Nel campo dei dispositivi a emissione di luce bianca (WLE) basati su materiali organici, i recenti sviluppi hanno portato alla realizzazione di sistemi altamente efficienti che sfruttano composti organici per emettere luce bianca di qualità. Un esempio significativo di questo progresso è l’impiego del composto N,N-bis(-naphthyl)-N,N-difenil-1,1-bifenil-4,4-diammina (NPB), che, combinato con (mdppy)BF, è stato utilizzato in un dispositivo elettroluminescente per ottenere un'emissione di luce bianca tramite la formazione di excimeri alla giunzione tra questi due materiali. Questa scoperta ha aperto la strada allo sviluppo di dispositivi a molecola singola in grado di emettere luce bianca ad alte prestazioni, sfruttando l'emissione da exciplex [110].
Samanta et al. hanno contribuito con una molecola organica denominata L3, progettata specificamente per produrre WLE all'interno di un sistema a componente singola. L3 è in grado di modulare il colore dell'emissione a seconda delle frazioni di acqua in una miscela metanolo-acqua, grazie alla sua capacità di emettere in diverse lunghezze d'onda. La struttura molecolare di L3 si trova rappresentata nella Figura 3.11 [111]. Questi studi evidenziano la versatilità dei composti organici nella generazione di luce bianca e aprono nuove prospettive per la realizzazione di dispositivi ottici più economici e funzionali.
Una delle direzioni più promettenti nella ricerca di materiali WLE è rappresentata dai sistemi di co-assemblaggio composito. Questi sistemi combinano vari materiali o composti fluorescenti per generare luce che appare bianca all'occhio umano. La miscela di furocoumarina (FC), anilina dansilica (DA) e acido idrossicumarina-3-carbossilico (CC), ad esempio, è stata progettata per generare una WLE quasi pura. Questa miscela è stata integrata in aerogel di silice, creando un materiale di rivestimento adatto per LED UV. In questo contesto, il materiale ha mostrato un indice di cromaticità CIE di (0.27, 0.33), suggerendo una emissione molto vicina alla luce bianca pura [112].
Un ulteriore passo avanti è stato fatto dai ricercatori Del Guerzo e colleghi, che hanno dimostrato l'auto-assemblaggio di un organogelatore emettente luce blu, denominato Composto B, combinato con tetraceni altamente fluorescenti (Composti G e R). Questa combinazione ha permesso la formazione di nanofibre con proprietà emittenti regolabili. Modificando la proporzione di componenti verdi e rossi, è stato possibile ottenere una emissione di luce bianca dalle nanostrutture formate. Le caratteristiche spettacolari di queste strutture, con rese quantiche impressionanti (circa 26%), potrebbero avere applicazioni notevoli per lo sviluppo di materiali versatili con proprietà emittenti regolabili [113, 114].
In parallelo, l'uso di sistemi polimerici ha mostrato risultati altrettanto promettenti. Ad esempio, il copolimero di poliammide (PAM) TPE-SP-PAM, che incorpora monomeri di tetrafeniletilene (TPE) e spiropirana (SP), ha dimostrato una gamma di emissioni che va dal verde-blu al bianco, arrivando fino a tonalità arancioni-rosse. Questo spettro di emissione è il risultato dell'interazione tra la luce ultravioletta e visibile all'interno della struttura polimerica. Questo materiale esibisce caratteristiche uniche di foto-cromismo e di emissione di luce bianca [115].
Un altro esempio di innovazione è il fluoroforo organico multifunzionale BPPTA, che presenta una emissione arancione-rossa. BPPTA, attraverso l'uso di due unità push-pull separate da un rotore biphenilico, ha dimostrato un'eccezionale efficienza fotoluminescente grazie ai fenomeni di trasferimento di carica intramolecolare e di miglioramento dell'emissione indotta dall'aggregazione. Le miscele di BPPTA e i suoi copolimeri sono state in grado di modulare l'emissione da bianco brillante ad arancione-rosso, con un notevole rendimento quantico di fotoluminescenza (φPL) del 69,1% [116].
Infine, un interessante approccio è stato proposto da Ramaiah e collaboratori, che hanno sviluppato miscele di fluorofori indipendenti di rosso, verde e blu, incorporandoli in una matrice di polietilenglicole (PEG) per creare film emissivi di luce bianca ternari. Questi film, progettati con fluorofori specifici, hanno mostrato prestazioni straordinarie in termini di emissione di luce bianca.
L’aspetto fondamentale che emerge da queste ricerche è l'importanza di combinare diverse tecnologie e materiali per ottenere una luce bianca altamente efficiente e versatile. Ognuna di queste innovazioni rappresenta un passo avanti nella ricerca e sviluppo di dispositivi di illuminazione più sostenibili e ad alte prestazioni, sfruttando le potenzialità dei materiali organici. Le sfide future includono la realizzazione di dispositivi più economici, stabili e facilmente scalabili per l'industria, ma anche la possibilità di regolare le caratteristiche di emissione con maggiore precisione per applicazioni in ambienti specifici.
Come le tecniche di autoassemblaggio chimico e il bonding dei wafer influenzano la fabbricazione dei dispositivi semiconduttori
L'autoassemblaggio chimico è una metodologia fondamentale nel campo della fabbricazione dei dispositivi semiconduttori, in particolare per la creazione di strutture tridimensionali complesse utilizzando nanoparticelle colloidali. Questo processo si basa sull'uso di SAM (monostrati auto-assemblanti) composti da molecole organiche che, grazie alla loro capacità di aderire chimicamente a substrati solidi, facilitano la disposizione ordinata di particelle colloidali in strutture altamente organizzate. In particolare, uno degli organosilani più utilizzati per la formazione di SAM è l'Octadecyltrichlorosilane (OTS), apprezzato per la sua disponibilità, semplicità e la capacità di formare strati robusti e densi. Questo tipo di monostrato è solitamente sintetizzato su wafer di silicio puri con superfici di SiO2.
Le tecniche di bonding dei wafer sono altrettanto cruciali per la realizzazione di dispositivi complessi, in quanto consentono di unire diversi materiali o funzionalità su un singolo chip. Il bonding di wafer implica la fusione di due wafer separati, che possono essere interi o segmenti, attraverso diversi metodi, tra cui il bonding diretto e il bonding con materiali intermedi. Il bonding diretto è uno dei metodi più complessi, in quanto richiede un ambiente privo di particelle e una preparazione accurata della superficie del wafer. La preparazione include diverse fasi, tra cui la planarizzazione, la pulizia e l'attivazione della superficie del wafer, ciascuna delle quali gioca un ruolo fondamentale nel determinare la qualità e la forza del legame.
Nel processo di bonding diretto, la planarizzazione della superficie dei wafer può essere realizzata attraverso la lucidatura chimico-meccanica (CMP), che non solo migliora la planarità, ma funge anche da passaggio di pulizia, eliminando le contaminazioni superficiali. Tuttavia, per wafer con pattern incisi o topografie superficiali variabili, il CMP può causare problemi come l'effetto di "dishing" o erosione. Una volta ottenuta una superficie liscia, il passo successivo è una pulizia approfondita per rimuovere particelle, contaminazioni organiche e ioniche, poiché questi contaminanti possono compromettere la qualità del bonding. La pulizia segue generalmente un procedimento standard, come la sequenza di pulizia RCA, che utilizza una miscela di perossido di idrogeno, idrossido di ammonio e acqua deionizzata, seguita da un risciacquo con acido cloridrico.
L'attivazione della superficie del wafer è un altro passaggio cruciale nel bonding diretto. L'obiettivo di questa fase è aumentare l'energia superficiale disponibile e terminare i legami pendenti, che sono altamente reattivi. A seconda delle condizioni, è possibile eseguire il bonding diretto sia su superfici idrofobiche che idrofili, ma generalmente si preferisce l'attivazione della superficie per ottenere una superficie idrofila, poiché questo tipo di superficie offre una maggiore energia superficiale e favorisce il processo di adesione. La differenza tra superfici idrofobiche e idrofili è rilevante, poiché le superfici idrofobiche possono presentare maggiori difficoltà durante il bonding diretto, mentre le superfici idrofile sono generalmente più facili da unire.
Un altro approccio al bonding dei wafer implica l'uso di materiali intermedi. Il bonding termo-compressione è una tecnica che prevede la saldatura a stato solido di due superfici sotto l'azione combinata di calore e pressione. Il materiale di bonding preferito in questo caso è l'oro (Au), grazie alla sua resistenza all'ossidazione, alta conduttività elettrica e capacità di formare un'adeguata barriera di diffusione quando utilizzato con SiO2 tra il silicio e l'oro. Questo processo ha il vantaggio di richiedere temperature più basse rispetto al bonding a fusione, che necessita di temperature superiori ai 800°C.
Un'altra tecnica comune è il bonding eutettico, che si forma tipicamente tra oro (Au) e silicio (Si). Questo tipo di legame viene utilizzato per creare connessioni stabili tra i materiali, sfruttando le caratteristiche di fusione dei materiali coinvolti.
L'adozione di queste tecniche avanzate di bonding e autoassemblaggio chimico è essenziale per la realizzazione di dispositivi semiconduttori miniaturizzati e altamente funzionali, che si rivelano cruciali nell'ambito delle tecnologie moderne, come i circuiti integrati e i dispositivi a stato solido. La sfida rimane, tuttavia, nell'ottimizzare queste tecniche per massimizzare l'efficienza dei processi di fabbricazione, ridurre i difetti e garantire una qualità costante nella produzione su larga scala.
È importante comprendere che il successo di queste tecniche non dipende solo dalla perfezione tecnica delle fasi di preparazione e bonding, ma anche dalla capacità di monitorare e controllare le variabili ambientali durante il processo. La contaminazione, la temperatura, l'umidità e la composizione dei materiali sono fattori che devono essere costantemente monitorati per evitare difetti nei dispositivi finali. Pertanto, l'integrazione di metodi avanzati di caratterizzazione e controllo in tempo reale delle superfici e delle condizioni di bonding è un passo fondamentale per migliorare l'affidabilità e le prestazioni dei dispositivi semiconduttori.
Qual è la storia dell’evoluzione dei materiali emittenti luce bianca (WLEMs)?
Nel XIX secolo, il fenomeno della fluorescenza venne scoperto dal fisico britannico Sir George Gabriel Stokes. Egli osservò che certi minerali emettevano luce visibile quando venivano esposti alla luce ultravioletta (UV). Negli anni successivi, il concetto di fluorescenza venne sviluppato ulteriormente, in particolare a partire dalla scoperta della radioattività naturale da parte di Henri Becquerel nel 1896, che portò a studi approfonditi sull’utilizzo dei materiali fluorescenti, tra cui applicazioni per il rilevamento delle radiazioni.
Nel 1903, Stokes coniò il termine "fluorescenza", e da lì in poi la fenomenologia di questo processo fu oggetto di studi più approfonditi. La scoperta della fluorescenza portò all’uso di vari fosfori, sostanze che emettono luce visibile quando eccitate da radiazioni ultraviolette o altre forme di energia. Questi fosfori divennero il cuore della tecnologia dell'illuminazione fluorescente, che iniziò a essere utilizzata a livello commerciale negli anni '20 del Novecento, grazie all'introduzione della prima lampada fluorescente commerciale da parte della General Electric nel 1927. Queste prime lampade utilizzavano uno strato di silicato di zinco come fosforo e producevano luce bianca.
Le lampade fluorescenti divennero popolari soprattutto nell'industria e nel commercio per la loro durata maggiore e l’efficienza energetica rispetto alle lampadine a incandescenza. Negli anni successivi, i ricercatori continuarono a sviluppare e perfezionare i materiali fluorescenti, migliorando la qualità del colore e l'efficienza luminosa. Negli anni '30, l'illuminazione fluorescente cominciò a guadagnare terreno in vari settori grazie alla sua maggiore efficienza energetica rispetto alle lampadine a incandescenza.
Con l’arrivo delle lampade a fluorescenza compatte (CFL) negli anni '80 e '90, la tecnologia dell'illuminazione fluorescente si estese anche nelle case e negli uffici. L’ulteriore evoluzione ha portato alla transizione verso tecnologie ancora più efficienti come i LED, che stanno lentamente sostituendo le lampade fluorescenti in molte applicazioni. Tuttavia, i materiali fluorescenti continuano a essere utilizzati in alcune applicazioni specialistiche, come il retroilluminamento degli schermi LCD e in soluzioni di illuminazione particolari.
Nel contesto dello sviluppo dei LED, negli anni '60 vennero creati i primi LED blu, ma la vera innovazione avvenne negli anni '90, quando Shuji Nakamura sviluppò il primo LED blu ad alta luminosità basato sulla tecnologia del nitruro di gallio (GaN). Questo progresso aprì la strada alla creazione di LED bianchi, una sfida tecnica che venne risolta combinando i LED blu con fosfori in grado di emettere luce gialla. Questo approccio risultò in una luce bianca che divenne la base per l’illuminazione a LED.
Nel 1991, la Nichia Co. riuscì a produrre il primo LED blu che, combinato con un fosforo giallo, creava luce bianca, una vera e propria rivoluzione nel campo dell’illuminazione. Questo tipo di tecnologia si è evoluto ulteriormente e oggi i LED bianchi sono utilizzati in una vasta gamma di applicazioni, dall’illuminazione domestica a quella pubblica, dallo schermo dei dispositivi portatili all'illuminazione stradale.
Negli anni '80, i lampioni fluorescenti triphosphor vennero introdotti, utilizzando una miscela di tre fosfori per ottenere una luce bianca con un ampio spettro, migliore qualità cromatica ed efficienza energetica. Nonostante il predominio dei LED oggi, queste lampade continuano ad essere impiegate in alcune situazioni, mantenendo una loro rilevanza storica nell’evoluzione dell’illuminazione.
Con l’introduzione dei LED bianchi, che combinano diverse lunghezze d'onda della luce, si è aperto un nuovo capitolo nell’illuminazione solida (solid-state lighting - SSL), che comprende l’utilizzo di questi LED per sostituire le tradizionali lampadine a incandescenza e fluorescenti. La tecnologia SSL è oggi uno degli sviluppi più significativi nell'industria dell'illuminazione, offrendo soluzioni più efficienti e versatili per una vasta gamma di esigenze.
La tecnologia dei LED bianchi ha continuato a progredire, dando vita a diverse modalità per ottenere luce bianca, come l'uso di chip UV o violetto combinati con materiali fosforici, un approccio che riprende l’idea dell’illuminazione fluorescente ma con un’efficienza superiore. Con il miglioramento dei materiali, come i quantum dots e i micro-LED, si è aumentata ulteriormente la qualità e l'efficienza luminosa dei sistemi di illuminazione.
Oltre a questi sviluppi tecnologici, è importante notare che l’adozione dei LED ha portato a una riduzione significativa del consumo energetico globale, a fronte di una maggiore durata e di un miglioramento generale della qualità della luce rispetto alle tecnologie precedenti. Inoltre, la continua ricerca ha aperto nuove possibilità, come l’integrazione dei LED con altre tecnologie, creando nuovi orizzonti per applicazioni ancora più avanzate nel campo dell’illuminazione.

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