando coinvolge denaro pubblico.

In definitiva, il caso del Public Theater ci invita a riflettere sul confine tra arte e politica, sul ruolo che il governo dovrebbe giocare nel finanziamento di forme artistiche potenzialmente divisive e sulla responsabilità degli artisti nell'utilizzare la loro libertà creativa in un contesto politico delicato. La linea tra l'arte che stimola il pensiero e quella che incita alla divisione è sottile e non sempre chiara, ma essa rimane al centro di uno dei dibattiti più importanti riguardanti la libertà di espressione nella società contemporanea.