Il potere di una nave, di una galera, non risiede solo nella maestria dei marinai o nella solidità della sua struttura. Esso emerge dalla sinergia tra l'uomo, il legno, il ferro, e il mare stesso, che diventa un elemento tanto temuto quanto ambito. Questo legame sottile tra il guerriero e il suo vascello è raccontato in modo vivido nella scena che si svela con la forza di un incantesimo, dove l'imperativo di superare la tempesta coincide con il richiamo di un'antica avventura. Quando Fafhrd, il protagonista, si ritrova in mezzo al mare tempestoso, percepisce un legame che va oltre il materiale, un contatto quasi sensoriale con il passato della sua gente e con il desiderio insopprimibile di affrontare l'ignoto.
Il racconto descrive il momento in cui Fafhrd, pur consapevole delle imperfezioni della sua imbarcazione, continua a combattere la forza della natura, cercando di capire come la sua creatura di legno e corda possa affrontare l'urto dell'acqua e del vento. L'atto di costruire una nave, con tutta la cura nel rafforzare le parti più vulnerabili, diventa in un certo senso una metafora della lotta dell'uomo contro il suo destino, contro l'ineluttabilità di un mondo che non lascia spazio alla debolezza.
Fafhrd, impegnato a rafforzare la sua nave, aggiungendo tratti di ingegnosità come gli outriggers, si trova anche di fronte a una realtà più grande, quella del mare in tempesta, che non conosce misericordia. La sua esperienza, l'abilità acquisita, non può nulla contro la forza primordiale dell'acqua e del vento. Così, la barca diventa un simbolo di vulnerabilità e di resilienza insieme. L’istinto di sopravvivenza, l'adrenalina di fronte all'incertezza, non solo determinano l'esito della battaglia tra il corpo dell'uomo e gli elementi, ma anche tra il suo passato e il presente.
Nel momento in cui Fafhrd vede emergere dalla nebbia il volto della galera nemica, la sua immaginazione si fonde con la realtà: la nave che aveva visto nei suoi sogni, o forse evocato, ora diventa carne e ossa, qualcosa di tangibile, che lo avvolge con la sua oscurità. Questo incontro, al limite tra il sogno e la realtà, risveglia in lui una connessione primitiva con l'antico desiderio di conquista, di esplorazione e di violenza, che accomuna le sue radici e quelle dei suoi nemici. La lotta fisica che ne segue non è solo una difesa del corpo, ma anche una difesa dell'identità, del senso di chi è e da dove proviene. La lotta tra i due mondi, il mare e l'uomo, il passato e il presente, è fatta di tensioni sottili, di un gioco di forze che non sempre ha una risposta semplice.
La scena si complica ulteriormente con l'arrivo dell'avversario: il combattimento tra Fafhrd e i soldati della galera non è solo una guerra di spade e sangue, ma un conflitto simbolico. Ogni movimento del corpo, ogni affondo e ogni parata, sono scanditi dal respiro del mare, dall’alternarsi delle onde, che conferiscono una vitalità primitiva alla lotta. Non si tratta di un duello fra due uomini qualsiasi, ma fra esseri che incarnano, in modo più o meno consapevole, la potenza e la fatalità degli elementi.
Ma oltre alla lotta esteriore, c’è anche un altro tipo di lotta interiore che Fafhrd affronta mentre si trova nel bel mezzo del conflitto. La sua lotta contro la galera nemica e le sue forze avverse riflette, in qualche modo, la sua lotta interiore con l’incertezza e il senso di appartenenza, la paura di essere sopraffatto dalle circostanze, dal destino. Il paesaggio marino, la tempesta che non si placa, diventano il campo di battaglia in cui non si gioca solo con la vita e la morte, ma con il significato profondo della propria esistenza.
L'incontro con i soldati nemici porta Fafhrd a un momento di chiarimento. La vista delle due spade puntate contro di lui non è solo la minaccia fisica che può incutere paura, ma una metafora della lotta più grande, quella contro il destino stesso, contro la forza che sembra volerlo sopraffare. La presenza di un nemico che sembra uguale a lui, ma che è in realtà diverso, evoca la lotta tra identità e alterità, un tema che spesso attraversa la storia dell'umanità.
Per Fafhrd, la tempesta, la galera nemica e i suoi combattimenti fisici rappresentano un simbolo di un'esperienza più grande: la consapevolezza che l'uomo, pur potendo modellare il proprio destino, è sempre alla mercé delle forze esterne. La sua forza fisica, il suo coraggio e la sua astuzia sono strumenti di resistenza, ma non garantiscono mai la vittoria definitiva. Questo riflette una realtà che ogni lettore può riconoscere: siamo tutti, in un certo senso, in balia di forze più grandi di noi, eppure non possiamo fare a meno di lottare, di resistere.
Che cos'è la realtà? Un viaggio tra visioni e illusioni
Verso le otto di sera, preoccupati per la sua lunga assenza, stavamo per partire alla sua ricerca quando, inaspettatamente, fece il suo ritorno, in salute non peggiore del solito e con un umore addirittura più vivace del normale. La sua narrazione riguardo l'avventura e gli eventi che lo avevano trattenuto fu davvero straordinaria.
«Ricorderete,» iniziò, «che era circa le nove del mattino quando lasciai Charlottesville. Mi diressi subito verso le montagne, e verso le dieci entrai in una gola che mi era del tutto sconosciuta. Seguii con interesse le pieghe di questo passaggio. Il paesaggio che si apriva intorno a me, benché non fosse propriamente grandioso, aveva un aspetto indescrivibile e, per me, meravigliosamente malinconico. La solitudine sembrava assolutamente vergine. Non potevo fare a meno di credere che i manti erbosi e le rocce grigie su cui camminavo non fossero mai stati calpestati prima da un essere umano. Così isolato, e in effetti inaccessibile, tranne che per una serie di incidenti, era l'ingresso della gola che non sarebbe impossibile pensare che io fossi l’unico e il primo avventuriero ad averne penetrato i recessi.»
La nebbia densa, tipica dell'Estate Indiana, che ora avvolgeva ogni cosa, non faceva che amplificare le impressioni vaghe e incomprensibili che quel paesaggio suscitava. «La nebbia era così fitta che non riuscivo mai a vedere più di una dozzina di passi davanti a me. Il sentiero era tortuoso, e poiché il sole non era visibile, ben presto persi ogni nozione della direzione. Nel frattempo, l’effetto della morfina si fece sentire, come al solito, conferendo un’intensità particolare a tutto ciò che mi circondava. Nel tremolio di una foglia, nel colore di un filo d'erba, nella forma di un trifoglio, nel ronzio di un’ape, nel luccichio di una goccia di rugiada, nel respiro del vento, nei lievi odori provenienti dalla foresta, ogni piccolo dettaglio si trasformava in un mondo intero di suggestioni e pensieri caotici e gioiosi.»
Passeggiando in questo stato, per diverse ore, la nebbia si fece sempre più fitta fino a che, alla fine, fui costretto a procedere a tentoni. «A un certo punto, un’indefinibile sensazione di disagio mi assalì, una sorta di esitazione nervosa. Temetti di camminare troppo lontano e precipitare in un abisso. Mi tornavano in mente strani racconti sui Ragged Hills e sulle razze primitive che popolavano i loro boschi e le loro grotte. Un mille di fantasie vaghe mi opprimevano e disorientavano. Ma all’improvviso, la mia attenzione fu catturata dal suono forte di un tamburo.»
«La sorpresa fu immensa. Un tamburo in quelle colline? Un suono che non avevo mai udito. Non sarei stato più sorpreso se avessi sentito il suono della tromba dell’Arcangelo. Ma una nuova fonte di confusione, ancora più stupefacente, si aggiunse: un rumore selvaggio, simile al tintinnio di un mazzo di grosse chiavi, e subito dopo, una figura scura e mezzo nuda mi passò accanto con un grido. Mi sfiorò talmente da sentire il suo respiro caldo sulla faccia. Teneva in mano uno strano strumento composto da un insieme di anelli d’acciaio, e li scuoteva con forza mentre correva. Non appena sparì nella nebbia, una gigantesca bestia, ansimante e con gli occhi fissi, lo inseguì. Non avevo dubbi su quello che fosse: un iena.»
La visione di quella bestia, per quanto terrorizzante, fu in qualche modo rassicurante. «Mi resi conto che stavo sognando e cercai di svegliarmi. Mi fermai, mi stropicciai gli occhi, chiamai ad alta voce, mi pizzicai le braccia. Un piccolo ruscello apparve davanti a me, e mi chinai a sciacquarmi le mani, il collo e la testa. Questo sembrò dissipare le strane sensazioni che mi avevano tormentato. Mi alzai, sentendomi rinato, e ripresi il cammino.»
Esaurito dall’esercizio e dalla calura opprimente, mi sedetti sotto un albero. «Poi, un flebile raggio di sole apparve, e l’ombra delle foglie dell’albero cadde in modo sottile e preciso sull’erba. Rimasi a guardarla per minuti, stupefatto. L’aspetto di quella ombra mi colpì profondamente. Guardai in alto. L’albero era una palma.»
Senza preavviso, un’ansia feroce mi assalì. «Non era più un sogno. Ora ero consapevole, ero perfettamente lucido. Ma tutto ciò che vedevo, sentivo, pensavo mi trasmetteva una sensazione di sconvolgente novità e singolarità. Il caldo divenne insopportabile. Un odore strano appesantiva l’aria. Un mormorio basso e continuo, simile a quello di un fiume tranquillo ma ampio, giunse alle mie orecchie, mescolato con il suono di numerose voci umane.»
Mentre ascoltavo, un colpo di vento rimosse la nebbia come per magia. «Mi trovai ai piedi di una montagna, guardando giù su una vasta pianura, attraversata da un fiume maestoso. Alla sua foce, una città dall’aspetto orientale si estendeva, più singolare di quanto avessi mai immaginato, come quelle descritte nelle fiabe arabe. Era una città intricata e piena di vita, le strade si intrecciavano in direzioni casuali, e le case erano affollate di balconi, minareti e templi. Lungo le strade affollate, bancarelle vendevano stoffe preziose, coltelli scintillanti, gioielli magnifici. Tra la folla di uomini di pelle scura e gialla, vestiti di turbanti e vesti lunghe, vi erano anche tori sacri e scimmie che si arrampicavano sugli orli dei minareti. Il fiume, tra le navi cariche di merci, sembrava fare fatica a fluire.»
Guardando oltre, la città era circondata da palme e alberi antichi, e in lontananza si vedevano piccoli villaggi e templi isolati. «Potreste pensare che stessi sognando. Ma non era così. Ciò che vedevo, sentivo e pensavo aveva una coerenza perfetta. Non c’era nulla che somigliasse a un sogno. Ogni sensazione era auto-consistente, e mi convinse che ero pienamente sveglio.»
In effetti, l’esperienza raccontata mostra una percezione che sfida la realtà convenzionale, un mondo in cui la mente crea paesaggi e scene che si combinano con le sensazioni fisiche e psichiche, portando l’individuo a una realtà parallela, alla quale sembra di appartenere. Questo tipo di esperienza dimostra la capacità della mente umana di alterare la percezione della realtà, creando uno spazio ambiguo dove il confine tra sogno e veglia si dissolve. Questo fenomeno non è solo un esercizio di immaginazione, ma riflette anche una riflessione profonda sulla natura della percezione e della coscienza.
In un Paese di Ciechi: Un Viaggio nella Percezione e nell’Adattamento alla Realtà
Il terreno era sconnesso, le sue scarpe ormai sfuggite, e il cappotto lo avvolgeva sulla testa. La lama che aveva nel taschino non c’era più, e nemmeno il cappello, che era stato legato sotto il mento. La sua mente vagava, ricordando il momento in cui cercava pietre libere per sollevare una parte del muro di rifugio. Il picco da ghiaccio, che avrebbe dovuto essere la sua ancora di salvezza, era scomparso. La sua consapevolezza divenne incerta, e il pensiero che avesse probabilmente fatto una caduta sembrava l'unica spiegazione. Alzando gli occhi, si rese conto, enfatizzato dalla luce spettrale della luna che stava sorgendo, della tremenda discesa che aveva compiuto. Per un po’ rimase disteso, fissando senza emozione il grande sperone di roccia che svettava sopra di lui, alto, mentre si ergeva lentamente dalla marea oscura che si stava ritirando. La bellezza spettrale e misteriosa di quella visione lo tenne lì per qualche istante, poi fu preso da un impeto di riso scomposto, in un contrasto crudele con la sua condizione.
Dopo un tempo che gli parve interminabile, iniziò a rendersi conto di essere vicino al bordo inferiore della neve. Giù, su un pendio che ora era illuminato dalla luna, riuscì a scorgere l’aspetto scuro e frantumato di un terreno roccioso coperto di erba. Con fatica si alzò, sentendo ogni giuntura e ogni muscolo in subbuglio. Scivolò giù dal mucchio di neve, faticando a raggiungere il prato, dove si abbandonò su una roccia, bere dalla bottiglia nascosta nel suo cappotto, e crollò addormentato.
Si svegliò al suono degli uccelli, il canto che giungeva lontano, proveniente da un punto più basso. Si sedette e si rese conto di essere su un piccolo altopiano ai piedi di una maestosa parete rocciosa, scavata da un torrente che aveva seguito in discesa. Di fronte a lui, un altro muro di roccia si stagliava contro il cielo. La gola tra queste due formazioni correva da est a ovest, inondando il paesaggio con la luce del mattino, che illuminava a ovest il massiccio di montagna crollato, chiudendo la gola. Osservò con attenzione il paesaggio, trovando al di sotto di sé un precipizio altrettanto ripido, ma dietro la neve nel canalone si intravedeva una sorta di fessura, un camino che gocciolava acqua di neve, giù per cui forse un uomo disperato avrebbe osato scendere. Il sentiero sembrava più semplice di quanto si fosse aspettato e alla fine raggiunse un altro altopiano desolato. Salì su per una roccia che non gli creò particolari difficoltà e poi, arrampicandosi su una ripida pendenza di alberi, si ritrovò su un sentiero che lo portava verso una valle, dove notò una serie di capanne di pietra, strane e sconosciute.
Ogni passo che compiva era simile a un’ascensione lungo una parete di roccia, ma l'orizzonte si allargava man mano che proseguiva. Lì, sul fondo della valle, intravide un piccolo villaggio che si distendeva ordinatamente tra i prati verdi, le cui coltivazioni erano curatissime. Un muro circondava l'intera valle, intersecato da canali di irrigazione che nutrivano i campi e le piante di fiori splendidi. Non c’erano tracce di vita caotica: tutto sembrava essere disposto con un ordine quasi urbano, un’armonia tra la natura e la mano dell'uomo. Il villaggio era composto da case singolari, molto diverse da quelle che conosceva nelle montagne. Sembravano essere disposte lungo una strada centrale che appariva incredibilmente pulita, e la loro facciata, colorata in modo irregolare, sembrava quasi invocare la figura di un artigiano cieco che avesse creato quei muri così imperfetti.
Arrivato alla base del villaggio, vide delle figure che si riposavano sotto il sole, i bambini stesi sull'erba e uomini che camminavano con piani apparentemente ripetitivi, le loro teste coperte da cappelli di stoffa. La loro andatura non tradiva affatto alcuna consapevolezza di chi fosse, di ciò che c’era intorno. L'esploratore rimase confuso: urlò, ma nessuno sembrava accorgersi di lui. Persino il loro atteggiamento di non vedere lo fece riflettere su una teoria: "Devono essere ciechi". La convinzione che questa fosse la Terra dei Ciechi, di cui aveva tanto sentito parlare nelle leggende, lo assalì con un misto di sorpresa e avventura.
Le tre figure non lo guardavano mai negli occhi. I loro volti non erano solcati da linee di comprensione visiva. Piuttosto, i loro occhi erano chiusi, le palpebre sgonfie, e si concentravano sui suoni dei suoi passi, sui suoi movimenti, ascoltando piuttosto che guardando. Un uomo, uno dei ciechi, pronunciò delle parole che sembravano confuse: “Un uomo, forse un fantasma, che scende dalle montagne.” Nunez, con fiducia, fece un passo avanti. “Sono venuto da oltre le montagne,” disse, “da una terra dove gli uomini vedono.”
Nella sua mente risuonava un vecchio proverbio: "Nel Paese dei Ciechi, l'uomo con un occhio è re". Ma era davvero così semplice? Se davvero erano ciechi, come avrebbe potuto dominare su di loro, quando la loro intera esistenza era costruita attorno a un altro modo di vedere la realtà, dove la vista non aveva alcun ruolo? La loro percezione del mondo era fondata su sensazioni, su suoni, su odori, e su un'interazione più profonda con la natura che li circondava. Quella che inizialmente sembrava una condizione di inferiorità diventava una realtà alternativa, completamente autosufficiente e, in un certo senso, ideale. La vera domanda non era se l'uomo con un occhio fosse re, ma cosa fosse la vera percezione della realtà: la visione fisica o quella che nasce da un’altra sensibilità?

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