La narrazione politica è una delle forme più persuasive di comunicazione con l'elettorato. Ciò che risulta più inquietante è che funziona anche quando la storia raccontata non è affatto vera. Questo paradosso rivela uno degli aspetti più inquietanti della politica moderna: l'abilità di costruire racconti che, pur essendo lontani dalla realtà, riescono a conquistare il consenso delle masse. È ciò che Philip Seargeant esplora nel suo libro The Art of Political Storytelling, che ci offre uno spunto per riflettere sul nostro presente, segnato da eventi che, come nel 2020, hanno scosso profondamente le fondamenta della nostra realtà.

Nel contesto attuale, le storie politiche non si limitano a informare o a spiegare i fatti, ma servono come strumenti potenti per manipolare le percezioni. Politici di tutto il mondo utilizzano narrazioni coinvolgenti, che spesso si avvalgono di tecniche narrative proprie dei film di Hollywood o dei romanzi popolari. Questa fusione tra politica e intrattenimento non è un fenomeno recente, ma ha raggiunto un punto di svolta con l'emergere delle cosiddette "verità alternative", la proliferazione delle teorie del complotto e la crisi di autorità che attraversa le istituzioni tradizionali.

Seargeant descrive con acume come i leader politici abbiano assimilato e perfezionato l'arte della narrazione, utilizzandola per costruire le proprie identità e per giustificare azioni che, in molti casi, non troverebbero legittimazione attraverso fatti concreti o dati oggettivi. Le storie politiche sono diventate un terreno fertile per l'uso di emozioni forti, come la paura e la speranza, che permettono di consolidare un consenso che altrimenti sarebbe difficile ottenere con argomentazioni logiche e razionali. La politica, quindi, si è trasformata in un campo in cui la percezione e l'emozione prevalgono sulla realtà verificabile.

Un elemento fondamentale delle storie politiche è la loro capacità di costruire nemici chiari e definiti. Il nemico, che rappresenta il male assoluto, diventa la personificazione di tutto ciò che è ingiusto, corrotto o minaccioso per il benessere del popolo. Questa figura è spesso esagerata, demonizzata, e dipinta in termini che escludono ogni sfumatura di complessità. Il "buono" della storia politica è colui che si erge contro tale nemico, e la sua missione diventa quella di proteggere l'innocente popolazione da una catastrofe imminente. Si tratta di un'operazione di semplificazione che riduce la realtà a un conflitto manicheo, dove non esistono grigi, solo bianco e nero.

Questa narrativa non si limita solo ai discorsi dei politici. I media, soprattutto quelli digitali, hanno un ruolo fondamentale nel perpetuare e amplificare queste storie. I social network, con la loro struttura algoritmica, favoriscono la diffusione di contenuti che alimentano il conflitto e la polarizzazione. Le notizie che suscitano emozioni forti, come rabbia o paura, sono quelle che più facilmente trovano spazio nelle timeline dei cittadini, mentre le informazioni basate su dati oggettivi spesso passano inosservate. Questo fenomeno non fa che rafforzare l'idea che la politica sia una battaglia di racconti, e non di fatti.

Le storie politiche moderne sfruttano anche un linguaggio che sfida la verità stessa. Parole come "post-verità" e "fatti alternativi" hanno guadagnato popolarità, rivelando la crescente difficoltà di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è raccontato. In un mondo in cui le informazioni sono costantemente manipolate e reinterpretate, la verità appare fluida e soggettiva, e la capacità di raccontare storie coinvolgenti diventa un'arma potentissima. La verità, in questo contesto, non è tanto ciò che è verificabile, ma ciò che è credibile e che risuona con le emozioni del pubblico.

Un altro aspetto cruciale che emerge in questa dinamica è l'adozione di narrazioni che si fondano su esperienze individuali, che vengono elevate a simboli di una lotta collettiva. Politici come Donald Trump, Jair Bolsonaro e Viktor Orbán hanno fatto uso di storie che rispecchiano il vissuto di una parte significativa della popolazione, alimentando la sensazione che siano i soli a comprendere le vere esigenze della gente comune. Questo tipo di narrazione è particolarmente potente perché non si basa sulla logica o sui fatti, ma sulle emozioni di chi si sente escluso, tradito o minacciato dal sistema.

Nel quadro di una politica sempre più dipendente dalla narrazione, l'importanza di comprendere i meccanismi sottostanti diventa cruciale. Le storie politiche non sono semplici racconti, ma strumenti di potere che plasmano la nostra visione del mondo e la nostra comprensione di chi siamo come società. La narrazione è diventata una chiave per interpretare e influenzare la realtà stessa.

Riflettere su come le storie vengano costruite e su come esse influenzino le nostre decisioni è essenziale per recuperare il controllo del nostro destino. La consapevolezza di essere soggetti a queste narrazioni ci dà la possibilità di comprendere meglio le dinamiche politiche in atto e, forse, di raccontare storie alternative, che possano riaccendere il dibattito pubblico sulla verità, sull'inclusività e sulla giustizia.

L'élite nel discorso politico contemporaneo: tra significati e manipolazioni

Nel contesto della politica contemporanea, il termine "élite" è oggetto di un continuo dibattito e di interpretazioni contrastanti, a seconda della prospettiva ideologica di chi lo usa. La parola, che nel suo significato originario risale al XII secolo francese "elire", ovvero "scegliere" o "eleggere", ha subito una trasformazione nel corso dei secoli, fino a diventare un indicatore di un piccolo gruppo di persone che detiene una quantità sproporzionata di ricchezza, potere o influenza all'interno della società. Un aspetto ironico, come osservato da Raymond Williams, è che le radici storiche della parola si riferivano a coloro che venivano "eletti" a un ruolo, un concetto che sembra in contrasto con l'uso moderno del termine, che spesso porta con sé una connotazione negativa di esclusività e privilegi.

Nel discorso politico attuale, il termine "élite" assume significati diversi a seconda dell'orientamento politico. Per i populisti di sinistra, l'élite è rappresentata da coloro che detengono il potere economico e politico: banchieri, baroni dei media, lobbisti aziendali, la maggior parte dei quali sono nati in posizioni di privilegio e influenza. Per i populisti di destra, invece, l'élite è costituita da coloro che operano nel mondo della cultura e delle industrie intellettuali: attori, registi, giornalisti e accademici, figure spesso accusate di voler imporre una visione progressista e di erodere i valori tradizionali della società. In entrambi i casi, però, la nozione di "élite" si riferisce a individui che, grazie alla loro posizione, esercitano un'influenza sproporzionata sul corso degli eventi sociali e politici.

Il contrasto tra queste due visioni ideologiche diventa evidente anche in una pubblicità apparsa sul Times nell'ottobre 2018, durante la campagna per un secondo referendum sulla Brexit. Nella pubblicità, le parole "People’s Vote" venivano barrate con una linea rossa, sostituite dalla scritta "Losers’ Vote", e veniva definita la campagna come una truffa promossa da "loser elitists" che non riuscivano ad accettare i risultati della democrazia. La campagna suscitò reazioni contrastanti sui social media, con alcuni che la criticavano e altri che la sostenevano. Un gruppo contrario a Brexit, "NHS Against Brexit", si chiese ironicamente: "Quando infermieri, dentisti, paramedici e altri professionisti sono diventati parte dell’élite?" Questo esempio illustra come, nel contesto della politica populista, il termine "élite" possa essere esteso a qualsiasi gruppo che rappresenti l'establishment o che si percepisca come distante dal "popolo".

Secondo William Davies, l’élite nella visione populista non è semplicemente chi detiene ricchezza o potere, ma chi rappresenta un’istituzione autoritaria che pretende di dettare cosa sia giusto o sbagliato per la maggioranza della popolazione. Si tratta di una concezione dell’élite come classe detentrice del sapere, capace di influenzare le opinioni pubbliche senza essere eletta direttamente dal popolo. Tale visione si è radicata nel linguaggio politico populista, dove l'élite viene spesso demonizzata non tanto per la sua ricchezza, quanto per il suo potere di decidere in nome di una presunta "superiorità intellettuale" o morale.

In questo quadro, la parola "élite" diventa una specie di mostro che si nasconde dietro ogni angolo, pronto a minacciare la volontà del popolo. Tuttavia, questo utilizzo del termine spesso sfuma in una pura retorica, meno interessata a un dialogo politico serio e più focalizzata sulla delegittimazione dell'avversario. L'uso di "élite" nelle campagne populiste non è solo un tentativo di etichettare il nemico, ma anche un modo per radunare il sostegno popolare attraverso la creazione di un nemico comune.

Un altro concetto centrale nelle narrazioni populiste è quello della "volontà del popolo", il cui portavoce è il leader populista. Quest'ultimo si presenta come il canale attraverso cui questa volontà viene espressa e realizzata. Il populismo si fonda sulla promessa di dare voce agli "invisibili", a coloro che sono marginalizzati dai tradizionali meccanismi politici e sociali. Donald Trump, ad esempio, ha costruito una parte significativa della sua retorica sulla promessa di essere "la voce di chi non ha più voce". Promesse simili sono state fatte da Marine Le Pen in Francia, la quale ha cercato di attirare il voto giovanile dichiarando che sarebbe stata "la voce dei senza voce".

Tuttavia, il concetto di "dare voce" non è privo di ambiguità e può essere manipolato per fini politici. Nel caso di Trump, la sua iniziativa "VOICE" (Victims of Immigration Crime Engagement) si proponeva di dare voce alle vittime di crimini legati all'immigrazione, ma in realtà finiva per stigmatizzare ulteriormente le comunità migranti, associando l’immigrazione alla criminalità, nonostante le evidenze statistiche dimostrassero il contrario. L’uso di questa retorica non è mai neutrale: si inserisce all’interno di un discorso che vuole distinguere nettamente tra un popolo "puro" e un’élite corrotta, di cui i migranti diventano un simbolo. La volontà del popolo, in questa visione, non è tanto quella di promuovere l’uguaglianza o di dar voce a chi è emarginato, quanto quella di escludere chi non si adatta alla visione populista della società.

È essenziale comprendere che il concetto di "élite" oggi è utilizzato non solo come strumento di divisione politica, ma anche come un modo per giustificare politiche che alimentano paure e divisioni sociali. In un’epoca in cui le retoriche populiste sono sempre più diffuse, il termine "élite" non è solo un segno di differenza tra chi detiene potere e chi ne è privo, ma anche un modo per costruire narrative politiche che, più che risolvere le disuguaglianze, le sfruttano per ottenere consenso. La sfida per il futuro, dunque, sarà quella di smantellare questi discorsi divisivi e di promuovere una politica che non usi le categorie dell’élite per demonizzare, ma che piuttosto si concentri su una reale inclusione e partecipazione democratica.

Il Ruolo della Narrazione Politica: Come i Media Forgiano la Storia Elettorale

Durante le elezioni presidenziali del 2016, i media hanno continuamente speculato su quello che è stato definito il cosiddetto "pivot". Come sottolineano gli antropologi linguistici Michael Lempert e Michael Silverstein, spesso i media trattano la campagna elettorale di un candidato come una storia di sviluppo e crescita personale, in cui gli incidenti che si verificano durante la campagna sono presentati come sfide che mettono alla prova il candidato, offrendogli l'opportunità di rivelare il suo vero carattere. Nel caso della campagna di Trump, questa speculazione si è tradotta in una costante attesa di questo mitico “pivot”: il momento in cui Trump avrebbe finalmente compreso la gravità della responsabilità presidenziale e come sarebbe cambiato sotto l'influenza dell'ufficio per cui stava correndo.

Le rivelazioni di Access Hollywood hanno rappresentato l'opportunità perfetta per questo cambiamento. La trama avrebbe dovuto seguire un punto di svolta emotivo ed esistenziale, per poi arrivare a una redenzione e a un rinnovato senso di consapevolezza di sé. Questa era, almeno, la direzione narrativa che la maggior parte dei media sembrava inconsciamente imporre agli eventi. Dopo intense critiche, Trump ha emesso una vaga scusa, ma poi ha immediatamente ripreso l'offensiva. Ha rifiutato ostinatamente di ritirarsi dalla corsa, non riconoscendo alcuna colpa nel comportamento mostrato nel video. Invece, ha ribaltato l'attacco, cominciando a mirare alla storia di infedeltà di Bill Clinton. In altre parole, Trump è rimasto fedele al personaggio che aveva costruito per sé stesso, utilizzando quell'incidente come un'opportunità per rafforzare ulteriormente la sua credibilità di outsider sfrontato e non conformista. Ha rifiutato l'opportunità di subire qualsiasi tipo di cambiamento, sostenendo invece che fossero le aspettative legate all'ufficio presidenziale a dover cambiare.

Secondo Lempert e Silverstein, questi "momenti definitori" sono, ovviamente, nel “occhio di chi guarda”. Essi vengono creati tanto quanto raccontati dai giornalisti che coprono l'elezione, e spesso solo in retrospettiva diventa chiara la loro importanza per lo sviluppo della trama. Ma questo episodio, almeno nel modo in cui è stato riportato, ha ulteriormente rafforzato una narrazione di non conformista outsider contro la politica tradizionale rappresentata dal marchio Clinton.

Il culmine della storia di Trump è il risultato stesso delle elezioni. Il formato di una elezione presidenziale è un confronto semplice tra due forze opposte, ed è quindi il punto culminante di una narrazione già pronto. Sappiamo fin dall'inizio che questo evento fornirà il dramma culminante, e così tutti gli eventi e le azioni che si verificano lungo il cammino sono orientati in quella direzione. Ma, ancora una volta, è solo in retrospettiva, con la vittoria di Trump, che questi eventi acquisiscono il loro vero significato. Se non avesse vinto, le interpretazioni delle sue azioni avrebbero dovuto essere rilette in una chiave completamente diversa, generando una storia completamente diversa. In ogni caso, il risultato ha configurato una risoluzione che lo ha visto come uno degli sconvolgimenti storici più grandi, un episodio di significato storico che ha prodotto un cambiamento sismico nell'ordine politico consolidato.

Ovviamente, la storia di Trump, almeno questa versione di essa, non è come quella di Amleto. È più simile alla struttura narrativa di un film d'azione che a qualcosa di realmente profondo o complesso. Nel buon dramma, il protagonista intraprende un viaggio di autoscoperta per scoprire chi è veramente. Come abbiamo visto, in questa narrazione non c'è segno di un percorso interiore. Ma l'impegno emotivo a fini politici è diverso dal dramma teatrale. O almeno, segue uno schema molto semplificato.

Un esempio interessante di come le opere di George Orwell siano state utilizzate a fini politici riguarda il loro impiego da parte del governo degli Stati Uniti come propaganda anti-comunista. Sia "La fattoria degli animali" che "1984" sono stati adattati in film finanziati dalle agenzie di intelligence americane negli anni '50. Per ottimizzare la loro efficacia come allegorie anti-sovietiche, in entrambi i casi, i finali delle storie furono modificati. Nel finale originale di "La fattoria degli animali", gli animali guardano da un lato i maiali, che hanno preso il posto dei leader tirannici, e dall'altro gli esseri umani, trovando impossibile distinguere i due. L'unica cosa che la rivoluzione è riuscita a fare è sostituire il dominio autocratico di un gruppo con quello di un altro. Nel film d'animazione del 1954, tuttavia, gli esseri umani furono completamente eliminati dalla storia, trasformando il racconto in una semplice parabola sui mali del comunismo.

Un cambiamento simile fu fatto nel film del 1956 di "1984", in cui Winston Smith, il protagonista, inizialmente sottomesso all'ideologia dello stato, alla fine viene trasformato in un martire rivoluzionario. La sua morte, invece di concludere in un accettazione del regime, diventa un atto di resistenza.

Nel suo memoir su Hollywood, lo sceneggiatore William Goldman usa la metafora di un filo senza fine per descrivere gli eventi della vita. Quello che lo scrittore fa nel trasformare questa vita in una storia è scegliere due punti in cui tagliare quel filo: l'inizio e, soprattutto, la fine. La scelta di come finire una storia determina quasi tutto del tipo di storia che si sta raccontando. Christopher Booker, nel suo libro "Seven Basic Plots", fa un'osservazione simile. Nonostante sembri ovvio, il fatto che le storie abbiano una conclusione felice o infelice è "la cosa più importante da osservare". Le storie portano a una sensazione di soddisfazione o di frustrazione, di realizzazione o di disincanto. In definire cos’è una narrazione drammatica, un componente fondamentale è che essa ha sempre una fine. Questo è importante perché la fine influenza sia la struttura della storia, sia la maniera in cui il pubblico la interpreta. Se una storia si sviluppa verso una fine che appare inevitabile, è perché spesso si basa su strutture archetipiche.

In riferimento all'elezione presidenziale del 2016, i media hanno configurato lo scenario in modo tale che l'unica conclusione davvero soddisfacente sarebbe stata una vittoria per Trump. Questo è un esempio lampante di come la narrazione politica si sviluppi in modo tale da preparare il pubblico a una certa interpretazione degli eventi, che in questo caso si è concretizzata nella sua sorprendente vittoria.

L'inganno della "Fake Reality" nella Politica e nei Media

Negli ultimi anni, il termine "astroturfing" è emerso con crescente frequenza nel dibattito politico, indicandosi una pratica che mira a creare l'illusione di un supporto popolare genuino per una causa o un personaggio. Si tratta di una tecnica subdola, che sfrutta il coinvolgimento di persone pagate per recitare il ruolo di cittadini attivi e motivati, con lo scopo di far sembrare un movimento o una campagna come se fosse sostenuto da una base di massa spontanea. Questo è esattamente ciò che avvenne durante uno degli eventi di Donald Trump, quando la società di casting di New York, Extra Mile Casting, cercò attori disposti a partecipare a un comizio di Trump come semplici membri della folla, pronti a indossare magliette e agitare cartelli per supportare il candidato.

Astroturfing non è limitato alla politica, ma trova applicazione in vari contesti pubblicitari e di lobbying. A differenza delle campagne che pagano professionisti per servizi come sondaggi o assistenza sui social media, l'astroturfing crea un inganno che si fonda sulla falsità della partecipazione. I partecipanti, infatti, non sono vere persone coinvolte spontaneamente, ma attori che recitano una parte, aumentando l'apparenza di un consenso che, in realtà, non esiste.

Il giornalista Al Tompkins ha descritto un esempio perfetto di come questa strategia venga messa in atto. Nel 2018, a New Orleans, attori pagati vennero utilizzati per destabilizzare una votazione del consiglio cittadino sulla questione dell'energia sostenibile. I "protestanti" vennero pagati per manifestare apprezzamento quando qualcuno criticava le politiche energetiche verdi, cercando così di simulare un'opposizione diffusa e convincere i consiglieri che una forte resistenza popolare si stava organizzando contro il cambiamento. La manipolazione delle masse attraverso tali tecniche non è eticamente discutibile soltanto perché i protagonisti del teatrino non sono chi dicono di essere, ma perché questi eventi inquinano la capacità di discernere tra una vera partecipazione e una finzione orchestrata.

La crescente sfiducia nelle notizie è il frutto di una cultura sospettosa, dove le persone sono sempre più inclini a credere che quello che vedono sui media sia il risultato di manipolazioni dietro le quinte. Nel 2018, un episodio ha suscitato scalpore quando una donna che partecipava al programma della BBC Newsnight come "voce di cittadini" è stata smascherata come attrice, un dettaglio che ha alimentato la teoria che la sua apparizione fosse parte di una cospirazione mediatica di destra. Sebbene questa notizia sia stata in gran parte ignorata, ha suscitato una serie di riflessioni sulla veridicità di ciò che viene presentato come realtà.

Il fenomeno dell'astroturfing si è poi esteso a un ambito ancora più inquietante: quello delle vittime di tragedie. Durante la strage di Sandy Hook del 2012, alcune teorie del complotto hanno suggerito che le vittime fossero "attori di crisi", cioè persone pagate per interpretare i familiari delle vittime di un finto attacco. Queste teorie hanno avuto radici in un comunicato di una scuola di recitazione, Visionbox, che nel 2012 aveva annunciato l'assunzione di attori per simulare situazioni di crisi come attacchi di fucili automatici o incidenti in centri commerciali. Pochi mesi dopo, la tragedia di Sandy Hook fornì ai teorici del complotto la "prova" che la strage fosse una messa in scena. Utilizzando frammenti di filmati e cercando discrepanze nelle notizie, costoro hanno creato un racconto alternativo dove i parenti delle vittime erano attori addestrati a recitare il loro dolore.

Un nome che spicca tra coloro che hanno promosso queste teorie è quello di Alex Jones, un noto conduttore radiofonico. Jones, durante il suo programma, ha ripetutamente affermato che l'intervista con la madre della vittima più giovane, Veronique De La Rosa, era stata registrata in uno studio davanti a uno schermo verde, e non in una sala cittadina come affermato. Su queste e altre "prove", Jones ha costruito la sua narrazione, che è stata largamente diffusa attraverso i social media. La sua affermazione che l'intera tragedia fosse finta ha causato danni emotivi enormi alle famiglie delle vittime, che lo hanno citato in giudizio. In un'ironia beffarda, però, durante una causa legale separata, il suo avvocato ha cercato di difenderlo dicendo che Jones non è un giornalista tradizionale, ma un "artista della performance", un personaggio destinato a intrattenere il suo pubblico con narrative scandalistiche e provocatorie. In sostanza, la sua attività sarebbe paragonabile a quella di un attore che interpreta un ruolo.

Questa evoluzione della figura del giornalista e del comunicatore verso il confine tra intrattenimento e informazione rappresenta un segno dei tempi. Mentre la finzione nei fumetti crea scenari irreali per il puro scopo di intrattenere, nel caso di Jones e dei suoi colleghi, la manipolazione della realtà si fa strumento di indottrinamento e di polarizzazione sociale. In questo contesto, l'illusione di una realtà costruita artatamente diventa tanto potente quanto pericolosa, distorcendo la verità e influenzando l'opinione pubblica in modo insidioso.

Il pubblico di oggi è sempre più incline a mettere in discussione la veridicità di ciò che vede, e questa crescente sfiducia nei media tradizionali non è senza conseguenze. La difficoltà di distinguere tra verità e finzione, tra informazione e spettacolo, rischia di indebolire la nostra capacità di comprendere e reagire in modo critico alle notizie che ci vengono presentate. Non si tratta più solo di un fenomeno limitato a politiche di marketing o propaganda elettorale, ma di un'inquietante tendenza che rischia di ridefinire la nostra stessa comprensione del mondo e della realtà.