Nel silenzio crepuscolare del santuario, il vecchio Ixtlil predisse la rovina della sua civiltà e preparò tutto per il giorno della necessità. La voce che un tempo guidava i riti del Sole e della Luna divenne quella del commiato. Con gesti solenni e simboli tracciati sulla fronte e sul petto di Tekala, egli la benedisse, infondendo in lei il potere degli Antichi e la sapienza arcana della stirpe reale di Atlantan. Il suo comando fu irrevocabile: fuggire, attraversare il tunnel nascosto, attendere le stelle e seguire la luce della salvezza.

Tekala obbedì, sebbene il suo cuore desiderasse rimanere e morire tra le rovine del tempio. Portava con sé pochi doni — un unguento capace di guarire ogni ferita, un vino che poteva restituire la vita, e un bracciale pallido, più chiaro del gesso, che diveniva gelido in presenza del nemico e caldo nell’ombra della sicurezza. Quel bracciale fu la sua guida: ogni volta che smarriva la via, un brivido le correva sul braccio, costringendola a ritrovare la direzione che le stelle avevano tracciato.

Nei primi giorni di cammino, Tekala non conosceva ancora la disciplina del deserto. Viaggiava sotto il sole bruciante, ignorando la fatica del corpo e la sete che divorava le vene. Ma ben presto imparò a riposare di giorno e muoversi di notte, ascoltando il respiro del vento e leggendo i segni che il cielo le concedeva. Lì, nella solitudine di Korgan, la sacerdotessa cominciò a comprendere il dono di Ixtlil. La sua benedizione non era solo protezione spirituale: era una trasmissione di forza, di magia e di conoscenza che si accendeva in lei come una nuova stella.

Le visioni arrivarono come ricordi. Vide il grande Santuario devastato, l’emblema d’oro del Signore Sole infranto e lordato di sangue, le sue sorelle giacere nude e straziate, le preghiere perdute nel silenzio della morte. Vide Ixtlil, incatenato nel buio del tempio di Mictla, ma non sconfitto. Le sue labbra si muovevano ancora, come se percepisse la presenza lontana della sua discepola: “Tekala, piccola sorella, tu non dimentichi.” Non era prigioniero, ma servitore delle divinità eterne, attesa viva della loro giustizia.

Quando l’oscurità si fece più profonda e i nemici la inseguivano, il bracciale tornò a brillare tiepido. E un suono misterioso si levò dal vento: un lamento che divenne promessa, un’eco che la guidò verso un’ombra immensa, una figura femminile seduta, colossale e silenziosa. Non era statua né pietra, ma simbolo. Il volto della Dea Madre dei tempi remoti, riflesso nel deserto per ricordare alla fuggitiva che il sangue reale non è mai abbandonato, e che la stirpe del Sole non perisce, ma si nasconde per rinascere.

Nel suo cuore, Tekala comprese che la distruzione di Atlantan non era la fine, ma la purificazione necessaria per il ritorno dell’ordine antico. Che i distruttori stessi sarebbero stati richiamati davanti all’ira delle Potenze Eterne. Il dolore, la solitudine, la fede cieca nella direzione di una stella — tutto era parte del rito di passaggio.

È importante capire che la storia di Tekala non è soltanto un racconto di fuga o di sopravvivenza. È la rappresentazione simbolica del rapporto tra l’uomo e il divino, del ciclo ineluttabile di caduta e rinascita delle civiltà. Ogni dono che le fu affidato — l’unguento, il vino, il bracciale — non è solo strumento magico, ma archetipo della rigenerazione spirituale, della memoria del sacro che ogni anima porta in sé. Tekala diventa così l’allegoria della fede che resiste anche quando tutto ciò che è umano sembra dissolversi, il ponte fra la rovina e la redenzione.

Quale fu il destino di Atlantan? La fine di un mondo

Nel cuore della città di Kalkan, tra le rovine del tempio di Mictla, si svolgeva una cerimonia di orribile potenza. Un sacrificio. La scena si stagliava con una lucidità che non lascia spazio a dubbi: l'altare, i devoti, il sacerdote Tizoq, il suo gesto, la lama scintillante in mano. Era la fine di una civiltà, ma anche l'inizio di un'agonia tanto profonda quanto inevitabile.

Il tempio, con la sua ombra gigantesca, era un luogo di potere e di terrore. Sotto l'effigie del dio demone Mictla, metà uomo e metà gufo, Tizoq compiva un rito antico, destinato a segnare non solo la fine del sacerdote Ixtlil, ma di un'intera nazione. La sua ascesa sulla scena, con il cuore umano ancora caldo e pulsante nelle sue mani, non era solo un atto di sacrificio; era la manifestazione tangibile della violenza divina, la punizione per l’odio e l’arroganza che avevano pervaso la civiltà di Atlantan.

Il colpo che infranse l’antico cuore della Vecchia Donna di Pietra, simbolo della terra e dei suoi segreti, non fu un gesto casuale. Fu un atto di liberazione, ma anche di distruzione. La terra di Atlantan non avrebbe più visto il sole; le sue città, le sue case, i suoi fiumi, le sue miniere, tutto crollò sotto il peso del peccato che ora affondava nel cuore della terra. Le acque divoravano la terra, incendi rovesciavano il cielo, e il fuoco delle terre un tempo fertili ora sprigionava fiamme incandescenti. Atlantan, la grande nazione, fu spazzata via, inghiottita dalle onde del caos, da un evento che avrebbe lasciato cicatrici indelebili nella memoria del mondo.

La fine di Atlantan non è solo un racconto di distruzione fisica, ma un simbolo della fragilità delle civiltà e della corruzione che spesso le accompagna. Non basta un singolo atto, per quanto potente, a distruggere un impero: ci vuole l’odio accumulato nel corso dei secoli, la violenza che si insinua nelle fondamenta di un mondo un tempo prospero. La gente di Atlantan, che un tempo camminava su strade lastricate di oro, ora giaceva sotto il peso delle loro stesse azioni, schiacciata dal dio che avevano adorato e temuto.

Gli acolyti, i servi del male, tremavano non tanto per il potere di Tizoq, quanto per la forza di uno spirito che, pur legato, manteneva una dignità che sembrava oltre la comprensione umana. La sua innocenza non era per sé stesso, ma per l’intero mondo, e questo incuteva paura. La sua stessa presenza, calda e serena, riusciva a tenere a bada anche le forze più malvagie. Un uomo che, pur legato e vicino alla morte, emanava una forza che non solo trascendeva la sua condizione fisica, ma che attraversava le spire del destino stesso.

Quando Tizoq colpì, il mondo tremò. La rottura del cuore di Atlantan fu la rottura di un mondo intero. Le forze distruttive scatenate dal suo gesto furono tanto potenti quanto le forze naturali che si ribellano contro gli abusi. Terra e mare si fusero in una danza infernale. Le città furono inghiottite dalla terra che si frantumava, i fiumi furono sommersi da onde travolgenti, e il cielo si accese di un fuoco bianco e purpureo. Non c’era più traccia della magnificenza di Atlantan, che giaceva ora sotto il peso di un disastro che non avrebbe mai più visto la luce del sole.

Ciò che segue, dopo questo cataclisma, è un silenzio inquietante. Un mondo distrutto. Eppure, la sua memoria rimane: nella distruzione, nell'inquietudine, nell'ineluttabilità del destino. Non fu solo una fine, ma anche un avvertimento. I tempi di grandezza sono sempre fragili, sempre più vicini alla rovina di quanto si possa credere. Le civiltà, che credono di essere immortali, possono scomparire in un batter d'occhio. È questa la lezione che il mondo di Atlantan insegna, un avvertimento che trascende tempo e spazio, risuonando attraverso le epoche.

La domanda che sorge, alla fine, non è tanto come è finita Atlantan, ma piuttosto perché. Perché i cicli di potere e corruzione devono inevitabilmente condurre alla rovina? La risposta potrebbe essere nascosta nel cuore pulsante della civiltà stessa: dove il potere diventa fine a se stesso, dove la violenza sostituisce la giustizia, e dove l'ambizione umana, disconoscendo il suo limite, porta alla catastrofe.

Chi sono i popoli del mare e perché si nascondono da noi

Aana. Un nome che Eric comprese istantaneamente, come se il suono stesso risvegliasse in lui un'eco sopita. Nel momento di pericolo estremo, quando i tentacoli del mostro marino lo trascinavano verso l'abisso, lei era apparsa: una creatura bianca e sottile, armata di un coltello di conchiglia, decisa a lottare. Aana apparteneva a quel popolo sommerso che Eric aveva sempre cercato, guidato da un richiamo antico e silenzioso nel sangue: i popoli del mare, quelli da cui proveniva sua madre.

Il linguaggio che Aana parlava era fatto di vibrazioni profonde, suoni liquidi che sembravano parte integrante dell'acqua stessa. Quando finalmente capì il suo nome sulle sue labbra — “Eric” — fu come se una barriera invisibile si fosse infranta. C’era una familiarità ancestrale in tutto: nei gesti, nei corpi, nei volti degli altri che si radunarono attorno a loro.

Aana lo guidò attraverso le acque, fendendo l’oceano con movimenti lievi e precisi, fino a una barriera corallina dove il fondale si popolava di strane piante molli e coralli ramificati. Lì, in quel silenzio azzurro e verde, si rivelò una città: piccole grotte scavate nel corallo pallido, chiuse con blocchi di pietra marina, intorno a cui nuotavano bambini, uomini e donne. Nessuno più alto, nessuno più forte: i corpi erano snelli, uguali, armoniosi. Gli uomini non dominavano le donne, né i vecchi i giovani. Tutti avevano occhi scuri e profondi, e tutti portavano coltelli di conchiglia o asce primitive legate con pietre.

Eric fu portato davanti a Nuun, un uomo più anziano, il cui volto portava il peso del comando e della memoria. Fu Aana a parlare per lui, spiegando chi era e da dove veniva. Eric sentì su di sé gli sguardi scrutatori, il silenzioso giudizio del popolo. E quando Nuun parlò, con voce cupa e profonda, qualcosa cambiò: fu accettato.

Fu lì, tra quelle case di corallo, che Eric imparò a parlare. Aana gli insegnò pazientemente i suoni del loro idioma, mentre fluttuavano insieme tra le luci danzanti del sole filtrato. Parole nate dall’acqua, impossibili da rendere con precisione sulla terraferma. Gli insegnarono a nutrirsi del loro cibo: carne cruda di pesce, boccioli amari di piante marine, molluschi profumati. Quando giungeva il buio e le acque si facevano oscure e fredde, il popolo si ritirava nelle grotte, chiudendo le entrate con i massi. Dalle profondità salivano allora creature cieche e affamate, in cerca di prede.

Fu in una di quelle notti che Eric vide, da una fessura, le ombre nere e informi passare silenziose, come presenze dimenticate dal tempo. E comprese quanto fosse precario quell’equilibrio, quanto fragile la sopravvivenza dei popoli del mare.

Poi, con le parole, arrivò la storia. Nuun parlò. Raccontò di un tempo antico in cui la razza marina e quella terrestre erano sorelle, quando le acque costiere erano piene di villaggi sommersi. Ma la crescita smisurata degli uomini di terra, la loro espansione inarrestabile, aveva portato alla fuga. Sempre più in profondità, sempre più lontano. Le pressioni abissali e l’oscurità eterna resero impossibile la vita nei fondali più profondi. E così, solo in pochi luoghi nascosti come quel banco corallino, il popolo marino poté sopravvivere.

Non erano più che una manciata, ormai. Ogni volta che le navi degli uomini di terra si avvicinavano, si nascondevano. Non per paura — ma per memoria. Perché sapevano cosa era stato fatto. I rapporti erano stati di dominio, di caccia, di violenza. Gli uomini non avevano mai cercato l’incontro: solo la conquista.

Quando Eric raccontò chi era, che sua madre veniva dal mare ma suo padre era un uomo della terra, vide negli occhi di Nuun e di Aana il sorgere di un dubbio, come un'ombra che offuscasse la luce del primo incontro. Nuun lo disse apertamente: “Se lo avessimo saputo prima, forse non ti avremmo accolto.” Perché, per quanto Eric sentisse il richiamo del mare, per loro egli era metà dell’altra razza — quella degli invasori.

E tuttavia, una domanda restava sospesa. Nuun la pose con una gravità che scendeva come pietra nell’acqua: “Gli uomini della terra si ricordano ancora di noi, o ci hanno dimenticati del tutto?” Una domanda che conteneva in sé il peso dell’estinzione, del silenzio, del tempo che cancella. Eric rispose: “Non vi hanno dimenticati completamente.”

La verità era amara. Nessuno parlava più apertamente dei popoli del mare. Erano diventati leggenda, favola per bambini o superstizione per pescatori. Ma il timore persisteva, come un’eco. Perché anche la terra non dimentica del tutto ciò che ha tradito.

Oltre a quanto narrato, è essenziale comprendere che il popolo del mare rappresenta una memoria culturale perduta, una possibilità alternativa di esistenza. Non si tratta solo di una razza diversa, ma di una forma di civiltà non verticale, non fondata sul potere o sullo sfruttamento,

Qual è l’unica possibilità di neutralizzare un gas letale ormai fuori controllo?

La furia di una sostanza dimenticata torna a invadere i cieli. Il Methyl-Arse ijp Hydrate, un gas abbandonato anni prima per la sua eccessiva letalità nei conflitti di massa, ricompare come spettro chimico nei cieli di un mondo che non ha saputo sottrarsi alla propria inclinazione distruttiva. Le sue esalazioni, una volta contenute nei limiti delle installazioni industriali, si sono ormai mescolate ai fumi delle battaglie perdute, delle città bruciate, delle case scomparse nel silenzio improvviso del disastro. I venti commerciali, spirando con costanza attorno