Nel panorama della politica statunitense, l'uso delle analogie shakespeariane ha assunto un'importanza crescente, soprattutto quando si tratta di figure di spicco come George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump. Questi riferimenti, seppur usati per alleggerire o ironizzare su determinati aspetti, sollevano spesso riflessioni più profonde sulla natura del potere, del destino e della leadership. L'uso di Shakespeare in politica, però, può essere facilmente frainteso o strumentalizzato, come nel caso delle cosiddette "opportunità citazionali" che emergono quando le somiglianze tra i personaggi di Shakespeare e i leader moderni vengono enfatizzate per giustificare o condannare determinate azioni politiche.
Prendendo ad esempio la figura di George W. Bush, si può notare come il suo operato, in particolare durante la guerra in Iraq, sia stato paragonato a quello del re Enrico V, come suggerito da Mackubin Thomas Owens. Quest'analogia suggerisce che Bush, come Enrico V, sarebbe emerso come un leader di guerra capace e determinato dopo un periodo di gioventù meno brillante. Tuttavia, un'analisi più attenta dei testi di Shakespeare, come quella proposta da Scott Newstok e Harry Berger Jr., rivela che il parallelo non è così semplice e che la guerra di Bush non fosse motivata dal desiderio di migliorare l'America, ma piuttosto dalla "colpa dinastica" del padre, George H. W. Bush, che non aveva deposto Saddam Hussein durante la Guerra del Golfo. Shakespeare, infatti, presenta Enrico V come un monarca che intraprende una guerra per motivi politici e dinastici, piuttosto che per il bene del suo popolo, e questo rende il parallelismo con Bush problematico. Per Newstok e Berger, la "lettura attenta" dei testi diventa così un antidoto contro l'uso distorto di Shakespeare come strumento politico.
Tuttavia, non tutte le analogie shakespeariane in politica sono così critiche o strumentalizzate. Nel 2004, Stephen Greenblatt, uno dei maggiori esperti di Shakespeare, ha scritto un editoriale per il New York Times in cui paragonava il dibattito presidenziale tra George W. Bush e John Kerry a una scena di Giulio Cesare. Greenblatt sottolineava come i due candidati, Bush e Kerry, rispecchiassero i ruoli di Marco Antonio e Bruto. Mentre Bush, come Marco Antonio, cercava di mantenere una posizione chiara e determinata, Kerry, come Bruto, esprimeva un messaggio più complesso e contraddittorio, mettendo in discussione la saggezza della guerra ma sostenendo la necessità di vincerla. In questo caso, l'analogia non diventa un espediente per giustificare o denigrare, ma piuttosto uno strumento di riflessione sulla politica contemporanea, utilizzando la grandezza di Shakespeare per illuminare la realtà della politica moderna. Greenblatt, infatti, riesce a fare una lettura approfondita di Shakespeare e, allo stesso tempo, a trasporre la sua comprensione dei testi nel contesto del dibattito politico.
Nel 2008, lo stesso Greenblatt ha partecipato a una satira televisiva nel programma The Colbert Report, dove il conduttore Stephen Colbert ha ironizzato sull'uso delle analogie shakespeariane, in particolare durante le elezioni presidenziali. Colbert, con il suo stile tipicamente esagerato e satirico, ha paragonato John McCain a Macbeth, enfatizzando la sua figura di eroe militare, e Barack Obama ad Amleto, suggerendo che la sua indecisione fosse simile a quella del principe danese. Anche in questo caso, Greenblatt ha accettato il gioco, ma ha utilizzato la sua conoscenza di Shakespeare per mettere in discussione l'analogia, ricordando che Macbeth è un tragico eroe la cui "gloria" si trasforma in rovina. In questa versione dell'analogia, il riferimento a Shakespeare non viene utilizzato per rafforzare una visione politica, ma per sollevare interrogativi sul valore e le implicazioni della leadership e della guerra.
Un altro esempio di come Shakespeare viene usato nelle elezioni politiche si trova nelle elezioni presidenziali del 2016. Un esempio di "opportunismo citazionale" è un articolo di Emily Uecker per il sito McSweeney's, dove i candidati repubblicani vengono paragonati a personaggi shakespeariani. Donald Trump, ad esempio, viene associato alla battuta di La commedia degli errori: “Molti uomini hanno più capelli che saggezza.” In questo contesto, Trump appare come un personaggio grottesco e ironico, piuttosto che come una figura di reale potere o leadership. Altri candidati, come Jeb Bush e Mike Huckabee, vengono paragonati a personaggi shakespeariani con tratti più marcati e definiti, come il desiderio di potere e l'uso della religione per scopi politici. L'uso di queste analogie, però, non è sempre frutto di una lettura attenta dei testi di Shakespeare, ma piuttosto di un'interpretazione superficiale, destinata a stimolare la satira e a semplificare la complessità dei candidati.
In definitiva, l'uso di Shakespeare nella politica contemporanea offre spunti interessanti, ma richiede un'analisi accurata e consapevole. Quando Shakespeare viene citato in modo opportunistico, si rischia di ridurre la ricchezza dei suoi testi a mere etichette politiche. Al contrario, una lettura approfondita e contestualizzata può rivelare affinità sorprendenti tra le tragedie e le lotte politiche moderne, permettendo di comprendere meglio le dinamiche del potere, della guerra e della leadership, non solo nel passato, ma anche nel presente.
Come Shakespeare può spiegare la politica contemporanea
Il legame tra Shakespeare e la politica moderna non è solo un esercizio accademico o una curiosità intellettuale, ma un vero e proprio strumento di comprensione del nostro tempo. La politica, come il teatro elisabettiano, è spesso un dramma, in cui il potere, le ambizioni personali, le lotte interne e la manipolazione delle masse si intrecciano in un copione complesso. Nella politica contemporanea, i riferimenti a Shakespeare sono diventati una lente attraverso la quale analizzare le figure politiche più rilevanti, in particolare nei momenti di crisi o di grande cambiamento.
Durante le elezioni presidenziali americane del 2016, ad esempio, molti commentatori hanno cercato di interpretare Donald Trump attraverso le categorie drammatiche shakespeariane. Alcuni lo hanno visto come il moderno Riccardo III, un personaggio astuto e spietato che manipola le circostanze per salire al potere. Altri, invece, hanno paragonato Trump a figure tragiche come Macbeth, un uomo che si fa travolgere dalla sua stessa ambizione e dal desiderio di mantenere il controllo, anche a costo della propria umanità. Shakespeare, con le sue opere piene di ambiguità morali e personaggi sfaccettati, offre il linguaggio perfetto per descrivere i leader che si muovono tra il fascino carismatico e la disperazione interiore, in lotta con il proprio destino.
Il modo in cui Trump e altri politici hanno utilizzato il linguaggio, le promesse e le immagini si riflette nei giochi di potere shakespeariani. Le sue tragedie sono piene di uomini che, pur essendo consapevoli dei loro limiti e dei pericoli del potere, si spingono comunque verso l'irrevocabile. Come nel caso del Macbeth, dove l'ambizione e il desiderio di controllo su tutto e tutti portano alla distruzione, le figure politiche moderne non possono fare a meno di una certa visione fatalista. In altre parole, come i protagonisti delle tragedie di Shakespeare, essi sono intrappolati in una rete di cause ed effetti che sfuggono al loro controllo, e che non possono fermare, anche quando si rendono conto della loro ineluttabilità.
Inoltre, Shakespeare offre una comprensione profonda delle dinamiche di potere, non solo tra i governanti e i governati, ma anche tra le varie fazioni all'interno di un governo. Le sue opere, come "Giulio Cesare" e "Enrico IV", mostrano come la lotta per il potere non è mai una questione di mero dominio, ma di alleanze, tradimenti, inganni e manipolazione delle masse. Il dibattito pubblico, nel suo senso più profondo, è un’arena in cui i protagonisti devono non solo affrontare i propri avversari diretti, ma anche fare i conti con le proprie ambiguità morali e personali. Le elezioni e le campagne politiche contemporanee non sono quindi semplici battaglie tra ideologie opposte, ma rappresentano una continua lotta per il cuore e la mente della gente.
Nel contesto di un'epoca di polarizzazione politica, le analogie shakespeariane non sono mai state così pertinenti. La divisione tra fazioni in conflitto è uno dei temi ricorrenti nelle sue opere. Pensiamo al "Riccardo II", dove la lotta per la successione al trono genera violenza e fratture irrimediabili, oppure a "La tempesta", dove l’isolamento e la vendetta sono forze che plasmano la narrazione. Le opere di Shakespeare, infatti, mostrano quanto sia fragile e volatile il consenso popolare, come le alleanze politiche possano essere facilmente infrante e come la verità possa essere manipolata per fini personali. Queste dinamiche sono ancora oggi visibili, sia nelle campagne elettorali che nei governi che ne derivano.
Ma cosa possiamo imparare da tutto ciò? In primo luogo, che la politica è un gioco di interpretazioni e illusioni, dove la verità è spesso una costruzione più che una realtà. Le figure politiche di oggi, come quelle di Shakespeare, sono costantemente impegnate in un dramma pubblico, dove la realtà è messa in scena, manipolata e reinterpretata. La politica è fatta di personaggi che, come in una tragedia, sono soggetti ai loro desideri e paure, e che spesso si trovano a recitare ruoli che li trascendono.
Infine, un altro aspetto fondamentale è che il potere non è mai stabile. Come nelle opere shakespeariane, il trono è sempre vacillante e la fine del potere è spesso segnata da una discesa verso la rovina, sia personale che collettiva. Ciò che Shakespeare ci insegna è che il potere è tanto più fragile quanto più si cerca di consolidarlo con mezzi spietati, manipolatori o ingannevoli. Le figure politiche che cercano di incatenare il popolo alla loro visione del mondo finiscono, come i protagonisti delle tragedie elisabettiane, per distruggersi da sole, travolte dal peso delle proprie azioni e delle loro contraddizioni interne.
La visione mitologica di Bannon: una lotta epocale tra civiltà e religioni
Fin dai suoi primi anni, Steve Bannon ha sviluppato una visione del mondo intrisa di conflitti religiosi e razziali, una narrazione che avrebbe influenzato in modo determinante la sua carriera e la sua visione politica. Un compagno di classe ricorda come Bannon fosse stato educato con l'idea che "i musulmani avrebbero potuto conquistare il mondo, ma i cattolici li hanno sconfitti in Spagna cinquecento anni fa." Questa concezione storica, mitizzata e intrisa di conflitti, avrebbe costituito la base del suo pensiero e si sarebbe riflessa, negli anni, nelle sue scelte politiche e ideologiche.
L'idea che la civiltà occidentale debba essere difesa "costantemente e vigile" contro nemici indefiniti e mutanti è il nucleo del pensiero di Bannon, come spiegato da Joshua Green, che ha approfondito la sua biografia. Questa concezione del mondo, che Bannon avrebbe sviluppato ulteriormente durante il suo servizio nella Marina degli Stati Uniti e nel corso dei suoi studi, riflette una visione del mondo divisa nettamente in due: il bene incarnato dalla civiltà giudeo-cristiana e il male rappresentato dai suoi nemici. Un conflitto che sarebbe proseguito nei decenni successivi, trasformandosi in un’ossessione per la difesa delle radici culturali occidentali contro l'invasione dell'esterno.
Nel suo tempo nella Marina, Bannon si dedicò a un’"analisi sistematica delle religioni del mondo", approfondendo dal misticismo cristiano alla metafisica buddhista. Tuttavia, è la filosofia del tradizionalismo di René Guénon che avrebbe attratto maggiormente la sua attenzione. Guénon, noto per le sue critiche alla modernità secolare, sosteneva che le verità spirituali universali delle religioni antiche venissero oscurate dalla decadenza del mondo moderno. La concezione del Kali Yuga, l’età oscura dell’umanità, si inseriva perfettamente in questa visione apocalittica che Bannon avrebbe rielaborato a suo modo, rispecchiando le sue convinzioni più radicali.
La sua visione della storia, infatti, è fortemente influenzata dalla convinzione che ogni evento e ogni esperienza sia parte di un conflitto epocale, spesso metaforico e mitologicamente caricato. Da banchiere d'investimento a produttore cinematografico, Bannon si è sempre visto come parte di una narrazione storica di grande portata. Quando iniziò a lavorare nell'industria cinematografica, dichiarò che l'agenzia che stava fondando era "l'inizio di una rivoluzione". Ogni sua mossa, ogni sua scelta sembrava essere motivata da un’immagine grandiosa di sé come protagonista di una battaglia storica che definiva il destino del mondo.
In seguito, l'11 settembre 2001 segnò un punto di svolta decisivo nel suo pensiero. L'attacco alle Torri Gemelle e il conflitto con il terrorismo islamico fecero sì che Bannon vedesse il mondo come un palcoscenico per una lotta continua tra il "bene" della civiltà occidentale e il "male" della minaccia islamica. Fu questo contesto che lo portò a realizzare documentari come "Reagan: In the Face of Evil" (2004), in cui il presidente Ronald Reagan viene ritratto come l’eroe che combatte contro una coalizione di forze maligne, dal bolscevismo al fascismo.
Oltre alla sua ossessione per il conflitto globale, Bannon ha identificato altre battaglie culturali che definiscono la sua visione del mondo. La migrazione, ad esempio, viene da lui vista come una "guerra civile" in corso, con il "jihad civilizzazionale" incarnato dalla crisi dei rifugiati. La sua retorica bellica si è poi estesa alla politica interna degli Stati Uniti, dove Bannon ha definito la sua missione come una "guerra culturale" contro l'establishment repubblicano, facendo dichiarazioni bellicose come "Vado alla guerra per Trump."
La visione mitologica e la costante ricerca di conflitti epocali hanno fatto di Bannon un personaggio dalle convinzioni fortemente polarizzanti. La sua concezione della storia, in cui ogni evento è una manifestazione di una lotta universale, ha fortemente influenzato il suo approccio alla politica e alle relazioni internazionali. Per Bannon, ogni battaglia, grande o piccola, si inserisce in un contesto più vasto di scontro tra civiltà, e questo lo ha portato ad adottare un approccio quasi messianico nel suo coinvolgimento politico.
La sua capacità di vedere il mondo come una saga continua di battaglie tra il bene e il male non solo lo ha spinto ad abbracciare le teorie più oscure e mitologiche della storia, ma ha anche plasmato la sua strategia politica e culturale, dove ogni sfida viene affrontata come parte di un conflitto esistenziale e primordiale. Questo lo ha reso una figura chiave nel panorama politico contemporaneo, non solo negli Stati Uniti, ma anche a livello globale.
Quando si considera la figura di Bannon, è importante comprendere che non si tratta solo di un politico o di un ideologo, ma di un uomo che ha costruito la propria identità e la propria carriera attorno a una visione mitologica e conflittuale della storia. Ogni sua mossa politica è carica di questa dimensione, e la sua retorica non è solo quella di un semplice attore politico, ma di un combattente in una guerra eterna tra civiltà. È un modo di vedere il mondo che rispecchia una concezione del potere e della politica come battaglie continue, in cui ogni vittoria o sconfitta segna un passo in un conflitto che va oltre la semplice politica quotidiana.

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