Nel contesto politico, il genere gioca un ruolo determinante nelle dinamiche elettorali e nelle percezioni dei candidati. I pregiudizi di genere non solo influenzano le aspettative sul comportamento dei politici, ma anche le valutazioni delle loro qualifiche e la legittimità delle loro ambizioni. Tra i principali stereotipi, uno dei più ostinati è quello che Donald Trump ha sfruttato durante la sua campagna, riguardante la presunta incompatibilità delle donne con il desiderio di ricoprire incarichi pubblici. Questo stereotipo suggerisce che, per natura, gli uomini sono destinati al dominio pubblico, mentre le donne dovrebbero rimanere confinati nella sfera privata.

Le campagne politiche, da sempre, sono strutturate attorno a un'immagine di mascolinità, un concetto che si riflette nelle aspettative sul comportamento dei candidati e sul loro ruolo nel processo decisionale. Sebbene le donne abbiano progressivamente ottenuto un maggiore accesso alla politica, candidandosi e ottenendo seggi a livello locale, statale e federale, la corsa alla presidenza rimane saldamente dominata da una visione maschile del potere. A livello di percezione, è emerso che le donne candidate alla presidenza sono frequentemente giudicate meno qualificate rispetto agli uomini con curriculum simili (Dunaway et al., 2013; Lawrence and Rose, 2010).

Le donne politiche sono sottoposte a stereotipi di genere che regolano anche la gestione delle emozioni in pubblico, un campo di studio molto esplorato nel contesto delle dinamiche politiche. Quando una donna si presenta in pubblico mostrando emozioni forti, come la rabbia, essa si espone a una condanna più severa rispetto agli uomini, che possono esprimere tali emozioni senza compromettere la loro immagine di competenza. La ricerca ha rivelato che la rabbia femminile viene spesso interpretata come un difetto di personalità, mentre quella maschile è vista come una risposta razionale a una situazione esterna (Barrett and Moreau, 2009). Quando una donna manifesta rabbia, si attiva un meccanismo di giudizio che la considera più emotiva, fuori controllo e incapace di gestire lo stress. Al contrario, la rabbia maschile è spesso percepita come un segno di fiducia e determinazione.

Nel caso della campagna presidenziale del 2016, Hillary Clinton e Donald Trump hanno incarnato due facce di uno stesso fenomeno: da un lato, Clinton ha affrontato una persistente problematica di "simpatia", con un’immagine pubblica che oscillava tra la reputazione di una politica esperta ma distante e quella di una donna percepita come “non abbastanza femminile” o “troppo rigida” nel suo approccio. D’altra parte, Trump ha cavalcato il vento del "populismo anti-establishment", incitando il pubblico con un linguaggio aggressivo e sessista, che ha alimentato le già radicate antipatie nei confronti di Clinton. Nonostante il suo significativo background politico e il suo ruolo storico come prima donna candidata alla presidenza da parte di un grande partito, Clinton non è riuscita a superare l'immagine costruita da Trump e da altri critici, che l’hanno etichettata con epiteti come "Crooked Hillary" e "nasty woman", rafforzando così l’idea di una figura politica inadatta a rappresentare l’America.

Nel contesto di tale polarizzazione, è importante considerare che il genere non solo modella le aspettative sulle capacità dei candidati, ma influisce anche sulla percezione della loro "autenticità". Clinton, nel tentativo di cambiare la propria immagine, ha cercato di abbracciare la sua identità femminile, ma questo approccio ha portato a nuove sfide. La scelta di enfatizzare il suo ruolo di madre e nonna all'interno della sua campagna presidenziale, purtroppo, non ha avuto il risultato sperato. Al contrario, questa strategia ha rafforzato l’idea di una politica che non riusciva a distaccarsi dai tradizionali stereotipi di genere, finendo per alimentare un altro tipo di critica: quella di essere una donna "prevedibile" e troppo legata ai ruoli familiari.

In un contesto come quello delle elezioni presidenziali del 2016, in cui la politica spettacolare e la personalizzazione della politica sono diventati predominanti, è fondamentale comprendere come il genere, la gestione delle emozioni e la costruzione dell'immagine pubblica siano strumenti centrali nelle campagne. Le donne candidate devono affrontare una doppia sfida: quella di dimostrare le proprie capacità senza cadere nel rischio di sembrare troppo "emotive" o "non abbastanza forti", ma anche quella di rimanere fedeli alla loro identità senza essere schiacciate dai ruoli tradizionali imposti dalla società.

In questo scenario, l’analisi delle campagne presidenziali offre uno spunto di riflessione più ampio sulla natura del potere, sulle aspettative di genere e sul modo in cui la politica contemporanea viene consumata dal pubblico. Il genere, lungi dall’essere un aspetto neutro o irrilevante, continua a essere un determinante fondamentale nel modo in cui i candidati vengono percepiti, eletti e, in ultima analisi, come essi stessi costruiscono e difendono le proprie carriere politiche.

L'Emozione e la Politica: Il Caso delle Elezioni Presidenziali del 2016 negli Stati Uniti

Le elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti sono state un crocevia fondamentale nella storia politica contemporanea, segnando un cambiamento sostanziale rispetto alle normali dinamiche delle campagne elettorali precedenti. Il 2016 ha visto l'intersezione tra la politica presidenziale e l'elemento della celebrità, rappresentato dalla candidatura di Donald Trump, un uomo d'affari e star televisiva. Allo stesso tempo, Hillary Clinton ha fatto storia diventando la prima donna a essere nominata candidata di un grande partito per la presidenza. Sebbene ciascun evento avrebbe sicuramente attratto l'attenzione pubblica, l'eccezionalità di averli entrambi nello stesso anno elettorale ha avuto un impatto monumentale.

La campagna presidenziale del 2016 è stata caratterizzata da un contesto emotivo unico, carico di tensioni e connotazioni emotive più intense rispetto agli anni precedenti, come il 2008 e il 2012, durante la presidenza di Barack Obama. Mentre sotto la presidenza Obama, l'atteggiamento nazionale era permeato da un senso di ottimismo, nel 2016 si assiste a un netto spostamento verso il cinismo, lo scetticismo e la delusione, segnando la fine di un’era e l’inizio di una nuova fase di disincanto nei confronti delle istituzioni politiche americane.

Tre temi principali hanno dominato la campagna del 2016: l’emotività negativa, il declino della fiducia pubblica nelle istituzioni politiche americane e la preoccupazione economica legata alla stagnazione salariale e al declino della forza lavoro. A questi si aggiungono la fatica dei cittadini verso la politica dinastica e un forte sentimento di anti-establishment, che si è tradotto in rabbia nei confronti del sistema politico tradizionale. Durante la campagna, i candidati hanno scambiato accuse reciproche, e questo ha ulteriormente minato la fiducia del pubblico nel processo elettorale, facendo crescere il malcontento generale.

L’elettorato del 2016, secondo i dati dell'ANES, ha visto una percentuale significativa di cittadini convinti che il paese stesse prendendo una direzione sbagliata, un’opinione che, a fine mandato di una presidenza di due mandati, non è poi così sorprendente. Ben il 74% degli americani esprimeva la convinzione che le priorità del paese fossero mal indirizzate. Questo disagio si rifletteva anche nelle risposte emotive dirette verso i candidati.

Le emozioni, in un contesto politico, non solo forniscono indizi sulle inclinazioni degli elettori, ma contribuiscono anche alla costruzione delle aspettative. Secondo la teoria di Dolan e Holbrook (2001), la conoscenza politica e il "pensiero desiderato" (ovvero le preferenze elettorali) sono fattori determinanti nella percezione politica del cittadino. L’interpretazione che ogni individuo dà a ciò che osserva è un processo cognitivo che si applica a una vasta gamma di soggetti politici, inclusi i candidati, e la percezione che si forma può essere influenzata in maniera significativa dalle emozioni.

Il fenomeno dell’emozione nelle elezioni non è solo una risposta alla retorica dei candidati, ma è anche uno strumento che può orientare e modellare la scelta dell’elettore. Le emozioni suscitate dalle parole di Hillary Clinton e Donald Trump hanno avuto un impatto diretto sulle preferenze politiche, indicando che l’emotività nelle elezioni è tanto contingente quanto influente.

L’analisi delle emozioni e delle loro interazioni con la politica ci permette di comprendere meglio i modelli di preferenza degli elettori e come queste emozioni siano espressione delle loro percezioni politiche. Gli studi sull’emozione e sulla cognizione ci aiutano a decifrare le risposte emotive degli elettori e il loro impatto sulla valutazione dei candidati. In effetti, ciò che emerge chiaramente dall’analisi delle elezioni presidenziali del 2016 è che le emozioni sono un elemento fondamentale in politica, sia per comprendere come i cittadini reagiscono alle proposte dei candidati, sia per prevedere l’andamento delle loro scelte.

In un’analisi della campagna elettorale del 2016, è impossibile ignorare la complessità delle dinamiche che hanno influenzato l’esito finale. Queste dinamiche non sono sempre facilmente osservabili, poiché esistono molteplici interazioni che devono essere considerate per capire come le emozioni abbiano inciso sulle scelte elettorali. Le emozioni, infatti, hanno un ruolo fondamentale nel processo elettorale, e le risposte emotive degli elettori sono fortemente condizionate dalla retorica dei candidati, dalle loro dichiarazioni e dai temi politici dominanti nel dibattito pubblico.

Oltre alle evidenti interazioni emotive tra i candidati e l’elettorato, va sottolineato il peso che i temi di genere e gli stereotipi legati al ruolo femminile e maschile nelle campagne elettorali abbiano avuto. La figura di Hillary Clinton è stata frequentemente sottoposta a un giudizio fortemente influenzato da stereotipi di genere, spesso incentrato sulla sua capacità emotiva o sulla sua presunta "freddhezza". Questi stereotipi, anche se in parte legittimi, hanno avuto il potere di influenzare la percezione del pubblico e, di conseguenza, le sue preferenze elettorali.

In questo contesto, l’analisi emotiva offre strumenti utili per comprendere non solo come le emozioni plasmino le percezioni politiche, ma anche come esse possano essere manipolate e indirizzate in modo strategico durante una campagna elettorale. In particolare, l’abilità di un candidato nel suscitare emozioni forti o, al contrario, nel mantenere il controllo delle proprie emozioni può fare la differenza tra il successo e il fallimento elettorale.

Quanto contano le emozioni nelle valutazioni economiche degli elettori statunitensi?

Durante la campagna presidenziale del 2016, la percezione della politica economica non si fondava soltanto su indicatori oggettivi o sull’andamento reale dell’economia americana, ma era filtrata e deformata da una gamma complessa di risposte emotive. Le valutazioni retrospettive sulla gestione dell’economia da parte di Barack Obama si intrecciavano con le emozioni suscitate dai candidati in lizza: Hillary Clinton e Donald Trump.

L'analisi mostra che le emozioni positive come l’orgoglio e la speranza, provate verso Clinton, aumentavano significativamente la probabilità di approvare la gestione economica di Obama. Al contrario, emozioni negative come rabbia, paura e disgusto erano fortemente associate al disappunto. Questo pattern riflette una dinamica psicopolitica ben documentata: le emozioni retrospettive, in particolare l’orgoglio, sono potenti predittori delle valutazioni del passato, mentre la speranza tende a riflettere aspettative future, agendo come leva nei giudizi prospettici, come nel caso del sostegno a Trump.

I modelli statistici indicano che l’identificazione partitica rappresenta il fattore più determinante nel giudizio sull’economia, sopra ogni altra variabile demografica o mediatica. Tuttavia, le emozioni restano centrali nell'articolazione di tale partigianeria, amplificandone l’effetto o talvolta sostituendosi ad argomentazioni razionali. La rabbia o la speranza diventano, così, veicoli di adesione o rifiuto ideologico, e non semplici riflessi di condizioni economiche oggettive.

È interessante notare che, anche quando la valutazione si sposta sull’andamento generale dell’economia dal 2008 in poi, le stesse emozioni agiscono con direzioni differenti a seconda del candidato. Per esempio, il disgusto verso Trump aumenta la probabilità che un elettore consideri l’economia migliorata, mentre lo stesso sentimento verso Clinton ha un effetto opposto. Questo suggerisce che le emozioni sono meno reazioni a eventi oggettivi che strumenti cognitivi attraverso cui gli elettori reinterpretano la realtà in funzione della propria appartenenza simbolica.

Allo stesso modo, quando gli intervistati sono chiamati a esprimere un giudizio sullo stato dell’economia nel 2016, l’impatto delle emozioni è altrettanto significativo. La paura e il disgusto nei confronti di Clinton si associano a una maggiore propensione a descrivere l’economia come negativa. Per Trump, è ancora una volta la speranza ad agire come sentimento prospettico, e la sua assenza corrisponde a valutazioni più severe sul presente.

Ma questa struttura emotiva non si limita ai giudizi soggettivi. Essa è radicata in dinamiche materiali e storiche: nonostante i segnali di ripresa macroeconomica, interi segmenti della popolazione americana – in particolare gli uomini bianchi della classe operaia – si sentivano esclusi dalla crescita. Nelle ex roccaforti industriali, dove la globalizzazione ha svuotato le fabbriche, il lavoro qualificato è diminuito e le promesse del progresso tecnologico si sono tradotte in precarietà. Le statistiche raccontano un quadro inequivocabile: il tasso di partecipazione alla forza lavoro maschile è in calo dal 1972, con un'accelerazione drastica nel 2010. Gli uomini lasciano il lavoro e spesso non cercano alternative, colpiti da una combinazione di fattori strutturali: automazione, declino dei sindacati, delocalizzazione produttiva.

All’interno di questo contesto, Trump ha costruito la sua narrazione di “America First” opponendo la sua retorica anti-globalista al messaggio di continuità proposto da Clinton. Se lei cercava di preservare l’eredità democratica, lui prometteva di capovolgerla. Il malessere economico non si esprimeva dunque solo in termini di reddito o occupazione, ma si traduceva in un linguaggio affettivo, in un desiderio collettivo di riconoscimento e riscatto.

Tali emozioni, lungi dall’essere meri epifenomeni, hanno plasmato la razionalità politica dell’elettorato. I sentimenti provati verso i candidati hanno agito da filtri cognitivi per la valutazione delle politiche passate e delle aspettative future. L’orgoglio verso Clinton fungeva da ancoraggio positivo al passato; la speranza in Trump, da vettore di trasformazione per il futuro. Ma la forza di emozioni negative – la paura, il disgusto, la rabbia – ha avuto un impatto persino più dirompente, in grado di ridefinire il significato stesso di “economia”.

Comprendere l’impatto delle emozioni nel comportamento elettorale richiede dunque di abbandonare l’idea che le decisioni politiche si basino unicamente su calcoli razionali o interessi materiali. Le emozioni non sono decorative, ma strutturanti; non accompagnano il giudizio, ma lo formano. Esse costruiscono la percezione di ciò che è giusto, di ciò che è possibile e di ciò che è temuto.

Oltre ai dati elettorali e ai modelli statistici, è fondamentale interrogare i codici culturali e simbolici che danno senso a queste emozioni. La narrazione della perdita, del declino, dell’ingiustizia percepita non si fonda soltanto su dati economici, ma su memorie condivise, identità collettive ferite e aspettative infrante. La politica economica, in questo senso, è anche una lotta per la definizione di ciò che conta come “vero”, come “giusto”, come “nostro”.

In che modo le emozioni e la retorica politica modellano la percezione dell’immigrazione e della sicurezza nazionale?

Le emozioni giocano un ruolo cruciale nella formazione delle opinioni politiche, in particolare quando si tratta di temi come l'immigrazione e la sicurezza nazionale. L'analisi dei dati del sondaggio ANES del 2016 mostra chiaramente come emozioni discrete — come orgoglio, speranza, rabbia, paura e disgusto — influenzino la percezione della minaccia rappresentata dall'immigrazione, e come queste percezioni siano intrecciate a dinamiche razziali e ideologiche, nonché alla retorica utilizzata durante la campagna elettorale.

Nell’ambito delle credenze circa l’immigrazione come fattore che sottrae lavoro ai cittadini statunitensi, l’analisi logistica rivela che la rabbia è significativamente correlata a una visione negativa dell’immigrazione. Al contrario, emozioni come l’orgoglio e la speranza, seppur generalmente considerate positive, mostrano anch’esse correlazioni importanti con atteggiamenti contrari all’immigrazione, suggerendo una connessione non immediatamente evidente tra sentimenti positivi e narrazioni nativiste. La paura presenta un’influenza statisticamente significativa, mentre il disgusto — spesso teoricamente associato alla deumanizzazione — non sembra influenzare direttamente l’opinione sull’impatto occupazionale dell’immigrazione, almeno in questo modello.

È importante osservare che questi risultati devono essere letti alla luce della retorica politica specifica della campagna del 2016. Le dichiarazioni di Donald Trump, specialmente riguardo alla costruzione del muro e all’immagine dell’immigrato come minaccia all’identità americana, creano un contesto emotivo carico che modula la ricezione dei messaggi politici. Utych (2018) sottolinea come la deumanizzazione degli immigrati sia mediata dalla rabbia e dal disgusto; tuttavia, nel caso specifico analizzato, la mancanza di un frame razziale esplicito nella domanda del sondaggio potrebbe aver attenuato l’effetto del disgusto, lasciando alla rabbia il ruolo principale nel catalizzare opinioni ostili all’immigrazione.

Allo stesso tempo, la correlazione tra variabili politiche come l’identificazione partitica e l’ideologia con le opinioni sull’immigrazione mostra come l’emozione non operi nel vuoto, ma si intrecci profondamente con l’identità politica. L’identificazione con il Partito Repubblicano, ad esempio, risulta significativamente legata alla percezione che l’immigrazione sottragga posti di lavoro, suggerendo che i sentimenti politici si sovrappongono alle risposte emotive individuali.

Altri fattori demografici — come età, razza ed educazione — contribuiscono anch’essi alla formazione di tali percezioni. L’età mostra una correlazione positiva, suggerendo che gli individui più anziani tendono a percepire maggiormente l’immigrazione come una minaccia occupazionale. L’istruzione invece correla negativamente, segnalando che livelli di educazione più elevati riducono la probabilità di sostenere tale visione.

Questo stesso intreccio tra emozione e retorica è evidente anche nella percezione delle minacce legate alla sicurezza nazionale, in particolare nel contesto delle relazioni USA-Cina. Mentre la retorica trumpiana ha accentuato la Cina come avversario economico, il sondaggio ANES si concentra specificamente sulla percezione della Cina come minaccia militare. Questo scarto tra la narrazione pubblica e l'oggetto del sondaggio è cruciale: se da un lato Trump evocava la Cina come ladra di posti di lavoro e manipolatrice economica, dall’altro il dibattito politico e mediatico non enfatizzava nello stesso modo la minaccia militare, pur suggerendo implicitamente una strategia di contenimento militare ereditata dalla politica estera dell’amministrazione Obama.

La doppiezza del discorso di Trump su Cina e Corea del Nord ne accentua la natura performativa e strategica. Da un lato, si professa “innamorato” della Cina; dall’altro, l’accusa di furto economico e manipolazione valutaria. Contemporaneamente, propone che la Cina debba “gestire” la minaccia nucleare nordcoreana, arrivando persino a evocare l’assassinio di Kim Jong Un. Questo tipo di linguaggio alimenta un clima emotivo polarizzato, dove la percezione della minaccia si costruisce non tanto su analisi razionali quanto su risposte affettive che riflettono la strategia comunicativa del candidato.

Il legame tra emozione e percezione della minaccia si complica ulteriormente quando si considera la ricezione internazionale di tale retorica. Le élite politiche cinesi hanno seguito la campagna con attenzione, consapevoli delle ripercussioni globali che l’elezione di Trump poteva comportare. Nonostante le tensioni esistenti — acuite dalle posizioni di Hillary Clinton sulla Cina in merito ai diritti umani — il governo cinese continuava a vedere nella stabilità della relazione bilaterale un elemento cruciale per l’equilibrio geopolitico asiatico.

Ciò che emerge è un panorama nel quale le emozioni politiche non sono meri epifenomeni, ma forze attive nella costruzione del consenso. La rabbia, la speranza e l’orgoglio — anche quando apparentemente positivi — possono veicolare ideologie esclusive e visioni del mondo strutturate da narrative di minaccia, identità e perdita. La retorica che Trump ha saputo attivare sfrutta questo potenziale emotivo, parlando non solo alla ragione degli elettori, ma alle loro paure, ai loro rancori, al loro senso di appartenenza.

Per comprendere appieno le dinamiche che legano emozione e politica, è essenziale anche analizzare la nozione di “risentimento razziale” (racial resentment) come lente interpretativa delle opinioni sull’immigrazione. Gli studi di Hooghe e Dassonneville (2018) mostrano che il razzismo è un predittore più forte del voto per Trump rispetto all’antipolitica o alla rabbia anti-establishment. La speranza e l’orgoglio che si manifestano nel sostegno a Trump non sono quindi neutri: essi incorporano una visione identitaria dell’America, spesso escludente e definita in opposizione all’“altro” — l’immigrato, lo straniero, il diverso.

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