Nel contesto attuale, la responsabilità di aggiornare le proprie competenze ricade sempre più sull’individuo stesso, sia che si tratti di un lavoratore STEM considerato raro, sia di un lavoratore non STEM apparentemente più abbondante. Questo fenomeno è legato a un drastico calo della formazione fornita dalle imprese, che spinge chiunque voglia mantenere la propria competitività sul mercato a individuare autonomamente quali abilità sviluppare, trovare il tempo per formarsi spesso oltre l’orario lavorativo e finanziare personalmente questa formazione.

Il problema è particolarmente acuto per i lavoratori STEM, soggetti a quella che è stata definita la “treadmill delle competenze”, una corsa continua e inesorabile in cui, pur possedendo un titolo di studio pertinente, chi non riesce ad apprendere le nuove tecnologie e abilità indispensabili per il proprio ruolo rischia di diventare presto obsoleto. In questi settori, infatti, il rapido progresso tecnologico non consente di fermarsi, poiché la realtà lavorativa può mutare radicalmente rispetto a quanto studiato all’università.

Esempi lampanti di rivoluzioni tecnologiche che hanno sconvolto il lavoro di molti professionisti STEM sono rappresentati dall’avvento di internet e dall’innovazione introdotta dagli smartphone, in particolare l’iPhone, che ha reso l’accesso alla rete un’esperienza ubiqua e mobile, trasformando profondamente il modo di concepire lo sviluppo web e molte altre professioni connesse. La velocità con cui queste trasformazioni avvengono è tale che persino predire i futuri cambiamenti, come il possibile impatto del metaverso, dei veicoli elettrici o dell’intelligenza artificiale, risulta estremamente arduo e incerto. Tuttavia, è certo che ogni nuova tecnologia comporterà un ulteriore sforzo di adattamento per i lavoratori coinvolti, in particolare quelli più strettamente legati ai settori tecnologici avanzati.

Questa dinamica coinvolge anche i tecnici senza una laurea, i quali possono trovarsi in difficoltà se la formazione ricevuta non corrisponde più alle esigenze del mercato, come dimostrato dal caso di un college della Silicon Valley che, nonostante un programma formativo specializzato per tecnici di apparecchiature costose, ha visto la mancata assunzione degli allievi a causa del cambiamento repentino delle richieste tecnologiche. L’assenza di responsabilità da parte dei datori di lavoro e la natura “usa e getta” di molte figure professionali rappresentano un ulteriore problema sistemico, che si riflette in una continua dispersione degli investimenti educativi.

Storicamente, il concetto di obsolescenza delle competenze non è nuovo. Gli studi economici hanno mostrato come l’innovazione possa esercitare pressioni sui lavoratori, ma finché la formazione tiene il passo con il progresso, l’occupabilità può essere mantenuta. Nei decenni passati, ad esempio, la formazione continua e l’aggiornamento professionale permettevano ai lavoratori in settori a rapido cambiamento tecnologico di avere carriere durature, anche se con l’età e la comparsa di innovazioni improvvise alcune competenze potevano perdere valore rapidamente.

Negli anni Novanta, durante la diffusione di internet, la questione della formazione continua ha ricevuto grande attenzione istituzionale. Rapporti governativi e commissioni parlamentari sottolineavano la necessità di aggiornare costantemente le competenze dei lavoratori IT, ponendo l’accento sul fatto che il percorso formativo tradizionale non poteva esaurirsi con il diploma o la laurea, poiché la tecnologia evolveva più rapidamente delle capacità di aggiornamento delle università. L’idea che un lavoratore, soprattutto in campo tecnologico, debba investire da 1,5 a 2 ore al giorno in formazione per mantenere la propria rilevanza professionale è stata ribadita più volte anche negli anni recenti.

Per i professionisti STEM, dunque, il rischio non è solo di perdere un lavoro, ma di vedere rapidamente scadere il proprio bagaglio di competenze se non si impegnano in un costante processo di apprendimento e adattamento. Questo non riguarda solo la capacità tecnica, ma anche la comprensione delle implicazioni di nuove tecnologie e dei loro impatti sul mercato del lavoro e sulle modalità operative.

È importante inoltre considerare che la formazione non deve essere vista come un semplice onere individuale, ma come un processo che coinvolge sistemi educativi, imprese e politiche pubbliche, affinché si crei un ambiente favorevole alla crescita continua delle competenze. La mancanza di sostegno da parte delle aziende e la frammentazione delle offerte formative rappresentano infatti ostacoli significativi al progresso professionale, generando un circolo vizioso che rischia di compromettere non solo il futuro dei singoli lavoratori, ma anche la competitività delle intere economie.

In questo scenario, diventa fondamentale riconoscere che la formazione continua non è un optional ma una necessità imprescindibile. Chiunque voglia mantenere una posizione attiva e valorizzata nel mondo del lavoro, soprattutto nei settori ad alta innovazione tecnologica, deve essere pronto a un impegno costante, che supera le competenze acquisite al momento della laurea o dell’ingresso nel mercato. La flessibilità, l’adattabilità e la predisposizione all’apprendimento permanente rappresentano le chiavi per navigare con successo il complesso e mutevole panorama lavorativo contemporaneo.

Perché così tanti laureati STEM abbandonano le carriere nei loro campi?

L’infrastruttura del commercio americano ha generato una domanda massiccia di lavoratori esperti in informatica e tecnologia dell’informazione (IT). Tra il 2002 e il 2012, i posti di lavoro nel settore internet sono aumentati del 634%, mentre quelli nel software del 562%. Anche la ricerca nelle scienze della vita ha registrato una crescita esplosiva, del 300%, pur partendo da una base più ridotta. Sebbene i media spesso definiscano questi lavori come “tecnologici”, si tratta in realtà di una gamma di occupazioni che attraversa trasversalmente tutti i settori economici.

Secondo un rapporto della Burning Glass, la maggioranza dei lavori STEM sono lavori IT ma al di fuori delle imprese tecnologiche classiche. Nel 2018, infatti, le offerte di lavoro IT al di fuori delle aziende tech erano 6,2 milioni, con un incremento del 65% rispetto al 2013, mentre negli stessi anni le offerte nel settore tech sono cresciute del 40%, raggiungendo circa 740.000 posti. I settori principali che assumono personale IT includono servizi professionali, finanza, assicurazioni, manifatturiero, sanità e istruzione, settori che generalmente non richiedono ingegneri, scienziati della vita o chimici.

L’azienda General Assembly, specializzata nella formazione di sviluppatori e designer di esperienza utente, serve clienti in ambiti eterogenei come media, servizi professionali, assicurazioni, banche e beni di consumo. Anche compagnie aeree come Delta e banche come JPMorgan Chase sono tra i maggiori datori di lavoro per sviluppatori software.

Nonostante la vastità e la complessità della categoria STEM, la narrativa dominante enfatizza l’istruzione per le cosiddette “professioni STEM tradizionali”. Tuttavia, il fenomeno più significativo è l’esodo dei laureati STEM dai loro settori di formazione. Studi basati su dati del 2017 indicano che più della metà dei laureati STEM non lavora in occupazioni STEM. Questa tendenza è stabile da oltre un decennio e rappresenta una perdita enorme e strutturale, non una semplice “fuga” accidentale.

Le cause non sono attribuibili a un singolo settore. Anche i laureati in ingegneria, che sembrano trattenere una percentuale leggermente superiore, perdono quasi metà dei loro laureati da queste professioni. Le scienze informatiche e matematiche, pur essendo quelle con la domanda maggiore, mostrano un tasso di abbandono intorno al 50%. Le scienze fisiche e affini perdono circa il 60% dei loro laureati, mentre la situazione più critica riguarda le scienze biologiche, agricole e della vita, dove solo il 20% dei laureati lavora nel campo specifico.

L’esodo non è un fenomeno riservato ai lavoratori più anziani in cerca di nuove sfide: una percentuale elevata di neolaureati STEM si allontana immediatamente dal settore. Ricerca di Lowell e Salzman mostra che il 45% dei laureati STEM trova lavoro in ambiti non STEM e il 20% continua gli studi senza mantenere l’orientamento STEM, con un totale di circa il 65% che abbandona il settore subito dopo la laurea.

Le differenze di genere e di etnia incidono sui numeri, ma anche tra i soli uomini bianchi si osserva un esodo consistente. È errato pensare che il fenomeno riguardi solo le discipline di base poco applicate, perché anche i settori più pratici, come l’informatica e l’ingegneria, registrano tassi elevati di abbandono immediato. Le università producono molti più laureati in informatica e ingegneria rispetto alle assunzioni effettive in questi campi.

Non è possibile attribuire l’abbandono a una scarsa preparazione o a performance accademiche insufficienti: i laureati con i voti più alti lasciano STEM tanto quanto gli altri. Molti dei migliori studenti decidono di abbandonare le carriere STEM dopo alcuni anni, quando le loro competenze iniziano a essere messe alla prova in contesti lavorativi reali.

È importante comprendere che l’esodo massiccio dai lavori STEM indica una discrepanza fondamentale tra la formazione e le aspettative o le condizioni lavorative. Il settore STEM non è un blocco omogeneo e la domanda di lavoro è diversificata; inoltre, la scelta di lasciare un lavoro STEM può riflettere dinamiche personali, culturali e strutturali che vanno oltre la semplice disponibilità di posti di lavoro. Capire queste dinamiche è cruciale per sviluppare politiche educative e di lavoro più efficaci, che possano realmente valorizzare e trattenere i talenti STEM.